Seppure lontani dai riflettori mediatici, esistono conflitti sempre accesi. Dei trecentosettantotto contati nel 2017, quello che l’opinione pubblica italiana ricorda più di tutti è quello siriano. Delle altre crisi (in corso nel continente africano, nel Messico e nelle Filippine), a ricordarle è solo il 3 per cento. E il livello di amnesia è piuttosto elevato: il 14 per cento non ricorda nemmeno un attentato terroristico e il 24 per cento neanche una guerra.

 

D’altronde, stando ai dati riportati nel VI dossier Conflitti dimenticati. Il peso delle armi, redatto da Caritas, i mezzi di informazione nazionali non aiutano a ricordare: considerando le tre principali testate quotidiane - Corriere della Sera, La Stampa e La Repubblica - nei periodi novembre e dicembre 2017 e maggio e giugno 2018, il numero di articoli sulle crisi (dimenticate) dello Yemen, della Somalia, dell’Ucraina non supera i nove di media.

 

Tra gli altri conflitti che la narrazione giornalistica omette ce n’è uno - quello in Somali, appunto - che va avanti da un quarto di secolo e, in passato, ha segnato la storia italiana con passaggi in ombra, come gli scandali della cooperazione e i traffici di armi. Le quali incidono sempre più nelle dinamiche legate ai conflitti, arrivando a determinarne il corso.

 

L’Italia è tra i primi dieci paesi al mondo esportatori di armi: nel solo 2017, le autorizzazioni all’esportazione - rilasciate dal nostro ministero degli Esteri - hanno superato i dieci miliardi di euro; di esse, il 57 per cento fa riferimento a nazioni non appartenenti all’Unione europea ma a tanti paesi impegnati nella sanguinosa guerra nello Yemen. Il 50 per cento degli intervistati nel Rapporto sarebbe favorevole a limitare la produzione nostrana di armamenti, evitando, soprattutto, di esportarle laddove le guerre sono in corso; il 31 per cento ritiene che l’industria andrebbe soppressa; il 64 per cento ridurrebbe anche la vendita di armi agli enti privati.

 

Ma esiste un segmento della popolazione del Belpaese – più di quinto – che ritiene giusto produrre armi e laasciarne inalterata la vendita; solo poco meno di un terzo del campione analizzato accetta la possibilità di una guerra e due terzi è contrario. In quindici anni, è scesa, dal 75 al 59 per cento, la percentuale di chi è d’accordo sul fatto che l’Onu non possa decidere di eventuali interventi militari e in tredici anni è cambiato l’orientamento sulla partecipazione dell’Italia alle missioni militari cosicché nel 2005 era favorevole il 70 per cento, nel 2013 si era scesi al minimo storico del 32 per cento e ora si registra una risalita, toccando il 45 per cento.

 

Per fortuna, la grande maggioranza dei mille e settecentottantadue studenti frequentanti la terza media di quarantacinque istituti scolastici sparsi in tutto il territorio nazionale, considera la guerra un “elemento evitabile”, da superare, per il 63 per cento degli alunni, attraverso il progresso culturale e da prevenire con il dialogo e il rispetto dei diritti umani, anche se un ragazzo su cinque ritiene che la guerra sia un “elemento inevitabile”, legato indissolubilmente alla natura umana.

 

D’altronde, nel 2018, solo il 53 per cento ha sentito parlare della Dichiarazione universale dei diritti umani. Condizionando, probabilmente, la percezione delle conseguenze delle guerre. Alla domanda La guerra obbliga tante persone a fuggire dalla propria terra. Secondo te, è giusto che i paesi europei accolgano queste persone? La risposta è stata positiva solo per il 28 per cento degli studenti.

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