Georgia, gli 'agenti' dell’Occidente

di Mario Lombardo

Il parlamento georgiano ha approvato questa settimana in prima lettura una controversa legge sugli "agenti stranieri", nonostante le proteste dell'opposizione e gli avvertimenti di Bruxelles che la legislazione potrebbe mettere a rischio le ambizioni del paese di aderire all’Unione Europea. La misura, ufficialmente nota come "Legge sulla trasparenza dell'influenza straniera", ha ricevuto...
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La memoria scomoda di Euskadi

di Massimo Angelilli

Il prossimo 21 aprile si svolgeranno le elezioni amministrative nei Paesi Baschi. Ovvero, il rinnovamento del Parlamento Autonomo, incluso il Lehendakari - Governatore che lo presidierà e i 75 deputati che lo integreranno. Il numero delle persone aventi diritto al voto è di circa 1.800.000, tra le province di Vizcaya Guipúzcoa e Álava. Il bacino elettorale più grande è quello biscaglino comprendente Bilbao, mentre la sede del Parlamento si trova a Vitoria-Gasteiz, capitale dell’Álava. Le elezioni regionali in Spagna, come d’altronde in qualsiasi altro paese, non sono mai una questione banale. Men che meno quelle in Euskadi. Si inseriscono in una stagione particolarmente densa di ricorso alle urne, iniziata con l’appuntamento...
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di Michele Paris

A pochi giorni dall’annuncio ufficiale della prossima apertura di un nuovo fronte di guerra contro lo Stato Islamico (ISIS) in territorio siriano, appare sempre più evidente come l’ennesimo sforzo americano in Medio Oriente sia niente di meno che una manovra per raggiungere l’obiettivo dell’abbattimento del regime di Bashar al-Assad. Allo stesso tempo, le promesse del presidente Obama di condurre una campagna senza soldati statunitensi sul campo in Iraq e in Siria sono già state sostanzialmente smentite dagli stessi vertici militari degli Stati Uniti.

Lo scenario delineato martedì dal capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey, nel corso di un’audizione di fronte alla commissione del Senato per le Forze Armate va infatti ben al di là di un’ipotesi teorica, nonostante le rassicurazioni.

L’ufficiale più alto in grado negli Stati Uniti ha affermato che, “per essere chiaro, se dovessimo giungere a un punto tale da farmi ritenere che i nostri consiglieri [militari] debbano accompagnare le truppe irachene nel corso di attacchi specifici contro l’ISIL [ISIS], non esiterei a raccomandare al presidente” una simile escalation.

La sola ipotesi avanzata da Dempsey contraddice quanto sostenuto di fronte al paese in diretta televisiva una settimana fa da Obama, il quale aveva annunciato senza eccezioni una guerra fatta di sole incursioni aeree in Iraq e in Siria, con l’appoggio a operazioni di terra condotte rispettivamente dall’esercito di Baghdad e dalla fantomatica opposizione “moderata” anti-Assad.

Lo stesso Obama, nel corso di un incontro mercoledì in Florida con i vertici del Comando Centrale, responsabile delle operazioni USA in Medio Oriente, ha ribadito che le forze americane già inviate in Iraq “non hanno e non avranno incarichi di combattimento”.

Al di là delle dichiarazioni ufficiali, la possibilità di utilizzare forze di terra in entrambi i paesi interessati dall’avanzata dell’ISIS è invece già contemplata dal governo americano. Anzi, le parole del capo di Stato Maggiore USA intendono in qualche modo preparare proprio un tale scenario, poiché Washington, come di consueto, potrebbe facilmente sfruttare qualsiasi situazione negativa - o crearla ad arte - per precipitare la crisi in Medio Oriente, in modo da convincere Congresso e opinione pubblica della necessità di aumentare l’impegno militare con truppe di terra.

La nuova avventura bellica degli Stati Uniti in Medio Oriente ha d’altra parte già fatto segnare una drammatica escalation dall’inizio delle operazioni poco più di un mese fa, senza autorizzazioni del Congresso né particolari dibattiti interni, giustificandola di volta in volta con nuove emergenze che non potevano essere lasciate senza risposta.

Quella che era nata come una semplice azione mirata per rompere l’assedio della minoranza Yazidi in Iraq da parte dell’ISIS si sta per trasformare così in una guerra a tutti gli effetti, da condurre con una coalizione composta da decine di paesi.

Secondo Dempsey, inoltre, i vertici militari USA avrebbero già provato a convincere Obama ad affiancare un certo numero di soldati americani a quelli iracheni “sul campo”. Ciò sarebbe accaduto durante l’offensiva delle forze di Baghdad per riprendere la diga di Mosul in mano all’ISIS nel mese di agosto, quando il numero uno del Comando Centrale, generale Lloyd Austin, avrebbe chiesto alla Casa Bianca di autorizzare il dispiegamento di truppe sul terreno con l’incarico di guidare le incursioni aeree.

La richiesta era stata però respinta e il generale Dempsey aveva optato per l’impiego di “consiglieri” militari nella capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno, Erbil, da dove hanno contribuito alle manovre belliche seguendo le immagini della battaglia in tempo reale grazie a telecamere montate sui velivoli da guerra americani. Dempsey, comunque, anche in questo caso ha lasciato intendere che le sue raccomandazioni al presidente potrebbero cambiare “a seconda delle condizioni sul campo”.

Questa rivelazione e le precedenti dichiarazioni di Dempsey confermano anche le divisioni circa la strategia da mettere in atto contro l’ISIS e la Siria all’interno del governo e dell’apparato militare americano, impegnati nei preparativi per una guerra che si preannuncia molto lunga e potenzialmente rovinosa.

A confermare poi che l’obiettivo reale del conflitto che sta per esplodere sia il regime di Damasco ha contribuito anche un significativo scambio di battute avvenuto nella stessa audizione al Congresso di martedì tra Dempsey e il segretario alla Difesa Chuck Hagel da una parte e, dall’altra, il senatore repubblicano John McCain, uno dei “falchi” dell’interventismo americano all’estero.

L’ex candidato alla Casa Bianca ha a un certo punto messo in dubbio l’efficacia di una strategia che prevede che le forze di opposizione diano la priorità alla guerra contro l’ISIS rispetto allo sforzo per rovesciare Assad, chiedendo poi se i “ribelli” siriani sarebbero “assistiti” dall’aviazione americana nel caso venissero attaccati dal regime. A rispondere all’anziano senatore dell’Arizona è stato Hagel, il quale non ha escluso l’ipotesi di bombardamenti contro le postazioni del regime siriano, pur ribadendo l’attuale priorità della guerra contro l’ISIS.

La questione sollevata da McCain e la reticenza del numero uno del Pentagono lasciano intendere anche in questo caso che un eventuale attacco - vero o fabbricato - da parte delle forze regolari di Damasco contro i “ribelli” appoggiati dall’Occidente potrebbe nel prossimo futuro fornire la giustificazione per rivolgere la forza di fuoco americana contro Assad.

Delle intenzioni di Washington il primo a esserne consapevole è il regime siriano, il quale, precisamente per cercare di prevenire una spirale di guerra che porti direttamente al confronto militare tra le proprie forze e quelle americane, ha illusoriamente invitato l’amministrazione Obama a collaborare nella guerra contro i terroristi dell’ISIS, denunciando invece come un’aggressione inaccettabile eventuali bombardamenti contro i jihadisti entro i propri confini che non vengano coordinati con Damasco.

Gli USA hanno ovviamente respinto gli inviti, così come nella recente conferenza di Parigi avevano messo il veto all’ipotesi di invitare i governi di Iran e Siria per discutere delle misure da adottare per combattere l’ISIS.

A qualche osservatore non è però sfuggita l’ironia della circostanza, con gli Stati Uniti e i loro alleati in Medio Oriente - dopo essere stati i diretti responsabili della nascita e dei successi dell’ISIS - che hanno promesso di sconfiggere l’organizzazione fondamentalista sunnita escludendo dalla coalizione, nonostante la disponibilità, i due governi che più di ogni altro si sono battuti contro quest’ultima.

Anche nelle dichiarazioni ufficiali di Washington, d’altra parte, l’obiettivo della distruzione dell’ISIS viene proclamato senza riserve solo per quanto riguarda l’Iraq, mentre per la Siria la questione appare più sfumata e qui la lotta ai terroristi sunniti dovrà accompagnarsi allo sforzo per il cambio di regime. Un’ISIS indebolito ma non fuori dai giochi in Siria, infatti, potrebbe tornare a essere utile nella guerra contro Assad, come lo è stato in questi anni godendo del finanziamento e della fornitura di armi da parte di svariati alleati degli USA nella regione.

A riprova di ciò può essere citata l’adesione convinta - almeno a livello ufficiale - di paesi come Arabia Saudita o Qatar alla guerra lanciata da Obama. La loro partecpazione non può infatti essere spiegata semplicemente con la possibile minaccia che i jihadisti finerebbero per rappresentare per Riyadh o Doha se lasciati liberi di agire, soprattutto dopo che questi regimi hanno speso centinaia di milioni di dollari a favore proprio dell’ISIS e di altre organizzazioni estremiste attive in Siria.

Più probabilmente, i sovrani assoluti delle monarchie ultra-reazionarie del Golfo hanno deciso di assicurare la propria disponibilità allo sforzo militare statunitense nella convinzione che i loro investimenti in Siria saranno alla fine ripagati da Washington con la tanto sospirata offensiva che dovrebbe portare al rovesciamento dell’odiato regime alauita (sciita) di Damasco.

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