Ucraina, l’illusione delle armi

di Michele Paris

L’approvazione di una nuova all’apparenza consistente tranche di aiuti americani da destinare all’Ucraina è stata per mesi invocata come la soluzione alla crisi irreversibile delle forze armate e del regime di Kiev di fronte all’avanzata russa. Il via libera della Camera dei Rappresentanti di Washington nel fine settimana ha perciò scatenato un’ondata di entusiasmo negli Stati Uniti e...
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Euskadi, un pareggio vittorioso

di Massimo Angelilli

Domenica 21 aprile, nel Paese Basco, circa un milione e ottocentomila persone erano chiamate alle urne per rinnovare il Parlamento. All’appello ha risposto il 62,5%, suddiviso tra le tre province di Bizcaya, Guipúzcoa e Álava. Una percentuale alta, se paragonata con l’ultimo appuntamento elettorale, quello del 2020 drammaticamente contrassegnato dalla pandemia. Molto più bassa invece, rispetto all’auge dell’80% raggiunto nel 1980, anno delle prime consultazioni dopo la transizione democratica. Nel sistema spagnolo, le elezioni regionali rappresentano un test estremamente significativo, al di là della influenza che potrebbero avere nella politica nazionale. È questa una lettura “classica” che, più o meno, si applica in...
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di Mario Braconi

Sono molti i temi affrontati nel corso degli incontri tra rappresentanti dei governi americano e turco avvenuti tra lunedì e martedì a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York: gli attuali pessimi rapporti tra Ankara ed Israele, la possibile esplosione di una guerra civile in Siria, le rinnovate tensioni su Cipro e, inevitabilmente, la questione della nazione palestinese portata all’attenzione delle Nazioni Unite. Le tensioni tra i due alleati NATO ci sono, e si sentono: Hillary Clinton non ha fatto mistero della preoccupazione americana sul grave deterioramento dei rapporti tra la Turchia e Israele, specificando che in questo specifico momento non è desiderabile un aumento di tensione in Medio Oriente.

Maggiore sintonia si registra tra le posizioni di Obama ed Erdogan sul caso Assad: da quando il premier turco ha preso una netta posizione contro i “regimi di violenta repressione” del dissenso, su questo tema è tornato il sereno. Tensioni permangono inevitabilmente sul tema dello showdown con Israele e sul pieno appoggio turco alla decisione dell’Autorità Palestinese di continuare la sua lotta per lo stato palestinese alle Nazioni Unite. Educatamente respinte al mittente dagli Americani, invece, le parole del ministro degli esteri turco Davutolu che, discutendo la decisione della parte greca di Cipro di dare il via a ricerche di gas nel Mediterraneo orientale, ha parlato di “provocazione”.

Da un punto di vista di strategia politica, potrebbero essere proprio i punti di dissenso con gli americani più che quelli di sintonia a rendere cruciale la figura di Recep Tayyip Erdo?an nel futuro prossimo del Medio Oriente. Innanzitutto, con la primavera araba (in particolare dopo la caduta di Mubarak) è evidente l’attivismo con cui il premier turco si sta muovendo sullo scacchiere del Medio Oriente, per accreditare il suo paese come potenza di riferimento nel mondo islamico. In questo senso va interpretato il suo recente tour in Egitto, Tunisia e Libia; perfino il modo muscolare con il quale ha affrontato la questione della Mavi Marmara tradisce l’intenzione di aumentare in modo facile la sua popolarità nei paesi islamici.

Del resto, se Erdogan è diventato famoso “come una rockstar” é anche grazie alla sua passione per le boutade grossolane ad alto gradimento delle masse. Bisogna però dire che, come ricorda Owen Matthews su The Daily Beast, questo atteggiamento qualche volta si traduce in un boomerang: ricordiamo ad esempio la volta in cui definì Hamas un gruppo di “combattenti per la libertà”. Eppure, al di là degli errori politici e dei difetti personali, è essenziale che gli Stati Uniti - ma anche tutti i paesi occidentali nominalmente interessati allo sviluppo di una compiuta democrazia nei paesi islamici - prendano atto del peso politico delle posizioni espresse dal primo ministro turco nel corso della sua visita in Tunisia: “La Turchia è uno stato democratico, laico e sociale.

Per quanto riguarda la laicità, uno stato laico mantiene l’equidistanza rispetto a tutti i gruppi religiosi, inclusi musulmani, cristiani, ebrei e atei.” Va detto che la sua storia decennale di contrasto agli estremisti laicisti è stata confermata in diverse occasioni e non tutte degne di patenti democratiche: colpi di Stato ed annullamento di risultati elettorali, fino al risultato ottenuto nel 2008 con l’abolizione del divieto di indossare il velo nelle università turche.

Eppure, l’ambasciatore israeliano ad Ankara, secondo il contenuto di un cablo di pubblicato da Assange arrivò a definire Erdogan “un pericoloso estremista islamico che ci odia dal punto di vista religioso”. Forse non è in errore Matthews quando definisce la Turchia di Erdogan “la nuova superpotenza mediorientale”: un paese a maggioranza assoluta islamica che ha raddoppiato il suo prodotto interno lordo in meno di un decennio e che può costituire un modello per le nuove democrazie arabe.

I Paesi islamici hanno bisogno di sentir parlare di diritti e di libertà da qualcuno che sentano vicino, specie dopo anni in cui le parole “libertà” e democrazia sono state spese da personaggi come Bush, divenendo sinonimo di guerra e abusi. E sarebbe bene che anche Israele comprendesse che normalizzare i rapporti con l’ex alleato, anche a costo di qualche passo indietro, è anche nel suo interesse.

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