C’è un liceo classico di Roma, il Visconti, che nell’intenzione di autopromuoversi ha deciso di raccontarsi nel modo peggiore e con le peggiori parole. A cinquant’anni dal 1968 e dalla “scuola di Barbiana”, sarebbe colpevole sottovalutare o  banalizzare quello che è successo in un luogo che è comunque un liceo pubblico.

 

La disputa gira innanzitutto attorno al tema del merito: la qualità dell’insegnamento di un liceo - si dice - deve riconoscere e premiare il merito e, quindi, non possono essere ammessi i poveri, i disabili, gli immigrati (si intende soprattutto neri). Ma che c’entra questo con la didattica? Ci si arrampica sugli specchi per non apparire quello che invece, mostruosamente, si è.  

 

 

Certo -si dice- ci mancherebbe, tutti hanno diritto all’istruzione, è un diritto costituzionale, ma non tutti possono accedere al liceo perché qui vale il merito. Si può andare al tecnico, a qualsiasi altra scuola (come se in queste il merito non contasse) ma al liceo classico no, perché questo è il luogo per le menti fini, per le intelligenze speciali. Ma chi ha mai dimostrato che un povero, o disabile o straniero possa esserne privo? O viceversa, che gli studenti ricchi, “italianissimi e normalissimi” ne siano invece abbondantemente provvisti?

 

Come dovrebbe essere ovvio, il merito è cosa da valutare e quindi non può che essere un indicatore che si misura ex post. Se si presume ex ante si chiama pregiudizio, stigma, discriminazione. O meglio, per essere precisi da un punto di vista dei principi costituzionali, si chiama razzismo. 

 

Allora si comprende che attorno alla parola merito - la cui importanza e necessità tutte le persone che  conoscono la fatica ma anche il fascino dello studio e della conoscenza riconoscono - c’è in realtà un affollarsi di altre ambigue e pericolose convinzioni.  Si nasconde un pensiero retrivo, respinto dalla storia, ma che ancora pretende di avere legittimità nel dibattito pubblico, soprattutto oggi.

 

D’altra parte quello che succede al liceo Visconti non è un fatto a parte rispetto a quello che sta succedendo nel nostro paese. I rigurgiti razzisti e fascisti, fino ai fatti di Macerata, pescano in un substrato di profondo disagio sociale e di pulsioni identitarie che ricercano rassicurazioni semplificatorie di fronte alla complessità della realtà, rappresentate da richieste identitarie, di appartenenze comunitarie forti, legate al territorio, al sangue,  alla razza. Il “noi” e il “ loro” non sono più termini descrittivi delle differenze, dinamici verso la loro armoniosa composizione, ma diventano termini pericolosamente antitetici, gravidi di spinte distruttive ed escludenti.  

 

E allora, la richiesta del liceo Visconti è anche mostruosa per questo, perché impone un modello di istruzione sempre più lontano da quello previsto per la scuola pubblica, che deve essere plurale, democratica, emancipante soprattutto verso chi non può partire dalle stesse condizioni di vantaggio.

 

Quello che traspare dall’autopromozione del Visconti è l’idea di una scuola per gli studenti ricchi, italiani e normali, simili tra loro, ben collocati al’interno della stessa fortezza, contro la contaminazione dei “diversi”. Una dove le diversità sono soltanto variabili compatibili rispetto all’unico modello dominante di uno studente che dovrà essere competitivo e vincente, protagonista delle future classi dirigenti.

 

E’ una scuola di classe, per chi può permettersela, con una famiglia benestante, istruita, con relazioni sociali brillanti, con case piene di libri; insomma - come si dice - della “buona società”. Quella “cattiva” resta ovviamente fuori, ad affollare gli altri istituti scolastici.

 

Una cosa è certa: in quel liceo forse l’insegnamento del latino e del greco continueranno ad essere eccellenti ma la cultura di quegli studenti sarà terribilmente ferita, perché c’è una abissale differenza tra le abilità conoscitive e la cultura vera, che è anche e soprattutto cultura della cittadinanza, quella che la scuola pubblica deve garantire. Anche a costo di insegnare a chi insegna.

  

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