Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i...
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Euskadi, un pareggio vittorioso

di Massimo Angelilli

Domenica 21 aprile, nel Paese Basco, circa un milione e ottocentomila persone erano chiamate alle urne per rinnovare il Parlamento. All’appello ha risposto il 62,5%, suddiviso tra le tre province di Bizcaya, Guipúzcoa e Álava. Una percentuale alta, se paragonata con l’ultimo appuntamento elettorale, quello del 2020 drammaticamente contrassegnato dalla pandemia. Molto più bassa invece, rispetto all’auge dell’80% raggiunto nel 1980, anno delle prime consultazioni dopo la transizione democratica. Nel sistema spagnolo, le elezioni regionali rappresentano un test estremamente significativo, al di là della influenza che potrebbero avere nella politica nazionale. È questa una lettura “classica” che, più o meno, si applica in...
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di Michele Paris

La situazione in Libia a quasi tre anni dalla deposizione e dall’assassinio di Gheddafi appare sempre più drammatica e ormai sul punto di esplodere in una guerra civile a tutti gli effetti. A sonvolgere il paese nord-africano, “liberato” dalle bombe NATO nel 2011 in seguito alla manipolazione di una risoluzione dell’ONU, sono i continui scontri tra milizie armate grosso modo riconducibili a militanti islamisti e secolari, appoggiati a loro volta da potenze straniere in competizione per l’influenza nella ex colonia italiana ricchissima di risorse energetiche.

A mettere in guardia la comunità internazionale dal baratro in cui sta precipitando la Libia è stato tra gli altri anche il suo ambasciatore alle Nazioni Unite, Ibrahim Dabbashi. Quest’ultimo ha lanciato un appello all’azione per evitare il peggio in concomitanza con il voto unanime questa settimana del Consiglio di Sicurezza per imporre nuove quanto inutili sanzioni sui presunti responsabili della destabilizzazione del paese.

I 15 membri del Consiglio, con apparente serietà, hanno anche invitato i paesi arabi ad adoperarsi per mettere fine alle violenze e a cercare una soluzione negoziata al conflitto in corso. La raccomandazione è apparsa sinistramente ironica, visto che proprio alcuni importanti paese arabi continuano ad alimentare gli scontri in Libia: Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi da una parte e Qatar dall’altra.

Questa realtà, che ha trascinato la Libia al centro della lotta di potere nella regione tra i sostenitori dell’Islamismo politico e i suoi oppositori, è apparsa evidente qualche giorno fa con la conferma da parte del governo americano che gli Emirati Arabi, grazie all’appoggio logistico egiziano, hanno recentemente bombardato con aerei da guerra alcune postazioni islamiste nel paese nord-africano.

L’intervento doveva avere l’obiettivo di impedire alle milizie islamiste, guidate dalla fazione proveniente da Misurata, di conquistare l’aeroporto internazionale di Tripoli, controllato da quasi tre anni dalla milizia di Zintan, nella Libia occidentale, alleata con varie altre formazioni sostenute appunto dal Cairo, Riyadh e Abu Dhabi.

Le incursioni aeree non hanno però avuto l’effetto sperato, visto che la fazione di Misurata e le alleate di quest’ultima hanno finito per assumere ugualmente il controllo dell’aeroporto nel fine settimana.

Nonostante le smentite, appare difficile che gli americani non siano stati al corrente dell’operazione decisa dal regime degli Emirati vista la stretta alleanza di quest’ultimo con Washington e la massiccia presenza di forze armate statunitensi nella regione del Golfo Persico. Del tutto possibile è invece un certo disappunto dell’amministrazione Obama che potrebbe temere sia un aggravamento del caos in Libia sia di essere scavalcata negli eventi di questo paese dai propri alleati arabi.

In ogni caso, gli attacchi aerei condotti il 18 e il 23 agosto non hanno rappresentato il primo intervento congiunto di Egitto ed Emirati Arabi in territorio libico, poiché in precedenza era circolata la notizia di almeno un blitz delle forze speciali di questi due paesi contro un accampamento degli islamisti poco oltre il confine con l’Egitto.

Lo scontro tra vari paesi arabi e non solo per estendere la loro influenza sulla Libia era iniziato già durante la “rivolta” contro Gheddafi, a conferma della più che dubbia natura democratica della guerra contro il regime alimentata fin dall’inizio da armi e denaro stranieri. Il Qatar e la Turchia, ad esempio, avevano da subito individuato possibili alleati soprattutto tra le milizie anti-governative di ispirazione islamista e dopo la fine del regime i due paesi si erano schierati a fianco dei Fratelli Musulmani libici.

Questi ultimi erano riusciti a prevalere all’interno del corpo legislativo “post-rivoluzionario” transitorio, denominato Congresso Nazionale Generale ed eletto nell’estate del 2012. In seguito, le milizie islamiste sarebbero state in pratica incorporate nelle strutture del nuovo stato, suscitando sempre più la preoccupazione di paesi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi, tradizionalmente ostili a forme alternative di islamismo politico che possano rappresentare una qualche minaccia ai rispettivi regimi assoluti.

Per tutta risposta, Riyadh e Abu Dhabi hanno allora iniziato a fornire aiuti militari e finanziari alle milizie anti-islamiste, originarie soprattutto della città occidentale di Zintan, contribuendo in maniera decisiva alla destabilizzazione della Libia.

Lo scontro si è fatto poi ancora più aspro dopo il colpo di stato in Egitto che ai primi di luglio dello scorso anno ha rimosso dal potere il presidente dei Fratelli Musulmani Mohamed Mursi – eletto democraticamente e sostenuto finanziariamente e politicamente dal Qatar – dando inizio a una violentissima repressione ai danni del movimento islamista. L’iniziativa dei militari egiziani era stata appoggiata in pieno da Arabia Saudita ed Emirati Arabi - nonché dagli Stati Uniti - e aveva incoraggiato ancor più all’azione le milizie anti-islamiste nella vicina Libia.

In un quadro di scontri sempre più violenti e con il rapido deterioramento della situazione interna, si è inserito inoltre nel mese di maggio il tentativo di riportare un qualche ordine nel paese da parte dell’ex generale di Gheddafi, Khalifa Hiftar. Esiliato per decenni negli Stati Uniti in una località a pochi chilometri dal quartier generale della CIA, Hiftar aveva tentato un’offensiva contro gli islamisti nella parte orientale della Libia con il tacito appoggio degli Stati Uniti, raccogliendo il consenso di varie milizie e manifestando chiaramente l’intenzione di riprodurre nel suo paese le vicende egiziane.

L’offensiva guidata da Hiftar si è però arenata dopo alcuni successi iniziali e le elezioni, da lui indette dopo avere sciolto il Congresso Nazionale Generale e licenziato il governo, non hanno prodotto nessun risultato.

Il voto tenuto a giugno aveva peraltro messo in minoranza le forze islamiste nel nuovo parlamento ma l’assemblea ha potuto riunirsi solo qualche settimana fa nella città orientale di Tobruk, mentre il vecchio Congresso Nazionale Generale è stato recentemente reinsediato a Tripoli. L’inconsistenza della nuova Camera è confermata dal fatto che le tre principali città libiche - Bengasi, Misurata e appunto la capitale - dove risiede più della metà della popolazione, rimangono sotto il controllo degli islamisti.

In questo scenario, la Libia è ormai un campo di battaglia tra opposte fazioni nel quale i principi che avevano nominalmente animato la guerra contro Gheddafi sono stati abbandonati anche nelle apparenze, con gli islamisti e i loro sponsor esteri che cercano di contrastare la controffensiva delle milizie rivali, finanziate a loro volta dal petrolio saudita e disposte da qualche tempo ad accettare anche il contributo di ex membri del regime del rais contro cui avevano duramente combattuto.

La progressiva disintegrazione delle strutture statali della Libia dopo la caduta di Gheddafi e la trasformazione di questo paese in una sorta di nuova Somalia hanno dunque responsabilità ben precise. Esse non sono però da ricercare soltanto tra quei regimi arabi che stanno combattendo per procura su tutto il fronte mediorientale e nord-africano per assestare un colpo letale alle forze islamiste rivali, appoggiate in particolare da Qatar e Turchia.

Le responsabilità maggiori sono da attribuire agli Stati Uniti e ai governi europei, oggi silenziosi o impotenti di fronte all’espandersi della crisi libica ma intervenuti prontamente a sostegno della “rivolta” anti-Gheddafi nel 2011 per favorire il crollo del regime dietro motivazioni umanitarie, puntando proprio sulle forze fondamentaliste e le milizie armate violente che hanno continuato in questi anni a fronteggiarsi per la spartizione del potere e delle ricchezze del paese.

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