La compagnia di navigazione Haijie Shipping Company ha inaugurato ieri il progetto artico cinese, denominato China-Europe Arctic Express. Si tratta di una connessione di navi portacontainer tra l’Estremo Oriente e l’Europa, lungo una rotta commerciale che attraversa l’Oceano Glaciale Artico invece dell’Oceano Indiano. Il China-Europe Arctic Express sarà operato dalla nave Istanbul Bridge, capace di trasportare 5.000 container per viaggio. Salpando dal porto di Quingdao (a nord di Shanghai), avrà come possibili destinazioni Felixstowe in Gran Bretagna, Rotterdam, Amburgo e Danzica.

La rotta riduce della metà i tempi di percorrenza (18 giorni invece di 28 passando per Suez) e i costi di consegna delle merci rispetto alle autostrade marittime che passano dall’Oceano Indiano fino al Mediterraneo. E tra i vantaggi di questo passaggio a nord-ovest sono c’è il fattore sicurezza: si evitano Mar Rosso e Canale di Suez, costantemente sotto la minaccia della pirateria e una rotta sicura riduce fortemente i costi assicurativi, oltre a quelli gestionali.

Benché al momento la rotta artica sia navigabile solo per alcuni mesi all’anno, gli scienziati cinesi e russi prevedono che a causa dello scioglimento dei ghiacci e della cantieristica navale specialistica, sarà sempre più navigabile.

La fase sperimentale procede a buon ritmo: il Centre for High North Logistics, un istituto norvegese che monitora la navigazione nei mari dell’estremo Nord, ha già registrato tra giugno e agosto il passaggio di 52 navi tra Vladivostok e San Pietroburgo.

Per Mosca e Pechino questa nuova rotta contribuirà a ridisegnare il commercio mondiale. Si tratterebbe, in effetti, di una rivoluzione copernicana: la perdita di centralità del Canale di Suez e dei porti mediterranei contribuirà in maniera incisiva allo spostamento del baricentro geopolitico verso l’estremo Nord, permettendo un consolidamento maggiore dell’asse geopolitico tra Pechino e Mosca.

Certo, ci vorranno anni prima che la rotta possa rappresentare una vera alternativa commerciale al resto degli oceani, ma non c’è dubbio che questa iniziativa costituisca una sfida agli Stati Uniti, che fondano la loro egemonia planetaria proprio sul controllo delle rotte marittime, attraverso le quali transita quasi il 90% delle merci mondiali. È il controllo dei mari e dei choke points - i colli di bottiglia o stretti marittimi - da parte degli USA. Fino ad ora nessun operatore aveva tentato una connessione regolare con l’Europa da un capo all’altro della Russia, dall’Asia fino al Vecchio Continente, lasciando fuori gli Stati Uniti. Da qui l’importanza strategica di aggiungere questo percorso a quelli già noti.

Non a caso Trump insistette molto nel voler controllare direttamente Canada e Groenlandia, per proiettare gli Stati Uniti nel quadrante che più di ogni altro rappresenterà (insieme allo Spazio) il terreno di scontro futuro tra le potenze.

Per il suo posizionamento strategico, per le risorse marine e del sottosuolo, l’Artico è una delle piattaforme internazionali decisive per il destino delle economie di USA, Russia e Cina. Oltre all’impatto sui tempi e sui conseguenti costi del trasporto delle merci, il progetto cinese produrrà un aumento degli scambi bilaterali con la Russia e, al tempo stesso, sarà una nuova ed efficace leva per eludere le sanzioni statunitensi ed europee contro Mosca e le minacce (inutili) contro Pechino.

Il progetto Arctic LNG 2, controllato al 60% dal colosso energetico russo Novatek, è destinato a diventare uno degli impianti di gas naturale liquefatto più grandi al mondo, con una produzione annua stimata di 19,8 milioni di tonnellate metriche. Esprime l’essenza della collaborazione tra russi e cinesi: i primi trasferiscono idrocarburi e materie prime ai secondi in cambio di tecnologie d’avanguardia per trasformare l’Oceano Artico in un “lago” libero da presenze occidentali.

Un esempio: secondo i dati di tracciamento di Kpler e Lseg, il 10 settembre una grande metaniera russa, la Zarya, inserita nella lista delle navi sanzionate da USA e UE e carica di GNL (gas naturale liquefatto) è salpata il 30 luglio con oltre 160 mila metri cubi di gas dal progetto Arctic LNG 2 a Gydan, nella Siberia settentrionale, per arrivare il 9 settembre al terminal di Tieshan, nella provincia sud-occidentale di Guangxi.

Pechino sta trasferendo verso Nord il meglio della propria tecnologia, dall’estrazione di idrocarburi fino a stazioni satellitari e marittime, rafforzando ulteriormente l’alleanza con Mosca. L’enclave di Kaliningrad, dal canto suo, offre alla Russia (e dunque anche alla Cina) una posizione nell’Artico che rappresenta tanto il posizionamento militare di difesa del territorio e delle acque russe quanto un punto di sostegno allo sviluppo commerciale russo ed un chiaro avvertimento alle ambizioni statunitensi nell’Artico e verso i Paesi del Nord Europa, che si sono affrettati a iscriversi nella NATO in cambio di generosi benefici per le carriere dei loro dirigenti in Svezia e Finlandia.

L’idea NATO era accerchiare la Russia, ma è proprio Kaliningrad a dissuaderli. Situata sulle rive del Mar Baltico, confinante a Sud con la Polonia, ad Est e a nord con la Lituania, Kaliningrad è dotata di unità strategiche a propulsione nucleare e di missili Iskander e Orenshik con testate multiple, in grado di colpire in pochi minuti tutte le capitali europee. Kalinigrad rende impossibile l’idea dell’accerchiamento e ricorda invece, ai vicini e agli altri Paesi europei, quanto rapida e drammaticamente letale potrebbe essere una risposta russa ad attacchi occidentali.

In questo senso, l’estensione a Est della NATO non è stata una grande idea per Estonia, Lettonia e Lituania, che sanno di essere il primo obiettivo militare russo in caso di conflitto, senza che ciò abbia portato alcun beneficio, salvo alimentare la loro atavica russofobia.

Anche per Finlandia e Svezia, un tempo garanti della neutralità e cuscinetto geopolitico delle tensioni tra blocchi, rompere i legami commerciali e politici con Mosca si è rivelato un calcolo pessimo, tanto che pochi giorni fa il primo ministro finlandese ha ammesso che la fine degli scambi con Mosca ha precipitato il Paese in una gravissima crisi economica. D’altronde, pensare di non commerciare né dialogare con il gigante vicino non poteva avere altro esito e, come sempre, le promesse europee e statunitensi di sostituire la Russia negli scambi restano promesse a cui solo gli ingenui abboccano.

In questo scenario, tanto per cambiare, l’Occidente invece di fermarsi a riflettere minaccia pavlovianamente sanzioni che tanto non fermeranno la dinamica globale. Essa poggia su nuovi equilibri finanziari e certifica la crescita delle economie emergenti di fronte alla crisi finanziaria, economica, sociale ed etica persino che ha ridotto l’influenza del capitalismo anglosassone (per quanto ancora forte) sui processi economici che decidono il destino del pianeta.

Appare dunque ridicolo l’annuncio del 19º pacchetto UE che prevede entro il 2027 la cessazione di qualsiasi quantità di gas dalla Russia e sanzioni secondarie verso chi commercia con Mosca. Sanzioni alle quali quasi nessuno aderisce e le cui condizioni di applicabilità sono sempre meno realizzabili.

Rappresentano un elemento fastidioso per l’economia russa, ma non possiedono la forza sufficiente per orientarne i destini complessivi. Risultano, dunque, una manifestazione di isteria impotente degli ex imperi coloniali, soprattutto se confrontate con gli effetti (qui sì catastrofici) che quelle stesse sanzioni producono in chi le impone. Un proseguire nella strada del suicidio assistito europeo.

Bruxelles appare ormai un fritto misto alla deriva, diretta da Washington e Londra e guidata dalla peggiore classe dirigente della sua pur breve storia che vaga disperata e minacciando, ma pronta al sacrificio ultimo pur di non ammettere la propria irrilevanza e inutilità. Ci sono molti modi per chiudere una fase storica, ma pochi rasentano il ridicolo come quello che accompagna la fine dell’UE.

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