di Tania Careddu

Eccidi riassunti in numeri ma privi di identità. Questo è il volto dell’invasione  - mediatica più che reale - del Paese da parte degli immigrati. Il 2016 è stato l’anno della ‘grande immigrazione’ sui media, occupatasi del tema inventato con circa dieci notizie al giorno e con un aumento di oltre il 10 per cento rispetto al 2015.

Articoli, titoli e servizi televisivi sull’argomento sono sempre più frequenti ma vengono presentati a basso volume. Senza clamore, come un fenomeno ormai ‘normale’: se ne parla con continuità, in modo strutturale e pervasivo. Non più un’emergenza, dunque, ma una ‘questione’ politica, sul piano della comunicazione mediata, tradizionale. Sull’altro, quella immediata, senza filtro, dei social, l’immagine degli immigrati è estremizzata, fino a raggiungere dimensioni e linguaggi profondamente intolleranti.

La normalizzazione del fenomeno, nel sistema dei vecchi mezzi di comunicazione, ha portato a un abbassamento dei toni: il discorso d’odio, che dilaga nei social network e trova alimento nella cattiva comunicazione, è lungi ormai dall’essere pronunciato o scritto da quell’informazione in cui la politica, nell’anno appena trascorso, è stata la protagonista, in un caso su due, del racconto mediatico del fenomeno migratorio. Una mediazione che ha generato una sorta di ‘metabolizzazione’, spesso sfociato in conflitto aperto, a colpi di insulti razzisti e violenti.

I migranti come pedine del futuro dell’Europa, le rotte che percorrono, il terrorismo come serpe in seno, l’accoglienza e i flussi migratori rimangono, secondo quanto si legge nel rapporto “Notizie oltre i muri”, redatto, come ogni anno, dall’Associazione Carta di Roma, i temi al centro dell’agenda mediatica ai quali, nel 2016, si aggiunge un’accresciuta visibilità per la dimensione sociale e culturale dei migranti.

Ma alla loro voce e al racconto diretto delle loro storie non è destinato che il 3 per cento dei servizi giornalistici. Interpellati solo nelle tragedie o in cornici di degrado, i loro interventi sono piuttosto brevi e i migranti interscambiabili fra di loro: trattati come una categoria senza facce, stigmatizzati in gruppi massificanti, sono vittime senza nome e, perciò, senza identità.

Esponendoci tutti, spettatori alla meno peggio dicotomizzati fra accuse di razzismo ed eccesso di buonismo all’insegna della libertà di espressione, al vero rischio dell’indifferenza. A una distanza che si accentua di fronte alla spersonalizzazione che ci rende spettatori passivi di ciò che accade, di altri esseri umani. Diversi eppure uguali a noi.

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