USA, l’imbroglio del Mar Rosso

di Mario Lombardo

A quasi tre mesi dall’inizio della “missione” americana e britannica nel Mar Rosso, per contrastare le iniziative a sostegno della Resistenza palestinese del governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (“Houthis)”, nessuno degli obiettivi fissati dall’amministrazione Biden sembra essere a portata di mano. Gran parte dei traffici commerciali lungo questa rotta, che collega...
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Sahra Wagenknecht, nuova stella (rossa) tedesca

di redazione

Sahra Wagenknecht: «Ue troppo centralista, l’Ucraina non può vincere. È vero che molti elettori della vecchia sinistra sono andati a destra, non perché razzisti o nazionalisti, bensì perché insoddisfatti» BERLINO — Sahra Wagenknecht è di sinistra, conservatrice di sinistra, dice lei. Ha fondato un partito che porta il suo nome, perché – sostiene – il principale problema dei progressisti europei è che «la loro clientela oggi è fatta di privilegiati». I detrattori la accusano di essere populista, ma il partito cresce e in alcune regioni dell’Est è la seconda o terza forza. Abbastanza da poter rompere gli equilibri della politica tedesca. Insomma, è diventata un fenomeno. Ci accoglie nel suo studio, con i colleghi del...
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di Michele Paris

Da qualche settimana si rincorrono su varie testate estere le descrizioni di movimenti di armi dagli Stati Uniti verso il Medio Oriente e l’Oceano Indiano, che sembrerebbero preannunciare - secondo alcuni - un più o meno imminente attacco militare alle istallazioni nucleari dell’Iran. Mentre le minacce occidentali nei confronti di Teheran sono aumentate esponenzialmente negli ultimi tempi, l’atteggiamento americano appare improntato per ora ad una relativa prudenza. La strada maestra da seguire rimane, almeno per il momento, quella delle sanzioni. La riluttanza della Russia e ancor più della Cina a seguire Washington su questa strada, assieme all’impazienza israeliana, potrebbero però contribuire a far precipitare la situazione in un futuro non così lontano e scatenare un nuovo conflitto dalle conseguenze rovinose.

La congettura più recente circa la preparazione di un’aggressione militare ai danni dell’Iran è stata avanzata pochi giorni fa dal quotidiano scozzese The Sunday Herald. Centinaia di bombe “bunker buster” starebbero per partire dalla California alla volta dell’isola britannica Diego Garcia nell’Oceano Indiano. Questi ordigni sono utilizzati per colpire un bersaglio sotterraneo, come appunto gli impianti che ospitano il programma nucleare della Repubblica Islamica.

Nell’isola sotto la sovranità di Londra sono stanziati appena una cinquantina di militari britannici, mentre il personale americano supera le tre mila unità. In virtù di un accordo stipulato tra i due paesi nel 1971, infatti, gli USA hanno di fatto la facoltà di utilizzare l’isola come una propria base militare. Da qui erano già partiti gli aerei da guerra statunitensi diretti verso l’Iraq sia nel 1991 che nel 2003. Da qui, secondo il giornale scozzese, potrebbe scattare l’attacco all’Iran in caso di definitivo fallimento dello sforzo diplomatico internazionale per fermare la presunta corsa al nucleare di Teheran.

Se la minaccia di un assalto militare è stata più volte pubblicamente agitata dal governo israeliano, a livello ufficiale Washington ha finora sempre cercato di richiamare l’alleato alla moderazione, invitandolo ad attendere che l’eventuale applicazione di nuove sanzioni faccia il proprio corso. Un’iniziativa unilaterale di Israele, d’altra parte, coinvolgerebbe immediatamente anche gli Stati Uniti, già sufficientemente sfiancati dagli sforzi bellici in Afghanistan e Iraq. Alle intimidazioni di qualche settimana fa, per di più, da parte americana hanno fatto seguito recentemente alcune prese di posizione più misurate.

Il Segretario di Stato, Hillary Rodham Clinton, ascrivibile alla categoria dei “falchi”, nonostante le pressioni fatte l’altro giorno a Mosca sul presidente russo Medvedev, ha riconosciuto che per trovare un accordo sulle sanzioni sarà necessario attendere ancora qualche mese, lasciando così qualche spazio al negoziato. In aggiunta, il capo delle forze armate americane in Medio Oriente, generale David Petraeus, ha comunicato al Congresso che almeno per un altro anno l’Iran non sarà in grado di costruire alcun ordigno nucleare. Il capo di Stato Maggiore, ammiraglio Mike Mullen, da parte sua ha infine più volte avvertito che un attacco (israeliano) all’Iran rappresenterebbe un “enorme problema” per gli Stati Uniti.

Alla luce della situazione, sembra dunque che per il momento non ci siano i segnali perché la Casa Bianca possa autorizzare un’operazione militare nei confronti dell’Iran. Questa è anche l’opinione di Ian Davis, direttore del think tank indipendente “NATO Watch”, di stanza in Scozia. Secondo l’analista britannico, il dispiegamento di armi nell’isola Diego Garcia rientrerebbe piuttosto in una strategia complessiva tesa ad assicurare agli USA tutte le opzioni possibili riguardo alla risoluzione della questione iraniana. Peraltro, esiste anche la possibilità che il materiale trasferito dalla California possa rappresentare semplicemente un carico destinato ai militari in Afghanistan.

Sempre secondo Davis, infatti, la quantità di esplosivo in questione sarebbe decisamente troppo limitato per essere impiegato in un attacco, ad esempio, all’installazione nucleare di Natanz. Questo genere di bombe, inoltre, era già stato utilizzato contro i Talebani nel 2001 e potrebbe quindi essere impiegato nuovamente in conseguenza del rinnovato sforzo contro le forze ribelli afgane. Leggermente più possibilista verso un’azione militare statunitense è al contrario il professor Dan Plesch, direttore del Centro Studi Internazionali e Diplomatici presso la University of London. Malgrado l’impegno in Afghanistan e in Iraq, gli Stati Uniti a suo parere non avrebbero ancora raggiunto un punto critico nell’impiego delle proprie forze aeree e navali.

Per entrambi gli esperti, in ogni caso, una soluzione diplomatica sembra ancora possibile, anche se difficile. Per Ian Davis, sia Washington che Teheran dovranno però modificare entrambi il proprio approccio ai negoziati. Da parte americana, soprattutto, sarà fondamentale “abbandonare l’atteggiamento minaccioso e proporre invece incentivi più convincenti per l’Iran in caso di cooperazione”. Una soluzione regionale per il Medio Oriente è invece ciò che auspica il professor Plesch, con la necessità di un disarmo anche di Israele (il cui possesso di armi nucleari non è ufficialmente riconosciuto) per “giungere ad una zona libera da armi di distruzione di massa, secondo quanto stabilito dall’ONU e dal Trattato di Non Proliferazione”.

Quel che appare certo, in definitiva, è che le eventuali sanzioni verso l’Iran, anche se dovessero alla fine essere appoggiate da Mosca e Pechino, difficilmente porteranno ad una soluzione accettabile per Stati Uniti, il cui obiettivo finale appare sempre più improntato alla ricerca di un cambiamento di regime a Teheran. Lo sforzo per il riavvicinamento al governo iraniano, annunciato da Obama all’indomani del suo insediamento alla Casa Bianca, sembra poi destinato al fallimento, mentre la strategia di investire tutto il proprio capitale politico nella ricerca di consenso per sanzioni inefficaci rappresenterà un’ulteriore pesante insuccesso per Washington, come ha scritto pochi giorni fa sul britannico The Guardian il docente di Oxford Timothy Garton Ash.

Le ragioni dell’incapacità americana di venire a capo della questione iraniana, d’altronde, affondano le radici in una serie di cambiamenti avvenuti sullo scacchiere domestico e internazionale negli ultimi anni. Per spiegare il rifiuto di Teheran di accettare la mano tesa di Obama, spiega ancora Garton Ash, è necessario perciò guardare all’eredità di George W. Bush, in particolare riguardo al rafforzamento dell’Iran su scala regionale determinato dall’invasione dell’Iraq. Per spiegare le resistenze cinesi alle sanzioni proposte da Washington, bisogna tenere presente il peso internazionale assunto ormai da Pechino e i suoi interessi nelle risorse energetiche iraniane. Per spiegare la condotta dell’amministrazione Obama, infine, bisogna valutare le pressioni esercitate dal Congresso americano e il timore che Israele possa alla fine intraprendere unilateralmente un’azione militare contro le istallazioni nucleari dell’Iran.

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