Ogni anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) promuove in tutto il  mondo la “Giornata mondiale della Salute”. La data è il 7 aprile, per ricordare che il 7 aprile del 1948  è stata fondata l’OMS. Ogni anno viene scelto  un tema, su cui promuovere l’attenzione e l’azione dei governi. Quest’anno il tema è la “Copertura sanitaria universale: per tutti e dovunque”.

 

Un obiettivo “alto”: garantire cioè a ciascuno e in ogni luogo servizi sanitari di buona qualità e senza barriere economiche, che costringono le persone alla scelta forzata tra assistenza sanitaria e altri bisogni primari, e che dovrebbe essere raggiunto entro il 2030, in linea con i Sustainable Development Goals (2015).

 

 

Dovrebbe, appunto. Infatti, nonostante le dichiarazione enfatiche del direttore dell’OMS, l'etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, che "la salute è un diritto umano, nessuno dovrebbe essere malato o morire a causa della povertà, o perché non può accedere ai servizi sanitari di cui necessita", la situazione è drammatica e questo obiettivo resta non solo disatteso ma persino tradito nei paesi dove i sistemi sanitari dovrebbero essere da tempo universalistici e pubblici.   

 

Secondo l’OMS, 2,6 miliardi di persone non hanno accesso a servizi sanitari adeguati. Ogni anno nel mondo muoiono di diarrea 1,5 milioni di persone; ogni giorno, 4mila bambini muoiono di diarrea a causa dell’acqua sporca; ogni ora, 300 persone muoiono per malattie legate al virus Hiv. Almeno la metà della popolazione non fruisce di una copertura per le prestazioni sanitarie essenziali, circa 100 milioni di persone cadono in una condizione di “povertà estrema” (vivono con meno di 2 dollari al giorno) per aver dovuto pagare per l’assistenza sanitaria, il 12% della popolazione impiega almeno il 10% della sua disponibilità economica per spese sanitarie.

 

Ma  anche la  situazione della regione europea dell’Oms non brilla per la tutela dell’equità nella salute delle categorie più svantaggiate. E in Italia, che pure nell’indice messo a punto da Oms, Banca mondiale e altri partner per quantificare i progressi verso la copertura sanitaria universale appare in una buona posizione (80 punti su una scala da 0 a 100), le disuguaglianze nell’accesso alla salute sono sempre più evidenti.  

 

Per agevolare il passaggio dalle parole ai fatti, si dovrebbero porre domande in questi decenni restate inascoltate. Quali sono le cause di  questo aumento delle disuguaglianze? Se gli Obiettivi di sviluppo del millennio avevano già stabilito che entro il 2015 la copertura sanitaria doveva arrivare al 75% e il costo stimato per raggiungere questo traguardo era di 14 miliardi di dollari all’anno, la domanda è: perché non è successo? Dove stanno e chi deve garantirla con risorse?  E soprattutto: come si concilia l’obiettivo della copertura sanitaria universale con le politiche di austerità, di privatizzazione della sanità, delle compatibilità che ancora sono imperanti?

 

L’obiettivo dell’OMS impone una riflessione molto seria e rigorosa su questi decenni di politiche economiche, subalterne e tutte intrinseche a quella globalizzazione spacciata  come un processo inevitabile e vantaggioso per tutti. Addirittura il dibattito sulla globalizzazione era considerato, sia dai partiti di sinistra sia da quelli di destra, un argomento del tutto chiuso;  addirittura Tony Blair  nel 2005 sosteneva che mettere in discussione la globalizzazione era come mettere in discussione il fatto che dopo l’estate c’è l’autunno!  

 

E invece proprio nel 2005, contro la globalizzazione e contro le diseguaglianze da essa generate, un importante Rapporto è stato redatto dalla Commissione sui determinanti sociali di salute, istituita dall’OMS e presieduta da Michael Marmot (e di cui facevano parte anche Amartya Sen e Giovanni Berlinguer). Il messaggio centrale del Rapporto era riassunto così: “Affrontare queste diseguaglianze - le enormi e rimediabili differenze nella salute all’interno dei paesi e tra le nazioni - è una questione di giustizia sociale. Ridurre le iniquità nella salute è un imperativo etico. L’ingiustizia sociale sta uccidendo le persone su larga scala”.

 

Oggi siamo ancora qui. Le sfide planetarie che si abbattono sullo stato di salute delle persone - guerre, cambiamenti climatici, disoccupazione, migrazioni, politiche nazionali di privatizzazione, misure di austerità, disuguaglianze diffuse - rimandano sempre di più ai determinanti sociali della salute e alle necessità di rilanciare questo diritto attraverso politiche pubbliche di protezione sociale universale, di equità, di accesso ai diritti, a tutti  diritti sociali non solo sanitari.

L’Europa insiste a imporre politiche di austerità ai paesi membri che causano un disinvestimento pubblico nella sanità e nella protezione sociale.

 

Così, il ruolo del mercato diventa sempre più preponderante in diversi settori della sanità. Per questo la coordinatrice della “Rete europea contro la commercializzazione della salute”, Sarah Melsens, denuncia - proprio nella Giornata mondiale della salute - che “in tutta Europa, milioni di persone hanno sperimentato e sperimentano difficoltà sempre maggiori nell’accesso alle cure, una riduzione nella qualità delle cure, la chiusura e la privatizzazione dei servizi sanitari, il deterioramento delle condizioni di lavoro per gli operatori e le operatrici della salute, un aumento dei prezzi dei farmaci e nel frattempo gli operatori commerciali in campo sanitario aumentano i loro margini di profitto. Queste politiche hanno e avranno effetti catastrofici sulla salute delle persone”.

 

A 40 anni dall’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale con la legge 833 del 1978, la Giornata mondiale sulla salute assume quindi per il nostro paese un significato particolare e potrebbe essere una grande occasione per rimettere al centro del dibattito politico il tema della Sanità pubblica, e cioè dell’universalismo. “Copertura sanitaria universale” è l’obiettivo dell’OMS, ma da noi - dove appunto da 40 anni dovrebbe esserci un sistema a copertura universalistica - come si concilia con l’enfasi e la retorica della cosiddetta “sostenibilità” del sistema? Come si traduce nella nuova ideologia dell’”universalismo selettivo”?

 

Mentre la sanità pubblica continua a soffrire di tagli al suo finanziamento, con un Fondo sanitario nazionale che si riduce da 116 a 111 miliardi, con l’impossibilità di garantire certezza per i farmaci innovativi, per gli investimenti (il 40% delle strutture sanitarie è stato costruito prima degli anni quaranta), per adeguare i contratti degli operatori, avviene che in nome della sostenibilità del sistema si introduce il cosiddetto “secondo pilastro” dei finanziamenti privati, dei mercati assicurativi e che venga persino votata la defiscalizzazione di questi fondi assicurativi, anche con l’adesione dei sindacati di categoria. I costi saranno a carico di tutti ma ne beneficeranno solo alcuni e la spesa pubblica per la sanità ne sarà ovviamente ridotta, con la conseguenza che  si costruiranno due sanità, una per chi può e l’altra per chi non può permettersela.

 

E sebbene nel suo documento conclusivo la Commissione Sanità del Senato, nel gennaio di quest’anno, afferma che “la sostenibilità della sanità pubblica non è un problema economico, ma politico ed un sistema è tanto più sostenibile quanto più noi vogliamo che lo sia” e che, quindi, il tema non è garantire tout court la sostenibilità ma invece garantire la sostenibilità per garantire l’universalismo, avviene che viene votato in Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio. Per la sanità pubblica è la certificazione del suo inesorabile declino: “sostenibilità” contro “universalismo”, termini che diventano inconciliabili.

 

Questa Giornata mondiale della salute impegna i governi, gli stati ma anche la stessa OMS. Infatti non è ininfluente il destino, le linee di indirizzo futuro di questa istituzione pubblica. Gli Stati Membri potrebbero evitare il suo declino, già in atto, ma garantiscono  solo il 35,8% dei fondi all’Oms - di cui solo il 21% utilizzabili con una certa discrezionalità- mentre aumenta la penetrazione del settore privato nelIa definizione delle priorità. Occorre ridare le regole, a partire da quanto stabilito con la FENSA (“Framework of Engagement with Non State Actors”, relazione con gli attori non statali). 

 

Il mercato, le  fondazioni filantropiche e le diverse partnership oggi possono infatti entrare in relazione ufficiale con l’Oms senza affrontare il problema del loro conflitto di interessi. Basti pensare al colosso della Fondazione Bill e Melinda Gates (BMGF), la più grande fondazione filantropica del mondo, con una dotazione di 42,9 miliardi di dollari, che ha dato all’Oms un contributo di 629 milioni su 4,5 miliardi di dollari dell’ultimo budget, cioè più del 13% di tutti i contributi volontari all’organizzazione, inclusi quelli dei governi.

 

Questa Fondazione, però, da una parte finanzia l’OMS dall’altra realizza profitti investendo in industrie alimentari e in prodotti che minacciano la salute (per esempio, nell’industria della Coca-Cola in America latina o nella più grande catena di cibo, di farmaceutici e di alcolici negli USA e tanto altro). Non è dai filantropi, dunque, che può arrivare la distinzione netta tra salute e affari, che può essere messa a valore solo con le politiche pubbliche. Una Giornata quindi da non sprecare, per continuare battaglie antiche ma che sono modernissime: la difesa della sanità pubblica universalistica e la tutela del diritto alla salute come il “diritto forte” che riconosce e promuove tutti gli altri diritti.

  

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