Duemilaseicento testimonianze dirette di migranti transitati dalla Libia in Italia non lasciano adito a dubbi: a farla da padrone, violenze sistematiche intenzionali, trattamenti inumani e degradanti.

 

“Siamo stati portati in una prigione a Tripoli, chiamata Zanzoo (Janzur, n.d.r.). Io e mio marito siamo stati portati in parti differenti della prigione. Ci hanno chiesto mille dinari per essere rilasciati (621 euro, n.d.r.), ma noi non ne avevamo. Io ero in una stanza con altre settantadue donne, non c’era spazio per stendersi e io ero sempre seduta sulle mie braccia sotto le gambe. Il cibo era pieno di vermi, ho passato quasi un mese senza mangiare praticamente nulla. C’era solo un bagno per settantacinque persone. Sono stata ripetutamente picchiata, ho anche visto due uomini picchiare una persona fino a ucciderla. Dopo otto mesi, un poliziotto ha liberato mio marito ma lo ha costretto a lavorare per lui in un autolavaggio. Dopo due mesi anche io sono stata rilasciata e ho raggiunto mio marito nell’autolavaggio, fino a quando il poliziotto ha deciso di andarsene a Tunisi a causa degli scontri in Libia e ha organizzato il viaggio in Italia”.

 

 

E’ la testimonianza, una delle tanta, raccolta da Medici per i diritti umani (MEDU) nel Rapporto sulle condizioni di grave violazione dei diritti umani dei migranti in Libia (2014-2017), di una donna nigeriana di ventisei anni ospitata nel CAS di Ragusa, fuggita a causa delle persecuzioni politiche nel paese d’origine, principale motivazione che spinge alla migrazione dall’Africa Subsahariana occidentale, alla quale si aggiungono quelle di stampo economico e, nel Corno d’Africa, l’obbligatorietà a tempo indeterminato del servizio militare, paragonabile ai lavori forzati. Ai quali, per mesi o anni, in condizioni di vera e propria schiavitù, sono sottoposti i migranti: non remunerati, l’industria dello sfruttamento è la principale fonte di reddito della Libia.

 

Detenuti in luoghi sovraffollati e in pessime condizioni igienico-sanitarie, deprivati di cibo, acqua e cure mediche, percossi e stuprati, ustionati con gli strumenti più disparati e costretti in posizioni stressanti, i migranti giunti dalla Libia hanno subito oltraggi, torture e, sebbene invisibili, continue umiliazioni. Spesso più insidiose e invalidanti dei segni fisici, le conseguenze psicologiche della violenza subita, non solo comportano un peggioramento e una cronicizzazione del quadro clinico già alterato, ma provocano gravi difficoltà nel loro percorso di integrazione nei paesi d’asilo.

 

Che avvengano nei luoghi di detenzione con una parvenza istituzionale – stazioni di polizia, carceri, centri di detenzione – o per mano di gruppi criminali, le violenze perpetrate nei confronti dei migranti hanno sempre un movente d’odio e di disprezzo razziale, sono connotati dal sadismo, logica tristemente nota nei campi di concentramento, all’insegna di atrocità dalla valenza del tutto gratuita allo scopo di estorcere denaro alle vittime in cambio della liberazione.

 

Anche nei centri di raccolta ufficiali dei migranti in Libia – foyers o connection house – gestiti sia da libici sia da africani subsahariani assoldati da gestori libici, dove i migranti pagano una quota di soggiorno a fine mese, le violenze sono all’ordine del giorno tra rapine e sequestri da parte di gruppi criminali, i quali, come gli Asma boys, gestiscono i ghettos, ‘luoghi speciali’ di detenzione in cui i migranti subiscono abusi inauditi, nella totale impunità. Nove migranti su dieci hanno riferito di aver visto qualcuno morire, essere ucciso o torturato.

 

“Eravamo sudanesi, eritrei ed etiopi, siamo arrivati ad Al Kufra e di lì subito ci hanno portato a Bani Walid (citta della Tripolitania a 150 chilometri da Tripoli, dove ci sono i campi di prigionia). Sono stato un anno e tre mesi in prigione. Eravamo tante persone, dall’Etiopia, Eritrea e Sudan, rinchiusi in un’unica stanza con poco cibo e poca acqua. Gli arabi ci torturavano tutti i giorni. Ci prendevano e ci legavano ci mettevano su di un tavolo e ci picchiavano sotto le piante dei piedi con una barra di ferro. Alcune persone venivano torturate con scariche elettriche. Mentre erano al telefono con le famiglie. Ho visto morire più di quaranta persone”, racconta un sudanese di ventisette anni ai Medici per i diritti umani operanti nell’hotspot di Pozzallo.

 

Alcuni sopravvissuti sono stati costretti a perpetrare le stesse torture ad altri migranti per evitare di essere uccisi. “Mentre stavo andando a Tripoli – dice un senegalese di venti anni – sono stato sequestrato da una banda armata e portato in un carcere nei pressi di Bani Walid. Mi hanno rinchiuso in una stanza con altre duecento persone provenienti prevalentemente dal Gambia e dalla Nigeria. I banditi entravano ogni giorno all’interno della stanza e sceglievano le persone senza motivo, le picchiavano e le torturavano. Obbligavano gli altri prigionieri a tirare le corde legate attorno ai corpi per sollevarli da terra alcuni metri e poi a lasciare la presa facendoli cadere rapidamente a terra. Hanno costretto anche me a tirare le corde. Mi sento condannato per quello che ho fatto, mi hanno obbligato a fare cose che non avrei mai voluto fare”.

 

In conseguenza dell’accordo italo-libico saranno pure diminuiti drasticamente gli imbarchi dalle coste libiche verso quelle italiane ma relativamente alle atrocità subite nei centri di detenzione e nei luoghi di sequestro niente è cambiato. In meglio.

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