Assange, le “non garanzie” USA

di Michele Paris

Nelle scorse settimane si erano intensificate le voci di una possibile risoluzione del caso di Julian Assange, con il presidente americano Biden che aveva anche ammesso di valutare la richiesta del governo australiano di lasciare cadere definitivamente le accuse contro il fondatore di WikiLeaks. Per il momento, il governo di Washington sembra essere però deciso a continuare la battaglia per...
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Israele e l’equazione iraniana

di Michele Paris

L’attacco iraniano sul territorio di Israele è stato un evento di portata storica e potenzialmente in grado di cambiare gli equilibri mediorientali nonostante le autorità dello stato ebraico e i governi occidentali stiano facendo di tutto per minimizzarne conseguenze e implicazioni. I danni materiali provocati da missili e droni della Repubblica Islamica sembrano essere stati trascurabili, anche se tutti ancora da verificare in maniera indipendente, ma il successo dell’operazione è senza dubbio da ricercare altrove. La premessa necessaria a qualsiasi commento della vicenda è la legittimità dell’iniziativa di Teheran. Come hanno sostenuto i leader iraniani, la ritorsione è giustificata in base all’articolo 51 della Carta delle...
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di Michele Paris

L’ondata di protesta contro l’illusione del cambiamento promessa due anni fa da Barack Obama ha puntualmente travolto martedì la Casa Bianca e la ormai defunta maggioranza democratica al Congresso. La più costosa elezione di medio termine della storia americana si è infatti risolta in una indiscutibile bocciatura del partito di governo che, nonostante il risicato margine mantenuto al Senato, ha visto passare ai repubblicani la Camera dei Rappresentanti, gran parte dei governatori e delle assemblee statali in ogni angolo del paese.

I disperati appelli del presidente, del suo vice Joe Biden, dei coniugi Clinton e della first lady Michelle Obama alla vigilia del voto sono falliti miseramente di fronte ad un elettorato senza più alcuna fiducia nei confronti di un Partito Democratico, e di tutta la classe politica in generale, incapace di dare risposte ai bisogni dei lavoratori e della classe media. Ad uno ad uno sono così caduti quasi tutti i candidati democratici impegnati nelle competizioni elettorali più incerte, compreso il successore designato al seggio del Senato che fu di Obama in Illinois, Alexi Giannoulias, sconfitto dall’oscuro deputato repubblicano Mark Kirk.

Complessivamente, il Partito Repubblicano, che veniva dato sull’orlo dell’estinzione appena due anni fa, ha guadagnato una sessantina di seggi alla Camera bassa del Congresso, spazzando via il margine di 39 deputati che i democratici potevano vantare. Il dissolvimento della base elettorale che aveva permesso il trionfo di Obama e del suo partito nel 2008 è stato decisivo. Gli elettori più giovani, le donne, i laureati e i cosiddetti indipendenti hanno in gran parte deciso di disertare le urne, mentre quelli che hanno scelto di partecipare al voto hanno favorito in larga misura i repubblicani. Il voltafaccia della working-class e degli anziani, giustamente allarmati per gli effetti deleteri della pseudo-riforma del sistema sanitario sui propri piani di copertura, ha fatto il resto.

La presunta resurrezione del Partito Repubblicano non rappresenta peraltro il risultato di una politica efficace proposta dalla sua leadership, né rispecchia una popolarità diffusa nel paese. La rivincita repubblicana è stata bensì possibile solo grazie alla delusione suscitata da una maggioranza democratica che ha tradito in tutti i campi le aspettative che erano emerse dopo gli otto anni dell’amministrazione Bush. Per questa ragione, la sconfitta democratica non appare tanto la conseguenza di un supposto spostamento a destra dell’elettorato americano - come viene in genere propagandato dalla stampa mainstream d’oltreoceano - ma piuttosto il prodotto di una politica troppo moderata che ha saputo rendere conto pressoché esclusivamente ai grandi interessi economici e finanziari.

Un ruolo considerevole nell’esito delle elezioni di “midterm” l’ha giocato il movimento del Tea Party, anche se non sempre con esiti favorevoli al Partito Repubblicano. Prodotti in gran parte dei media, il Tea Party e i vari raggruppamenti libertari e di estrema destra al quale fanno capo, nonostante il sostegno dei poteri forti, hanno saputo convogliare il malcontento ampiamente diffuso tra la gente comune indirizzandolo verso lo strapotere del governo federale, gli immigrati, le tasse e una fantomatica deriva socialista dell’amministrazione Obama.

Se alcuni candidati del Tea Party hanno incassato vittorie pesanti in svariati distretti elettorali per la Camera e al Senato - tra cui Marco Rubio in Florida e Rand Paul in Kentucky - altri sono apparsi al limite della presentabilità per le loro posizioni troppo estreme, danneggiando di fatto il Partito Repubblicano e compromettendo le chance di riconquistare la maggioranza anche al Senato. È il caso, ad esempio, del Nevada e del Delaware, dove il leader dei democratici al Senato, Harry Reid, e Chris Coons hanno avuto la meglio sulle ultraconservatrici Sharron Angle e Christine O’Donnell.

La presenza al Congresso di una folta pattuglia di deputati e senatori che fanno capo al Tea Party da un lato potrebbe creare divisioni all’interno di un Partito Repubblicano che vede il suo baricentro spostarsi ulteriormente a destra, mentre dall’altro determinerà un abbandono definitivo delle velleità riformistiche dello stesso Obama. Dalla Casa Bianca, forse senza dispiacersi eccessivamente, si dovrà infatti scendere a compromessi con la maggioranza repubblicana alla Camera quando già dalle prossime settimane saranno all’ordine del giorno questioni delicate come il prolungamento dei tagli alle tasse per i redditi più alti voluti da George W. Bush e il contenimento del deficit federale.

La rabbia degli elettori nei confronti dei candidati della maggioranza si è manifestata significativamente soprattutto in quelle regioni del Midwest che rappresentavano il centro nevralgico dell’industria manifatturiera americana e negli stati meridionali che nel 2006 e nel 2008 avevano segnato una tappa importante della riscossa democratica. I repubblicani si sono aggiudicati cinque seggi per la Camera dei Rappresentanti in Pennsylvania, altrettanti in Ohio, tre nell’Illinois di Barack Obama, uno in Michigan, due in Indiana e Wisconsin. Nel sud, tredici seggi già detenuti dai democratici hanno cambiato colore, tra cui tre rispettivamente in Florida, Virginia e Tennessee.

Il tracollo democratico non ha risparmiato veterani del partito che solo fino a pochi mesi fa sembravano al riparo da sorprese. Alla Camera, il presidente della commissione per le forze armate, Ike Skelton, deputato per il Missouri dal 1977, e John Spratt, rappresentante della South Carolina da 27 anni, hanno entrambi perso il loro seggio. Identica sorte è toccata poi al senatore del Wisconsin con fama di indipendente, Russ Feingold, in carica dal 1993. Nel momento in cui scriviamo, i democratici sono certi di 51 seggi su 100 al Senato; il Partito Repubblicano è a quota 46, mentre tre competizioni risultano ancora in bilico, in Alaska, Colorado e Washington.

Nella corsa per le cariche di governatori, il Partito Repubblicano ha inoltre messo le mani su ben 39 stati, contro i 24 che controllava prima del voto di martedì. Alla vigilia delle importanti decisioni che verranno prese sulla ridefinizione dei confini dei distretti elettorali nei vari stati, il controllo dei governatori promette di rivelarsi fondamentale per gli equilibri di potere tra i due partiti nelle elezioni future. In quest’ottica, significativo è stato il successo repubblicano in Ohio, Stato spesso decisivo nelle elezioni presidenziali, dove il democratico in carica Ted Strickland ha ceduto il passo all’ex deputato e già dirigente di Lehman Brothers, John Kasich.

La striscia vincente dei repubblicani ha compreso anche i governatori in altri stati precedentemente guidati da democratici, come Iowa, Kansas, Michigan, Nuovo Messico, Oklahoma, Pennsylvania, Tennessee e Wyoming. All’ecatombe democratica sono sfuggiti invece, tra gli altri, Colorado, Massachusetts, probabilmente Illinois e Minnesota, dove il margine è ancora troppo esile per dichiarare ufficialmente il vincitore, e soprattutto California e New York. In questi ultimi due stati Jerry Brown, già governatore tra il 1975 e il 1983, e Andrew Cuomo, figlio dell’ex governatore democratico Mario Cuomo, hanno avuto vita relativamente facile rispettivamente sull’ex CEO di eBay, Meg Whitman, e sul discutibile candidato del Tea Party, Carl Paladino.

Ben lontane dal delirio delle dichiarazioni della vigilia da parte dello speaker in pectore della Camera, il deputato dell’Ohio John Boehner, il quale aveva prefigurato un voto in difesa della libertà, della Costituzione e di un governo che sappia operare entro limiti ben precisi, le elezioni di medio termine hanno rivelato ancora una volta la profonda crisi in cui versa il sistema politico americano.

Con i due partiti che si dividono invariabilmente il potere unicamente al servizio delle grandi corporation e dei colossi di Wall Street e con regole elettorali che consentono agli stessi potentati economici di sborsare liberamente centinaia di milioni di dollari per influenzare l’esito del voto, nessuna soluzione concreta si prospetta per i ceti più bassi duramente colpiti dalle conseguenze della crisi economica.

In questo scenario, l’autocritica di Obama per la batosta elettorale, la promessa di un imminente cambio di rotta e la proposta di collaborazione con la nuova maggioranza repubblicana, suonano totalmente vuote. L’incapacità dei democratici di costruire un’alternativa progressista e di porre un qualche rimedio alle distorsioni di un sistema capitalistico senza freni è la prova più evidente dell’abisso esistente tra la popolazione americana e la propria classe politica. All’interno dell’attuale apparato di potere politico, economico e giudiziario, per la gran parte degli americani non esiste dunque alcuna prospettiva di cambiamento, di vera democrazia e di giustizia sociale.

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