Georgia, gli 'agenti' dell’Occidente

di Mario Lombardo

Il parlamento georgiano ha approvato questa settimana in prima lettura una controversa legge sugli "agenti stranieri", nonostante le proteste dell'opposizione e gli avvertimenti di Bruxelles che la legislazione potrebbe mettere a rischio le ambizioni del paese di aderire all’Unione Europea. La misura, ufficialmente nota come "Legge sulla trasparenza dell'influenza straniera", ha ricevuto...
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La memoria scomoda di Euskadi

di Massimo Angelilli

Il prossimo 21 aprile si svolgeranno le elezioni amministrative nei Paesi Baschi. Ovvero, il rinnovamento del Parlamento Autonomo, incluso il Lehendakari - Governatore che lo presidierà e i 75 deputati che lo integreranno. Il numero delle persone aventi diritto al voto è di circa 1.800.000, tra le province di Vizcaya Guipúzcoa e Álava. Il bacino elettorale più grande è quello biscaglino comprendente Bilbao, mentre la sede del Parlamento si trova a Vitoria-Gasteiz, capitale dell’Álava. Le elezioni regionali in Spagna, come d’altronde in qualsiasi altro paese, non sono mai una questione banale. Men che meno quelle in Euskadi. Si inseriscono in una stagione particolarmente densa di ricorso alle urne, iniziata con l’appuntamento...
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di Michele Paris

La rivolta popolare che dalla Tunisia si è propagata all’Egitto continua a creare enormi imbarazzi ai governi occidentali che sentono di poter perdere improvvisamente il paese strategicamente più importante di tutto il mondo arabo. Costretti a fare i conti con un movimento di piazza che appare sempre più vicino a dare la spallata definitiva al presidente Hosni Mubarak, da Washington ci si affretta ad organizzare una transizione controllata che sfoci in un nuovo Egitto guidato da un governo ancora attento agli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati.

Al di là dei proclami lanciati, sia pure tardivamente, dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato circa il sostegno americano alle aspirazioni delle masse egiziane, ciò che orienta la condotta degli USA nella crisi del gigante nordafricano è esclusivamente la necessità di giungere ad una soluzione che mantenga Il Cairo nella sfera di influenza occidentale. Quella stessa amministrazione Obama che ora chiede a Mubarak di astenersi dall’usare violenza nelle città egiziane, d’altra parte, solo fino a pochi giorni fa lodava la stabilità di un regime repressivo e il suo contributo agli equilibri dell’intera area mediorientale.

Come già accaduto per la Tunisia e il deposto Zine el-Abidine Ben Ali, gli USA sembrano in ogni caso vicini a scaricare lo stesso Hosni Mubarak. Un cambiamento di rotta, quello degli Stati Uniti, annunciato dall’onnipresenza nei talk show americani di domenica scorsa del Segretario di Stato, Hillary Clinton, e dettato dall’evolversi della situazione in Egitto. La sorte di Mubarak, così come le richieste dei manifestati egiziani, non sono però al centro dei pensieri di Washington. La preoccupazione principale è piuttosto quella di preservare la stessa struttura di potere, fondata sulle forze armate e di sicurezza, che ha permesso all’uomo forte del Cairo di governare il suo paese con il pugno di ferro per tre decenni.

Quando, insomma, la permanenza di Mubarak al potere diventerà un ostacolo insormontabile per garantire quella “transizione ordinata” di cui ha parlato la Clinton, gli americani non si faranno scrupoli a liquidarlo. Come hanno ripetuto fino alla nausea i media occidentali in questi giorni, il ruolo dei militari - i quali hanno prodotto tutti i presidenti che l’Egitto ha conosciuto a partire dalla rivoluzione del 1952 - risulterà fondamentale per il futuro assetto del paese. Per giocarsi le residue chance di rimanere in sella, con un provvedimento puramente di facciata, Mubarak ha così nominato l’ex generale e capo dei servizi segreti, Omar Suleiman, a vice presidente e l’ex comandate dell’aeronautica, Ahmed Shafiq, a primo ministro.

È molto probabile che la scelta di Suleiman, il candidato più gradito dalle forze armate alla successione di Mubarak già prima della rivolta, sia stata orchestrata proprio da Washington, dove lo scorso fine settimana era in corso il meeting annuale tra il Pentagono e i vertici militari egiziani. Suleiman è inoltre molto stimato dagli americani e, come ha rivelato un cablo appena pubblicato da Wikileaks, si è sempre mostrato disponibile a promuoverne gli interessi, tanto da rappresentare, ad esempio, il punto di riferimento in Egitto per le famigerate “extraordinary renditions” di presunti terroristi destinati ad essere torturati in Egitto.

La promozione di Suleiman, anche se temporanea, difficilmente appagherà gli egiziani che chiedono il rovesciamento del regime. Di questo ne sono consapevoli gli americani che stanno perciò valutando altre alternative percorribili. Insistere su esponenti del regime compromessi comporterebbe il rischio di veder ripetere i fatti del 1979 in Iran, quando gli USA finirono per perdere un alleato fondamentale nel Golfo Persico. Per questo motivo, se sarà necessario, Washington si convincerà a sostenere anche un governo provvisorio di “unità nazionale” sul modello tunisino o comunque composto dalle varie anime dell’opposizione ufficiale. In questo senso va verosimilmente interpretato il documento che ha reso noto ancora Wikileaks e che rivela un qualche presunto appoggio americano a giovani dissidenti egiziani.

Se la situazione lo richiederà, gli Stati Uniti potrebbero puntare sullo stesso Mohamed ElBaradei, per quanto il Premio Nobel ed ex numero uno dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) abbia assunto posizioni relativamente critiche nei confronti della Casa Bianca. Il diplomatico egiziano rappresenta un volto accettabile, secolare e moderato, per l’Occidente, teoricamente in grado di canalizzare le proteste verso un sostanziale mantenimento dello status quo nel paese dietro una facciata democratica.

La praticabilità dell’opzione ElBaradei dipende però da quanto saranno disposti ad accettarlo gli egiziani. Il suo appello alla folla nella piazza Tahrir al Cairo nei giorni scorsi non sembra aver suscitato troppi entusiasmi. ElBaradei, infatti, non ha una sua base popolare in Egitto, dal momento che negli ultimi decenni ha vissuto ben poco nel suo paese d’origine. Solo qualche giorno dopo lo scoppio della rivolta, ElBaradei ha lasciato Vienna, dove risiede, per unirsi alle proteste.

I partiti di opposizione, che più o meno tutti in maniera tardiva si sono accodati alle manifestazioni di piazza, hanno già designato ElBaradei come negoziatore per giungere ad un accordo con il regime. L’ex capo della IAEA da parte sua ha confermato di essere pronto a guidare un governo che dovrebbe traghettare l’Egitto verso le elezioni. Una soluzione di questo genere costringerebbe gli USA a digerire un ruolo di spicco per la principale forza di opposizione, i Fratelli Musulmani, dimostratisi peraltro decisamente moderati in modo da ottenere il via libera di Washington al loro ingresso in un prossimo governo provvisorio.

Alle inquietudini americane vanno poi aggiunte quelle ancora maggiori di Israele. La sicurezza israeliana si basa infatti in gran parte sui buoni rapporti con l’Egitto, suggellati dal trattato di pace del 1979. A Tel Aviv non sembrano essere troppo rassicurati nemmeno dal fatto che il miliardo e mezzo di dollari in aiuti americani destinati annualmente all’Egitto sia vincolato proprio al rispetto del trattato firmato da Sadat e Begin sotto l’egida di Jimmy Carter. Il rischio che un vicino così rilevante possa essere a breve guidato da un governo ostile è troppo grande per far dormire sonni tranquilli al governo ultra-conservatore di Benjamin Netanyahu.

L’incubo di Israele è quello di un Egitto in buoni rapporti con Hamas a Gaza e di ritrovarsi a fronteggiare un pericoloso accerchiamento in un momento già estremamente delicato. I tumulti in Egitto infatti fanno seguito alle crescenti tensioni con la Turchia e alla recentissima creazione di un gabinetto fortemente influenzato da Hezbollah in Libano, ma anche al raffreddamento dei rapporti con la Giordania di re Abdallah, più volte critico nei confronti di Netanyahu, dove oltretutto la più importante forza di opposizione è rappresentata proprio dalla sezione locale dei Fratelli Musulmani.

Le preferenze di Israele riguardo all’Egitto e il panico che angoscia i suoi corridoi del potere in queste ore, è stato espresso chiaramente dall’ex ambasciatore israeliano al Cairo, Eli Shaked, in un editoriale apparso sul giornale Yediot Aharonot: “Le uniche persone che desiderano la pace in Egitto sono quelle che fanno parte della cerchia di Mubarak. Se il prossimo presidente non sarà uno di loro, andremo incontro a problemi seri”. Per Tel Aviv l’avvicendamento di Mubarak con Omar Suleiman sarebbe indubbiamente gradito, ma in Israele sono realisticamente in pochi a credere che questa possa essere una soluzione definitiva.

Ciò che può confortare americani e israeliani è la mancanza di una vera e propria leadership del movimento di protesta in Egitto - di matrice islamica o secolare - realmente alternativa ad un’opposizione più o meno compromessa con il regime o senza profondi legami con il popolo. In questo vuoto è quindi prevedibile che gli sponsor occidentali dell’Egitto riusciranno ad inserirsi in qualche modo, trovando alla fine una soluzione pilotata della crisi che non danneggi più di tanto i loro interessi vitali in Medio Oriente.

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