Ue-Russia, contro legge e logica

di Fabrizio Casari

Truppe, armi e propaganda, ma non solo. I soldi, non mancano mai i soldi. Quando si volesse cercare un elemento simbolico per descrivere la crisi d’identità politica e di prospettiva dell’Unione Europea, ormai estensione statunitense, c'è la vicenda del sequestro dei beni russi a seguito del conflitto in Ucraina. La vicenda in sé, infatti, presenta una miscela di subordinazione ideologica,...
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Rafah e ONU, Israele al bivio

di Mario Lombardo

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato lunedì per la prima volta dall’inizio dell’aggressione israeliana una risoluzione che chiede l’immediato cessate il fuoco nella striscia di Gaza. Il provvedimento è passato con 14 voti a favore e la sola astensione degli Stati Uniti, che hanno rinunciato al potere di veto, provocando una durissima reazione da parte del regime israeliano. Per tutta risposta, Netanyahu ha annullato la visita a Washington di una delegazione che avrebbe dovuto discutere con la Casa Bianca la possibile operazione militare nella città di Rafah, al confine tra la striscia e l’Egitto. Questa iniziativa, dalle implicazioni potenzialmente devastanti, resta al centro dell’attenzione della...
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di Vincenzo Maddaloni

SAN PIETROBURGO. Uno poi se ne dimentica, ma la cazzata resta. E’ quella del governatore di San Pietroburgo Georgy Poltavchenko, che aveva pensato di accogliere gli invitati al suo party esclusivo, usando delle bambine come sculture. Vestite di argento, con le facce pitturate e apparentemente legate  ai bordi di una vasca nel centro del giardino del palazzo di fianco alla fortezza di Pietro e Paolo.

L’occasione era stato il Forum Economico Internazionale, uno di quegli eventi nel quale i potenti si incontrano e fingono di fare scelte per il bene dell'umanità. Si era tenuto il 21 giugno a San Pietroburgo, appunto, e vi avevano partecipato politici, imprenditori e banchieri provenienti da ottanta paesi del mondo. Così meglio si capisce perché le foto delle quattro bambine dipinte di argento e immerse in una sorta di fontana dove soffiando su delle barchette di carta simulavano la rosa dei venti, avevano sollevato un polverone.

Infatti, le immagini avevano fatto il giro del pianeta, tra critiche e denunce delle organizzazioni in difesa dei minori. Svetlana Gannushkina, un’esponente di spicco del movimento in  difesa dei diritti umani in Russia si era affrettata a invitare, «l’opinione pubblica a discuterne», perché, «si trattava di minorenni» e quindi c’erano «tutti gli elementi per aprire un’inchiesta». Poi, come quasi sempre accade -  qui come altrove - tutto si era limitato alle denunce.

Dopotutto il vero colpevole, il governatore di San Pietroburgo  era riuscito a smarcarsi scaricando le responsabilità sulla società che avevano gestito l’evento. «Sono loro che hanno vinto il bando di gara e hanno organizzato il party», disse. Sicché Georgy Poltavchenko, che è pure amico del presidente Putin, continua ad essere il governatore di San Pietroburgo.

Certamente un fatto del genere non sarebbe accaduto vent’anni fa, quando la città si chiamava ancora Leningrado e di lì a poco con un referendum sarebbe ritornata a chiamarsi (6 settembre 1991) San Pietroburgo, mentre l’Unione Sovietica si stava sgretolando fino a scomparire per sempre (dicembre 1991). A quel tempo esisteva ancora la figura dell'inviato speciale, un’attività del giornalismo oggi in via d'estinzione. A molti dei colleghi più giovani risulterà difficile capire di che cosa sto parlando, poiché nel giornalismo orizzontale di oggi, quello dei telefonini e dei social forum, basta districarsi con un po' di credibilità nella moltiplicazione geometrica delle fonti.

Ma c'è stato un tempo in cui l'informazione dipendeva quasi esclusivamente dal racconto dell'inviato, unico medium tra il fatto e il lettore, dalla sua capacità d'interpretare i fatti, di cogliere i dettagli al primo e spesso unico sguardo e da lì risalire alle cause che avevano prodotto un certo evento. In quei giorni di vent’anni fa il mio problema era di spiegare come tra Leningrado e San Pietroburgo non ci sarebbe stata soluzione di continuità.

Inseguivo allora una tesi che ancora mi affascina e sconcerta : la somiglianza tra Venezia e San Pietroburgo, l'ex Leningrado appunto. Anche questa città sull'acqua mi rimane familiare. Pensavo di conoscerne le luci, gli odori, i suoni, i ritmi, la volontà grande di affrancamento. Ho anche adesso l'impressione di essermi sbagliato, di essermi illuso. Quell'immagine un po' stravagante sottolineata dal mare, quell'avventurosa pista veneto-slava pensavo potesse aiutare a chiarire le idee. La seguivo dunque, e cercavo di scoprire le immagini umane come penso ne fossero esistite quando il veneziano Francesco Algarotti vi sbarcò nel 1739, trentasei anni dopo la fondazione della città.

A quel tempo - come a Venezia - ci si arrivava solo per via d'acqua, risalendo la Neva: dopo aver vogato per ore, «ecco che volta il fiume; e né più né meno che all'Opera, ci si apre dinanzi in un subito la scena di una imperial città». Era la Pietroburgo non ancora cresciuta in tutta la sua maestosa bellezza, ma già capace di incantare, disposta com'è sulle rive di un gran fiume e sulle isole su cui sorgono splendide architetture, torri con la guglia dorata «che van qua e là piramidando». Ma il nobile Algarotti non ne restò abbagliato a lungo poiché, entrato in città, essa «non ci parve più quale la ci pareva da lungi... forse perché i viaggiatori sono simili a cacciatori e ad amanti».

I paesaggi non sono sovrapponibili, anche con tutta la buona volontà degli uomini. Da quasi tre secoli San Pietroburgo è soprannominata la "Venezia del Nord". Anche se qui i paesaggi sono brumosi, plumbei e straordinariamente brevi poiché lunghe sono le notti invernali; oppure luminosi, abbaglianti anche nel bianco slavato delle brevi "notti" estive. È invece subito naturale accostare i lamenti dei veneziani alle inquietudini dei pietroburghesi. Le somiglianze non mancano: gesti enfatici e desolati, sguardi appassionati e smarriti, fervidi slanci verso la tradizione e le antiche glorie, ed anche nette ripulse verso tutti coloro che cercano di stravolgere il destino della città.

Come a Venezia (non parlo della Venezia ufficiale, sempre un po' falsa o stentorea, o della Venezia dei bazar che lucra e prospera sui  turisti, ma della Venezia medio-piccola, della Venezia colta che in cinque lustri ha visto mutar fortune e naufragar speranze), qui ora si contraddicono e si confondono l'assillo per la propria identità di abitanti di una città che fu la capitale di tutte le Russie, e l’avversione verso il dominio  del Governo centrale di Mosca, al vertice del quale c’è Putin il quale - ironia della Storia - è originario di queste parti. Avversione verso il governo, ma al tempo stesso il desiderio di subirlo. Un’incertezza nella scelta che perdura in una sorta di odio- amore, spesso due risvolti di un unico sentimento.

All’origine c’è una delusione, straziante. Poiché ciascuno dei quattro milioni di residenti della seconda metropoli della Russia sperava in cuor suo che si avviasse la rinascita della città, poiché quando nell’agosto del 1991 sulla carta geografica era ricomparsa l'antica denominazione zarista, un'intera mistica rivoluzionaria era andata in frantumi. A quel tempo l'idea di accostare le inquietudini dei pietroburghesi a quelle dei veneziani mi era venuta dalle conclusioni dell' ottantacinquenne accademico Dmitri Likhaciov, il simbolo della cultura russa del ventesimo secolo, uno dei pochissimi intellettuali sopravvissuto quasi per miracolo ai lager di Stalin.

Likhaciov, che conservava  intatte le memorie della San Pietroburgo imperiale, cercava di stabilire un ponte ideale tra la capitale mitica della sua infanzia e la città che risorgeva dai travagliati decenni della rivoluzione comunista. «Quand’ero poco più di un ragazzo», mi ricordava, «la città era un monumento alla tolleranza, alla cultura, al cosmopolitismo, al buon gusto. Ma con l'andare del tempo i veri pietroburghesi sono scomparsi, inghiottiti da una sequela di tragedie: la battaglia di Tsushima che distrusse la flotta nel 1905 , poi la guerra, poi la rivoluzione, il terrore rosso, le purghe degli Anni Trenta, l'ecatombe dell'assedio nazista con più di un milione di morti, e ancora le vittime delle ultime purghe,negli Anni Cinquanta. Restano i palazzi vuoti e cadenti. La città ha conservato la sua bellezza architettonica, ma ha perso con la sua gente la sua anima. Basta guardare la folla grigia che si accalca lungo i marciapiedi slabbrati, che invade la prospettiva Nevskij, per capire le dimensioni della catastrofe».

La città ricordata da Likhaciov è rimasta in molte delle sue parti quasi intatta, seppure circondata dai nuovi quartieri che le sono sorti attorno. Ma la gente vi sembra di passaggio, come a Venezia quando le carovane dei turisti l'affollano con il naso per aria. Ma mentre a Venezia si percepisce una qualche sensazione fisica del legame che s'è stabilito tra la città e i turisti, a San Pietroburgo questa sensazione manca. Si sa che le persone che affollano le strade sono in grandissima parte gente di qui. Ma non si può immaginare che possano abitare in queste case, né vi è traccia di qualcosa di gratificante che possa alleviarvi il pensiero.

Infatti, entrando nei cortili stretti, bui, dei palazzi, che un tempo ospitavano le carrozze dei principi e dei boiardi, si scopre che la gente che ci abita è proprio quella che s'incontra nelle strade. La sua dignitosa povertà balza agli occhi e si riflette nelle mille pozzanghere appena rischiarate da un quadratino di cielo che appare lontanissimo. E soprattutto nelle Kommunalka, gli appartamenti condivisi, in cui bagno, wc e cucina sono usati da più famiglie, retaggio del vecchio regime comunista e conseguenza dell'elevata povertà di quel milione di persone (il 25 per cento dell’intera popolazione della città) che ancora oggi vi vive.

Così si capisce perché l'Unesco aveva posto sotto la propria tutela tutto il centro storico di San Pietroburgo, inserendolo nella lista del "patrimonio mondiale". Una decisione che poteva apparire insolita, poiché raccogliere finanziamenti per il restauro dei quattromila palazzi degli zar poteva sembrare addirittura paradossale in una città che vent’anni fa non sapeva che cosa mangiare, né come scaldarsi e nella quale, vent’anni dopo, una gran parte della popolazione vive, come detto, ancora nelle Kommunalka.

Eppure, proprio lo straordinario patrimonio architettonico e culturale era stato uno dei volani che aveva alimentato la sua voglia di rinascita. «Senza l'aiuto internazionale non riusciremo mai ad uscire dalla voragine in cui siamo sprofondati». Non aveva dubbi il sindaco I'ormai mitico Anatoli Sobciak che aveva l'occhio di Gogol e la penna di Saltykov Shchedrin, autore di indimenticabili satire sulla burocrazia russa dell'Ottocento. Sobciak progettava di creare una "finestra  sull'Europa", una zona franca a Leningrado, anzi a San Pietroburgo, come da sempre la chiamava.

Era stato è lui che aveva promosso il referendum per ridare alla città il vecchio nome. Sobciak, che era stato uno dei protagonisti dell' anticolpo di Stato dell'agosto del 1991 e del trapasso alla democrazia, accusava Eltsin di non aiutare lo sviluppo di un sistema pluripartitico nell'Assemblea nazionale di Mosca, preferendo governare con l'apparato burocratico piuttosto che con le forze politiche.

«Questo costituisce un pericolo grave», mi spiegava Sobciak. «Fino a quando non si creeranno le condizioni per la nascita di una classe media, il campo rimarrà aperto agli avventurieri. Oggi sotto la bandiera del patriottismo nazionale e della difesa sociale si stanno riunendo tre forze: gli ex funzionari di partito, i nazionalisti e i democratici radicali. È chiaro che fanno leva sul malcontento popolare e non disdegnano il caos, anzi: sanno che è l'unica strada per arrivare al potere. E noi stiamo assistendo a questo confronto».

Quella che Anatoli Sobciak sognava era un' altra rivoluzione, una rivoluzione pacifica: economia di mercato, spazio ai privati, multipartitismo. Essa si è spenta con lui. San Pietroburgo ha ripreso il suo volto malinconico, il suo ritmo stanco. Alle nove di sera, come a Venezia, le strade si svuotano, i palazzi, i canali piombano in una solitudine resa quasi spettrale dalle luci fioche dei lampioni. Le considerazioni di Sobciak alla distanza di vent’anni hanno il carisma della profezia, perché in Russia si continua a governare allo stesso modo, con in aggiunta fastidiose stranezze proprie delle oligarchie, come quella del governatore di San Pietroburgo Georgy Poltavchenko e le sue fanciulle con la faccia pitturata d’argento.

Tuttavia la gente che qualche giorno fa ha riempito le piazze per esprimere opinioni diverse o addirittura opposte a quelle ufficiali, non ha manifestato con i toni concitati che si sono visti a Mosca. Anche questa va interpretata come la peculiarità di una popolazione che è ancora ansiosa di dimostrare la propria diversità, di rafforzare la propria identità rispetto all'Occidente e di esibirla davanti agli altri cittadini delle Russie.  Abitare a San Pietroburgo per esaltare l'ambiguità propria di tutte le città di frontiera, ha assunto il valore di un motto, è diventato un simbolo di appartenenza.

Indicativo è il modo stesso in cui si sono svolte le elezioni del marzo scorso. In questa città nella quale sono nati sia Putin sia il suo delfino, Dmitri Medvedev, che oggi siedono al Cremlino, la domenica del voto era passata come se fosse un giorno qualunque: le mamme con il cappotto accompagnavano i bambini alle piste da hockey trascinando i loro borsoni enormi e le coppie passeggiavano lungo le strade eleganti del centro. Non c’erano molti manifesti elettorali, quelli di Putin non avevano la sua fotografia, come i medesimi a Mosca e nelle altre città delle Russie, ma soltanto il nome. «Non sono andata a votare, la politica non mi interessa per niente», raccontava Ksenia, una ragazza di vent’anni che studia all’università al cronista della  Rossiyskaya Gazeta che cercava di giustificare l’elevato astensionismo nella seconda città del Paese.

Traggo questi elementi sulla diversità anche dalle numerose discussioni serali, dai dialoghi appassionati e dai monologhi accorati, al centro dei quali ci sono sempre i rapporti della città con l'Europa, che qui è anzitutto la Francia, perché rammentano cos'era Parigi per gli intellettuali russi dell'Ottocento ; e poi l'Italia, perché gran parte dei palazzi di San Pietroburgo porta la firma degli architetti italiani. E dunque la collera di coloro che vivono dentro la città, e la conoscono nelle rughe, nei cunicoli, nei labirinti, come se vi abitassero dappertutto, nasce dall'amara situazione di ritrovarsi di nuovo avviluppati in una coltre di promesse quasi indecifrabili e pertanto mai mantenute.

E pensare che quando Francesco Algarotti visitò la città incontrò un suo concittadino, uno di quei "fabbricatori di galere» che lo zar Pietro il Grande «chiamò di Venezia». E non piccola fu la sua meraviglia, scriveva il letterato veneziano a proposito di  quell'incontro: «A sentir parole che finivano in ao, a sessanta gradi di altezza di Polo». Per dire quale centro di molteplici interessi era già a quel tempo la città. Ma anche per capire i motivi profondi di quella collera che la squassa da  novanta e cinque anni. Da quando  essa non è più la capitale di tutte le Russie.

 

 

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