Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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USA, ritirata dal Sahel

di redazione

Le speranze di Washington di riuscire a mantenere la presenza militare in Niger sono tramontate definitivamente dopo l’arrivo a Niamey dei primi cento consiglieri militari della “Africa Corps” russa. Gli Stati Uniti lo scorso fine settimana hanno infatti reso noto di aver accettato di ritirare dal Niger il contingente di un migliaio di militari, UAV (droni) armati MQ9 Reaper, elicotteri e aerei da trasporto. Il vice segretario di Stato Kurt Campbell ha avuto un faccia a faccia a Washington con il premier nigerino Ali Mahamane Lamine Zeine, che ha ribadito la decisione sovrana del suo Paese di chiedere la partenza di tutte le forze straniere, comprese quelle americane. L’accordo prevederebbe l’invio nei prossimi giorni di una...
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di Michele Paris

Due giorni fa, il gabinetto olandese di centro-destra è diventato l’ennesima vittima della crisi del debito in Europa, quando il primo ministro, Mark Rutte, ha rimesso il proprio incarico nelle mani della regina Beatrice. La crisi di governo nei Paesi Bassi è stata provocata dal mancato accordo raggiunto dall’esecutivo con il Partito per la Libertà (PVV) di estrema destra su un pacchetto di austerity richiesto dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale.

Il premier Rutte è alla guida di un governo di minoranza, sostenuto dal suo Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia (VVD) e dai Cristiano Democratici (CDA), che finora ha dovuto fare affidamento sull’appoggio esterno del PVV di Geert Wilders. Rutte aveva messo assieme la sua coalizione nell’ottobre del 2010 dopo il crollo di quella precedente, formata dal CDA e dal Partito Laburista (PVDA), in seguito alla defezione di quest’ultimo, contrario alla decisione di prolungare la permanenza del contingente militare olandese in Afghanistan.

Come già anticipato, la rottura è avvenuta dopo che Wilders ha annunciato che il suo partito non avrebbe votato i nuovi tagli alla spesa pubblica voluti dal governo e che ammontano a 16 miliardi di euro. Il timore del leader populista olandese è quello di veder crollare i propri consensi appoggiando una serie di misure estremamente impopolari. Da qui la consueta accesa retorica di Wilders, il quale ha affermato che “non ha alcun senso infliggere sofferenze per compiacere i dittatori di Bruxelles”.

Secondo quanto concordato con l’Unione Europea, l’Olanda avrebbe dovuto sottoporre entro il 30 aprile il proprio piano di bilancio per riportate il deficit al di sotto del 3% del PIL entro la fine del 2013 dopo che per quest’anno dovrebbe salire al 4,7%.

La caduta di fatto del governo olandese e la mancata approvazione delle misure di austerity sono altamente significative. L’Olanda, oltre a essere uno dei pochi paesi europei a conservare il rating della tripla A per il proprio debito pubblico, è infatti schierata a fianco della Germania nel chiedere a tutti i governi dell’Unione il rispetto assoluto delle politiche di rigore. Il contagio dell’instabilità politica a questo paese appare dunque come il sintomo più evidente delle gravi tensioni sociali provocate dai diktat dei mercati finanziari e dei vertici europei ai governi sovrani per operare sempre più pesanti tagli alla spesa pubblica.

Le dimissioni di Rutte giungono inoltre in un momento nel quale sembrano tornare ad addensarsi nubi minacciose sul futuro dell’Unione Europea, con i mercati già in agitazione per la vittoria al primo turno delle presidenziali francesi di François Hollande e per la diffusione dei dati preoccupanti sull’andamento dell’economia tedesca. Questo inizio di settimana è stato così segnato da una nuova impennata dei tassi di interesse sui bond di molti paesi in affanno, tra cui l’Italia e la Spagna, e da perdite sostanziali per le principali borse europee e a Wall Street.

Se l’opposizione olandese, pur avendo nei propri programmi la riduzione del debito, non ha voluto prendersi il rischio di appoggiare il piano di austerity del governo, qualunque esecutivo prenderà il posto di quello uscente si ritroverà a fronteggiare le pressioni degli ambienti finanziari internazionali per rispettare gli impegni presi e procedere in qualche modo con l’approvazione delle misure di rigore.

A confermalo è stato lunedì il ministro delle Finanze olandese, Jan Kees de Jager (CDA), di ritorno del vertice dell’FMI a Washington. Secondo quest’ultimo, il governo Rutte potrebbe rimanere al suo posto per alcuni mesi, così da cercare un nuovo accordo sui tagli e ottenerne l’approvazione in Parlamento. Ribadendo le uniche preoccupazioni della classe dirigente europea in questa fase storica, nonché la natura profondamente anti-democratica dei governi in carica, Kees de Jager ha affermato che “la cosa più importante, per lanciare un messaggio ai mercati finanziari, è che l’Olanda, in qualsiasi circostanza, faccia tutto il possibile per mantenere la disciplina di bilancio”.

Al momento non è ancora chiara la data delle elezioni anticipate. Alcuni partiti preferiscono rimandare il voto a dopo l’estate, così come l’Unione Europea, che vorrebbe l’approvazione immediata del pacchetto di austerity per evitare di lasciare la questione in mano ad una nuova coalizione di governo che, alla luce della frammentazione politica e dell’impopolarità di quasi tutti i partiti olandesi, potrebbe essere tutt’altro che stabile.

Secondo i sondaggi, nessun partito sarebbe in grado di ottenere una chiara maggioranza e, in particolare, l’ostilità diffusa verso le politiche di rigore finora adottate determinerebbe un calo evidente dei consensi per la coalizione di governo e, in misura minore, per lo stesso PVV di Geert Wilders. Meglio dovrebbero andare invece le opposizioni, in particolare il Partito Socialista (SP).

La crisi di governo in Olanda, intanto, ha visto il moltiplicarsi sui media occidentali del messaggio già uscito recentemente dal summit FMI e cioè che le misure di austerity da sole non sono in grado di risolvere la crisi del debito nell’eurozona e sono perciò necessarie iniziative per rilanciare la crescita economica.

La nuova realtà appare tanto più preoccupante se si considera che solo poco più di un mese è passato dalla sottoscrizione da parte di 25 dei 27 paesi UE di un patto fiscale improntato al rigore che sembrava aver dissipato le principali inquietudini per il futuro dell’unione monetaria. Parallelamente, qualcosa come mille miliardi di euro in prestiti a bassissimo tasso di interesse, erogati tra dicembre e marzo dalla BCE al sistema bancario europeo, avevano ancor più fatto sperare che il peggio era ormai dietro le spalle. Ben presto tuttavia, i dati negativi provenienti da molte parti d’Europa hanno reso evidente che, con ogni probabilità, il fondo deve ancora essere toccato.

Mentre nelle stanze del potere e sui giornali si discute della necessità di misure che favoriscano la crescita, raramente si parla di iniziative concrete che, inevitabilmente, comporterebbero un maggiore livello di spesa, determinando un nuovo aumento dell’indebitamento di molti paesi e nuove pressioni dei mercati. Tra le idee che sembrano trovare maggiore consenso vi sono poi un eventuale ruolo più attivo della BCE nello stimolare la crescita e l’emissione di Eurobond, misure entrambe osteggiate dal governo di Berlino.

A ben vedere, in ogni caso, questa tardiva presa di coscienza del fatto che le politiche di rigore deprimono l’economia appare ben poco credibile. Come venne ripetuto fino alla nausea dopo lo scoppio della crisi globale nell’autunno del 2008, infatti, praticamente tutti i politici e gli economisti hanno assimilato la lezione della Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso negli Stati Uniti, aggravata proprio quando il governo americano interruppe precocemente le politiche di deficit spending provocando un nuovo rallentamento dell’economia.

Anche per questo motivo, appare dunque chiaro che quella in corso si tratta di una strategia ben orchestrata da parte delle élite politiche e finanziarie internazionali, secondo la quale sono stati dapprima implementati tagli selvaggi alla spesa pubblica per ridimensionarla drasticamente nel medio e lungo periodo, senza scrupolo alcuno per le conseguenze sull’economia e sulle condizioni di vita della maggior parte della popolazione, mentre in questa nuova fase l’obiettivo principale è la deregolamentazione del mercato del lavoro, così da creare una vasta manodopera a basso costo e senza diritti. Il tutto, com’è ovvio, propagandato come manovra indispensabile per stimolare la crescita economica.

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