di Tania Careddu

Si nutre del paradosso di chi, dando da mangiare al mondo, muore di fame. Iniquo e insostenibile, il sistema alimentare. Non solo perché ottocento milioni di esseri umani sono afflitti da fame cronica ma, soprattutto, perché il sistema si concentra nelle mani di un’esigua élite, portatrice di interessi governativi e imprenditoriali.

Costituitoda dieci multinazionali del cibo su scala globale - ABF, Coca Cola, Danone, General mills, Kellogg, Mars, Mondelez, Nestlè, PepsiCo, e Unilever - genera oltre un miliardo di dollari al giorno, coinvolgendo tutti i soggetti del sistema, dai piccoli produttori al consumatore medio. Una filiera produttiva, ampia e articolata, che interessa terra, acqua e cambiamento climatico, donne, agricoltori e lavoratori, fino alla trasparenza.

Premesso che, avendo assunto la consapevolezza di aver applicato politiche e modelli di business sbagliati, le dieci multinazionali hanno promesso a Oxfam, curatrice del Rapporto “In cammino verso un sistema alimentare sostenibile, stringenti impegni per renderlo davvero tale”, ancora nel, 2016, il cambiamento strutturale (l’unico necessario) tarda a trasformarsi in prassi.

Per cui, tentenna l’interesse verso il tema dei diritti fondiari e le politiche in proposito sono ancora poco credibili: di fatto, il fenomeno dell’accaparramento delle terre del sud del mondo, sfrattando da esse i produttori di piccola scala, rimane un problema da risolvere.

Oltre che cacciati dal land grabbing, di vitale importanza per l’approvvigionamento di derrate agricole, sono ricompensati, dai colossi in questione con meccanismi di fissazione dei prezzi del tutto svantaggiosi e con la negazione della possibilità di aggiudicarsi un’equa percentuale di valore nell’ambito della filiera.

Una dinamica che si ripercuote pure sui lavoratori della filiera, che sono senza voce né rappresentanza: lavoro forzato e spesso insicuro, negazione dei diritti umani e della libertà, semplici salari di sussistenza, ed eccessivo numero di ore lavorate. Lo scarso impegno per il giusto empowerment dei lavoratori agricoli fa il paio con quello rivolto allo stesso delle donne, componente cruciale ai fini della sicurezza alimentare e dello sviluppo economico. Fino al 2013 i giganti dell’industria alimentare sono stati carenti nell’affrontarne le specifiche problematiche all’interno delle proprie filiere.

Le quali, tra l’altro, producono la maggior parte delle emissioni totali di gas serra e necessitano di un consumo di acqua sproporzionato rispetto alla scarsità idrica che flagella il pianeta.

Tutto questo senza sapere se i capitani d’industria pagano le imposte dovute nei paesi in cui svolgono le loro attività o ricorrano, piuttosto, ai paradisi fiscali per sottrarsi agli obblighi contributivi.

Difficile, comunque, plaudire alla trasparenza (non solo in ambito fiscale) se nessuna delle multinazionali rende noti, in modo sistematico e facilmente consultabile, i propri fornitori e le relative materie prime.

Più chiaro, invece, il concetto che conciliare reddittività e interesse sociale sia l’ingrediente più difficile da digerire.

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