Sbarchi in calo, discorso chiuso. E, invece, siccome a prescindere dagli sbarchi, il numero di stranieri in Europa, Italia compresa, è in aumento, il discorso deve rimanere aperto. Perché non basta gestire i flussi per governare le migrazioni, bisogna, piuttosto, intervenire sull’integrazione. Cominciando dal basso. Dalle città, quelle più grandi e tecnologicamente più avanzate perché (potenzialmente) offrono migliori opportunità per accedere ai servizi pubblici, a reti sociali più capillari e al mondo del lavoro.

 

 

Il pericolo, però, è che, poiché i bilanci delle amministrazioni comunali sono stati messi a dura prova da anni di austerity ed essendo aumentato il livello di povertà e di marginalizzazione dei nativi, le politiche per l’integrazione vengano percepite come un sottrazione di risorse che potrebbero essere destinate a scopi più nobili. Ma le città sottoposte a pressioni più aderenti alla realtà sociale, diventano “ribelli” a difesa delle minoranze da integrare, facendo riferimento a quadri giuridici e istituzionali che trascendono lo Stato, per la possibilità di constatare da vicino i problemi che le politiche di esclusione (a livello centrale) causano all’intera comunità, compromettendone la coesione.

 

Perché le città non solo sono contesto ma anche “attore istituzionale” di rilievo nella gestione del fenomeno migratorio perché è lì che si concretizza il processo di accoglienza, orientate e costrette, come sono, a interventi più pragmatici con lo scopo di soddisfare al meglio bisogni ed esigenze immediate (rispetto a una politica nazionale più plasmata da orientamenti ideali).

 

Certo, il quadro è eterogeneo e a complicare la gestione, per le città, vi è la peculiarità dei rifugiati e dei richiedenti asilo: sono portatori di una migrazione non scelta, né da loro stessi né dalle società deputate ad accoglierli. Ma tant’è. Escludere una parte (ormai integrante, volenti o nolenti) della popolazione dai servizi di prevenzione e dall’assistenza sanitaria, per esempio, è fortemente controproducente poiché l’esclusione sociale è determinata anche da una mala interazione tra lo stato di salute e i determinanti sociali.

 

Allora, una via per l’integrazione che parta dalle città globali non può più prescindere dall’assicurare un alto livello “di garanzia delle pari opportunità educative, della tolleranza e della valorizzazione delle diversità culturali e dell’interazione positiva fra persone con background differenti nei contesti formativi”, si legge nel documento Le città globali e la sfida dell’integrazione, a cura dell’ISPI.

 

Con l’auspicio che avvenga anche in Europa quanto sta accadendo negli Stati Uniti: alle politiche restrittive dell’amministrazione Trump rispondono le cosiddette “città santuario” che mirano a diventare rifugi sicuri anche per i migranti irregolari.

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