di Liliana Adamo


Tra marzo e aprile dello scorso anno i segnali forti arrivarono dalla Francia, un paese che si è sempre caratterizzato come primo consegnatario dei venti contrari che animano l’Europa: la “low cost génération”, appellativo che si sono dati i giovani precari d’oltralpe, assediava Parigi a suon di proteste, mentre Villepin continuava a difendere strenuamente il “ Contrat première embauche”, contratto di primo impiego, con il quale le imprese avrebbero assunto giovani fino a 26 anni per licenziarli nei primi due anni di lavoro senza particolari restrizioni. In Italia si temevano le medesime conseguenze con l’avvento del “lavoro interinale” e l’attuazione del nuovo “statuto dei lavoratori”, consegnato dalla legge Biagi; ma, in realtà, è andata peggio. Il decisionismo dei francesi nello sciopero e nella protesta sembra non contagiarci più di tanto, al suo posto e a distanza di un anno, registriamo soltanto una sorta di malcontento diffuso, d’attesa e rassegnazione.
Per affrontare i temi inerenti a globalizzazione e mercato, bisogna partire da lontano e, nel farlo, ci avvarremo degli interventi di un sindacalista come Tim Costello, classe 1946, militante confederale dei camionisti americani per oltre vent’anni e promotore di svariate iniziative politiche di base, autore (insieme a Jeremy Brecher), di testi incentrati sulle strategie di resistenza al liberismo, il quale, evidenzia le sintomatologie di un’economia “cancerogena e fuori controllo” in sette segnali di pericolo.

Il primo, vale a dire, “la corsa verso il fondo”, riguarda tutti, persone che vivono in paesi ricchi e in quelli poveri. Fatti ormai acquisiti come la perdita di sicurezza nei posti di lavoro negli Stati Uniti, la provvisorietà o la disoccupazione in Europa, l’allargamento della povertà nei paesi del Terzo Mondo, il crollo nei livelli di vita nei paesi dell’ex Unione Sovietica e dell’est europeo, l’opposizione ai diritti umani e sindacali nella maggioranza dei paesi asiatici, sono acuiti dal livellamento verso il basso. Le parole magiche suggerite dall’attuale convergenza economica sono due: concorrenza e competitività sui mercati; la globalizzazione non rappresenta il primo e unico male ma è, certo, la concausa decisiva nella caduta di potere d’acquisto dei salari, la fine della stabilità nei posti di lavoro, unitamente al riscaldamento globale e alla scomparsa della democrazia reale.

La “corsa verso il fondo”, sindrome della globalizzazione, impone l’inasprimento delle condizioni lavorative, sociali ed ambientali per gareggiare sui posti di lavoro e sugli investimenti. Negli anni ottanta, per esempio, le imprese hanno ottenuto “larghe intese” nell’ambito delle trattative sindacali per “la concorrenza dei produttori stranieri” e questo è il leit-motiv che ci tira a fatica da un ventennio a questa parte. In parallelo, si mette in atto il taglio sistematico dei servizi sociali, alloggi popolari, trasporto pubblico, sistemi scolastico e sanitario, nonostante il fatto che la produttività continui ad aumentare, raddoppiata se non triplicata negli ultimi 15 anni.

I salariati statunitensi hanno sperimentato la precarietà molto prima che questa buttasse giù i capisaldi legislativi a sostegno dei lavoratori europei, un nuovo sistema per favorire un mercato globalizzato, salutato dalle classi politiche ed imprenditoriali come la panacea per sopperire alla mancanza d’occupazione. Le grandi imprese, in nome della competitività, hanno rimpiazzato un sistema strutturato e stabile, pattuito col sindacato, con la flessibilità e il subappalto. Nel 1993, negli Stati Uniti, gli occupati attraverso i cosiddetti “lavori temporanei” costituivano già il 20% dell’intera forza-lavoro nazionale, un tasso mai registrato prima e Costello rileva quanto “le famiglie dei lavoratori a tempo parziale, hanno sei volte più probabilità d’essere povere di quelle dei lavoratori a tempo pieno”. Nella forza-lavoro del precariato statunitense sono messi insieme chi subisce già svariate forme di discriminazioni, come gente di colore, latinos, i più giovani (soprattutto i meno abbienti) e i più anziani. Ma la maggioranza dei salariati part-time e a tempo determinato sono donne. E sono donne in maggioranza anche nei paesi europei, a fronte di una doppia discriminazione.

Quali sono gli altri sei punti? La “corsa verso il fondo” porta con sé un crescendo di condizioni collaterali, una sorta di “spirale verso il basso”. Dal momento che un corpo sociale prova ad essere più competitivo e lo fa unicamente riducendo salari, garanzie sociali ed ambientali, cambia analogamente redditi e infrastrutture, spesa pubblica e salari più bassi riveleranno gli spettri della recessione e della stagnazione, validi per tutti, anche se, paradossalmente, chi ha stipendi alti, raddoppia la propria quota sul totale dei redditi nazionali, triplicando il proprio patrimonio.

Con dati provati e statistiche, queste sono le analisi riportate da Tim Costello, per presentare il quadro complessivo in un paese come gli Stati Uniti, tra gli anni ottanta e novanta. La polarizzazione tra "chi ha e chi non ha” è aumentata in modo considerevole, affossando quelle categorie che, in passato, si definivano al sicuro dalla povertà. Lavoratori a medio e basso reddito, operai, terziari, perfino tecnici e “colletti bianchi”, il divario tra ricco e povero si è ampliato, aggiungendo tra gli altri, i lavoratori salariati dell’Occidente industrializzato. Tra il 1982 e il 1990 i paesi debitori del Terzo Mondo hanno pagato ai loro creditori dei paesi ricchi, circa sei miliardi e mezzo di dollari in interessi passivi e altri sei miliardi e mezzo di dollari di pagamenti principali a scadenza mensile, un ammontare pari a quanto il Terzo Mondo spendeva per sanità e scuola; nonostante ciò, nel 1992, il debito di questi paesi era maturato di un ulteriore 60%. In quel periodo, la parabola amara raccontata dai media, era incentrata sul fatto che, nel 1970, il quinto più ricco della popolazione mondiale aveva un reddito trenta volte più alto del quinto più povero, nel 1989, era diventato sessanta volte più alto, perciò il quinto più ricco si compiaceva dell’80% del reddito mondiale e il quinto più povero era rimasto all’1,4%.

A diciotto anni di distanza, piacerebbe domandare all’Human Development Report, cos’è cambiato in meglio in questo gioco in cui tutti avrebbero vinto.

Si è avviata una sorta di "perdita del controllo democratico” di fronte alla mobilità dei capitali imposta dal mercato. La globalizzazione, invece che espandere la capacità dei singoli e delle comunità a determinare il proprio destino, attraverso la partecipazione ai processi democratici, ha enormemente ridotto questo criterio, poiché nessun paese al mondo, nessuna nazione agisce in piena libertà per seguire il proprio sviluppo economico, la piena occupazione e la propria uniformità culturale. Non si tratta di suggerire un vecchio archetipo chiuso, campanilista e reazionario, in realtà, l’incapacità delle nazioni a controllare le loro economie indebolisce le istituzioni democratiche, immiserendo anche il livello di vita degli individui. Le crisi che hanno attanagliato negli ultimi vent’anni paesi diversissimi tra loro, come il Giappone e il Canada, Gli Stati Uniti e i paesi dell’America Latina, la Gran Bretagna e l’Italia, la Germania e i paesi del Sud Est Asiatico, a prima vista sembrano causate da fattori circoscritti, mentre si assiste all’incapacità dei governi locali a governare una globalizzazione, che, come afferma Costello, “procede sull’onda della crisi”.

“Le imprese globali incontrollate” si sono imposte velocemente come uniche detentrici dei destini del mondo, attori potenti di un unico mercato, che usano politiche di destra o di sinistra con la stessa indifferenza con cui usano risorse e forza-lavoro. La mobilità internazionale del libero mercato e del capitale non nutre alcun interesse per il luogo d’appartenenza di un’impresa, né tanto meno per i propri dipendenti, non esistono orientamenti nelle imprese, né queste favoriscono un paese invece che un altro, ciò che conta è l’abbassamento del costo del lavoro a fronte dei profitti e la capacità di competere. Indubbiamente, all’incontrollabilità del mercato fanno eco le “istituzioni globali incontrollabili” che, di pari passo, sono destinate ad una crescente alleanza di poteri, sovrastante la verifica democratica.

Organismi quali il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale o il GATT, seguono incessanti programmi “d’aggiustamento strutturali” e impartiscono regole che toccano la natura economica d’ogni singola nazione. Appare superfluo desumere che queste organizzazioni incidono sull’ambiente a livello planetario; per esempio, alcuni mega-progetti indirizzati ai paesi del Terzo Mondo, sponsorizzati dalla Banca Mondiale, sono usati per aggirare misure di tutela ambientale, inizialmente decretate dalle legislazioni del luogo.

Dei sette segnali di pericolo, l’ultima voce è inerente al “conflitto globale” e, qualora ci sia bisogno d’altre conferme, basta riflettere sui conflitti tuttora in corso. La globalizzazione era stata presentata agli occhi del mondo come il germe primigenio di un’armonia omnicomprensiva. Una stortura e un falso storico, i contrasti tra le nazioni per ottenere primati economici e per l’accaparramento delle risorse energetiche, ha trasformato il rapporto tra Stati in una continua guerra commerciale scombinata e distruttiva, mentre si acuiscono il razzismo, il nazionalismo estremista e le guerre di religione. Poco prima che nell’ex Jugoslavia attecchisse la “pulizia etnica”, il paese era alle prese con una rigida revisione economica impartita dal Fondo Monetario Internazionale, rivelatesi poi un vero trauma per le istituzioni e le popolazioni locali. Secondo Costello (ed altri osservatori), anche il sanguinoso conflitto razziale avvenuto in Ruanda, è stato “supportato” dai progetti della Banca Mondiale, progetti che non hanno tenuto conto delle realtà locali, ma, tendenzialmente, hanno portato a stravolgere i delicati equilibri economici tra gli hutu e i tutsi.


Se l’America è cattiva, l’Europa è compassionevole.

Un gruppo di disoccupati di Bilbao ha sviluppato un pamphlet ragionato sul mestiere del precario, un mestiere ormai dominante in quasi tutti paesi europei. La società evocata dai suddetti è una società “non attiva”. La scarsità d’attività non deriva dalle eccedenze, da una “sproporzione” tra domanda ed offerta di lavoro, piuttosto dalla sostanza biforcuta presente nel mercato neoliberista del lavoro. La disoccupazione transitoria o la non occupazione permanente, o ancora il passaggio tra una condizione di precariato e un’altra, sono fattori del tutto allineati con i principi neoliberisti che configurano la struttura sociale scissa in tre terzi disuguali. Per la cosiddetta mobilità internazionale del capitale di cui abbiamo già discusso, la disoccupazione, come fenomeno sociale, conserva una sua natura variabile; resta un problema di basilare importanza in Europa Occidentale, diminuisce negli Stati Uniti, stabili ad un dato che si aggira intorno all’8%, compare inaspettatamente in Giappone, secondo la mobilità delle imprese che, adesso, traslocano le loro attività nei paesi più convenienti del Sud Est Asiatico.

Nell’attesa di nuovi “propulsori di trasformazione sociale” che riusciranno buttare all’aria il manifesto del neoliberismo e della globalizzazione economica, la negazione o la sottrazione a questa trasformazione radicale che si sta abbattendo sulle nostre teste, non è, al momento, fattibile. I vari movimenti dal basso che si sono battuti per contrastarla, permangono in una fase di frammentazione dall’interno, indeboliti da una stanchezza intrinseca più che da un effettivo controllo da parte dei poteri. Per di più, sinistra e forze sindacali si sono rivelati incapaci a difendere ciò che storicamente si erano guadagnati i lavoratori in qualità di diritti. La stessa sinistra e sindacati stanno subendo una sorta di delegittimazione e d’erosione che li porta a confrontarsi più con il mercato e le imprese, scarsamente con le classi lavoratrici.

Interessante osservare come la disoccupazione è un fenomeno tenuto costantemente a bada dal mercato neoliberista per sottrarsi ad uno scontro frontale con frange di lavoratori a cui questo mercato può offrire solo un minimo standard di sicurezza. La trasformazione che sta avvenendo indica un cambio di forma mentis e il documento di Bilbao lo spiega chiaramente: “Il cambiamento consiste nel passare dal ruolo di reticenti pagatori dei diritti storici dei lavoratori a quelli di garanti della carità sociale”. Spesso, essere disoccupati non vuol dire che non si è inseriti nel processo produttivo, vuol dire, invece, che si passa in successione dalla mancanza d’impiego, all’impiego, oppure ci si ritrova a lavorare alcuni mesi l’anno. E’ in questo modo che il mercato neoliberista ha risolto il problema della disoccupazione e lo ha trasformato nel precariato sociale. Notoriamente il lavoratore precario è sottoposto alla preoccupazione costante e allo stress, egli non può darsi una regola costante di vita, non può decidere del proprio futuro, non ha accesso ai consumi e al credito (mutui e così via), non ha diritto ad una pianificazione familiare, né ad una pensione. Il precario vive l’emarginalizzazione alla ricerca ciclica di un posto di lavoro. Soltanto negli ultimi anni questa condizione comincia ad avere il suo peso politico e per questo motivo, qualsiasi nuova offensiva che si prospetti contro il neoliberismo, deve saper creare organizzazioni di lotta proprie di questi lavoratori cosiddetti “atipici”, che, di “atipico”, ormai, hanno ben poco.

Interessante pure, notare come si muove la filosofia che facilita la creazione di questi lavoratori “ballerini”; alla loro incertezza il neoliberismo oppone un’equazione sempre vincente: competitività/successo/fortuna, dimenticandosi delle voci “profitto/sfruttamento”; così, la condizione di disoccupazione è la peggiore mancanza di fortuna, il peggior fallimento che possa piombare sulla testa dei lavoratori. In realtà, l’indottrinamento neoliberista cela qualcosa d’assolutamente normale e quotidiano nel sistema economico globalizzato. L’effetto subliminale del messaggio penetra nello spirito attraverso i canali che ben conosciamo, ma andando ad esaminare la situazione personale d’ogni lavoratore precario, scopriamo una realtà ben diversa, che accomuna storie solo apparentemente separate tra loro: operai in mobilità e medici precarizzati, insegnanti e ricercatori con paghe da fame, addetti ai calls center a progetto e braccianti agricoli stagionali, lavoratori del terziario con contratti a termine e dipendenti dei vati dipartimenti pubblici considerati i bighelloni di turno introdottisi attraverso “ammortizzatori sociali”, nessun’ideologia già paventata dai neoliberisti li solleverà dal loro stato d’ansietà.

D’altronde, gli stessi sindacati, nell’intento di riorganizzare una linea politica per contrastare la precarietà, ci bombardano con discorsi e slogan poco attinenti alla situazione attuale, poiché i modus operandi delle imprese sono lucidamente regolati per adeguarsi al nuovo modello imposto dalla globalizzazione economica; gli spazi, gli ambienti e le strutture organizzative, stanno subendo radicali trasformazioni, intanto che al padronato e alla classe imprenditoriale (o come vogliamo chiamarli), è consentito lasciare senza lavoro una voluta fascia di precari, come e quando si vuole, senza una possibile rivendicazione, senza mezzi opportuni per contrastarli. Presumibilmente, toccherà allo stesso precariato ri-progettarsi per attuare nuove strategie d’adeguamento.




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