Gaza, gli scogli della tregua

di Michele Paris

L’attitudine dei vertici di Hamas nei confronti dell’ultima proposta di tregua avanzata da Israele sembra essere improntata a un’estrema cautela. Il movimento di liberazione palestinese che controlla Gaza ha fatto sapere nelle scorse ore che restano ancora elementi ambigui nella bozza sottoposta con la mediazione egiziana, anche se le trattative sono tuttora in corso e il documento potrebbe...
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Ecuador: la "valanga" referendaria

di Juan J.Paz-y-Miño Cepeda

Il 21 aprile (2024), su iniziativa del governo di Daniel Noboa, presidente dell'Ecuador, si è svolta una consultazione e un referendum su 11 quesiti, tre dei quali riguardavano il ruolo delle forze armate nella lotta contro la delinquenza e la criminalità organizzata, a sostegno della polizia; altri tre sull'estradizione degli ecuadoriani, sull'aumento delle pene e sulla scontata esecuzione di pene piene per i condannati; altri tre sulle magistrature specializzate in materia costituzionale, sul reato di porto d'armi e sul fatto che lo Stato diventerà proprietario dei beni sequestrati di origine illecita. Le altre due erano sull'arbitrato internazionale e un'altra per consentire l'introduzione del lavoro a ore e a tempo determinato....
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di Michele Paris

Il giorno dopo la gravissima umiliazione patita dalle forze armate del regime golpista di Kiev a Debaltsevo, i quattro protagonisti dell’accordo per il cessate il fuoco raggiunto settimana scorsa a Minsk - Hollande, Merkel, Poroshenko, Putin - hanno ribadito il loro impegno per la sospensione delle ostilità in Ucraina sud-orientale. La momentanea fiducia nella tregua ribadita dai leader occidentali e da Kiev a fronte del più recente successo dei “ribelli” filo-russi conferma le condizioni disperate in cui versa il regime, scosso da una situazione militare probabilmente irrimediabile e da una crisi economica di proporzioni drammatiche.

Ufficialmente, da Washington a Parigi e da Berlino a Kiev, le “violazioni” del cessate il fuoco da parte delle forze armate delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk sono state duramente condannate, ma nessuno degli sponsor di Kiev ha ritenuto finora di dover dichiarare defunto l’accordo di Minsk.

I filo-russi, da parte loro, subito dopo Minsk avevano fatto sapere di non considerare valide le condizioni della tregua in relazione alla città di Debaltsevo, punto nevralgico che connette Donetsk e Lugansk. Per questa località, l’amministrazione Poroshenko si era rifiutata di riconoscere che i propri militari erano da tempo sotto l’assedio dei “ribelli”, escludendo perciò di fatto lo stop immediato degli scontri e prolungandoli così di qualche giorno con la perdita di un numero imprecisato di soldati ucraini.

I leader dei separatisti avevano da giorni invitato i soldati ucraini rimasti a Debaltsevo ad arrendersi e a consegnare le armi, così come aveva fatto lo stesso presidente russo, ma l’ordine del ritiro da parte di Poroshenko è arrivato solo nella giornata di mercoledì.

Con la ritirata delle truppe governative da Debaltsevo, le due parti hanno lasciato intendere che i termini della tregua cominceranno a essere implementati. L’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) ha fatto sapere giovedì che i suoi osservatori non hanno ancora riscontrato alcun ritiro delle armi pesanti dalle “linee di contatto” stabilite a Minsk. Tuttavia, ciò dovrebbe iniziare non appena le ostilità saranno definitivamente cessate lungo tutta la linea del fronte. Nella giornata di giovedì, fuoco di artiglieria è stato registrato sia a Debaltsevo sia in altre località dell’Ucraina sud-orientale.

La perdita di Debaltsevo ha suggellato una campagna disastrosa fatta di sconfitte nelle ultime settimane per le forze di Kiev e, pur apparendo inevitabile, rischia di avere pesanti ripercussioni per il regime, sia dal punto di vista strategico che politico.

Per molti osservatori indipendenti del conflitto, il territorio ora in mano ai filo-russi consentirà loro di affrontare un’eventuale ripresa della guerra da una posizione di forza, rendendo probabilmente inefficaci anche possibili forniture massicce di armi a favore di Kiev da parte dei governi occidentali.

Sul fronte domestico, il presidente Poroshenko appare poi ulteriormente indebolito, con i rivali interni - a cominciare dal primo ministro Yatseniuk - che potrebbero accelerare le manovre allo studio da tempo per costringerlo a farsi da parte.

La nuova offensiva contro i “ribelli”, tentata a partire dallo scorso gennaio da parte del governo ucraino, era stata infine un tentativo per far fronte ai problemi interni con una campagna militare sanguinosa. Questa strategia si è però ritorta contro Poroshenko e ha finito per evidenziare tutte le debolezze del suo governo e, a giudicare dai risultati sul campo, la sostanziale mancanza di consenso nel paese per un conflitto fratricida alimentato dalle mire strategiche dell’Occidente.

La disperazione del presidente e dei suoi sostenitori si è manifestata anche nella richiesta avanzata mercoledì di una presenza di caschi blu dell’ONU in Ucraina sud-orientale. La supplica di Poroshenko è dettata da vari fattori, a cominciare dalla consapevolezza della fragilità delle proprie forze armate, difficilmente in grado di sostenere una nuova avanzata dei separatisti.

Parallelamente, almeno secondo le repliche dei leader di Donetsk e Lugansk, il regime di Kiev intenderebbe in questo modo sottrarsi agli impegni sottoscritti a Minsk. L’inviato della Repubblica Popolare di Donetsk presso il cosiddetto “Gruppo di Contatto”, Denis Pushilin, è stato citato giovedì sull’argomento dall’agenzia di stampa russa Tass, secondo la quale avrebbe sostenuto che il dispiegamento di “forze di peacekeeping lungo la frontiera russo-ucraina del Donbass sarebbe una violazione dell’accordo del 12 Febbraio”.

L’intesa sottoscritta la scorsa settimana richiede infatti che il governo di Kiev “negozi le questioni relative alla linea di confine con le forze di auto-difesa”, ovvero i separatisti filo-russi, “dopo elezioni municipali e riforme costituzionali” in senso federalista o autonomista.

Sempre giovedì, la richiesta di Poroshenko è stata bocciata anche da Mosca. Il portavoce del ministero degli Esteri, Alexander Lukashevich, ha ricordato che la base per una risoluzione del conflitto è rappresentata esclusivamente dagli accordi di Minsk. L’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin, ha aggiunto che nell’intesa del 12 febbraio non sono previsti ruoli di garanzia per l’ONU o l’UE - bensì solo per l’OSCE - e che, di conseguenza, Kiev dovrebbe “lavorare per implementare quanto ha sottoscritto” piuttosto che proporre nuove soluzioni.

Il sempre più evidente fallimento del disegno occidentale in Ucraina per sottrarre interamente questo paese all’influenza di Mosca non comporta comunque in nessun modo il venir meno del rischio di una ripresa del conflitto tra le forze di Kiev e i separatisti o, nella peggiore delle ipotesi, di una guerra catastrofica tra potenze nucleari.

L’irresponsabilità dei governi occidentali, con Washington in prima fila, nel perseguimento dei propri obiettivi strategici non va infatti sottovalutata. Allo stesso modo, il regime di Kiev ha già utilizzato precedenti sospensioni del conflitto per riorganizzare le proprie truppe e rilanciare le operazioni militari contro i separatisti.

L’amministrazione Obama, inoltre, non sembra intenzionata a recedere dalle minacce e dalle pressioni sulla Russia. Questa settimana, ad esempio, la portavoce del Dipartimento di Stato USA, Jen Psaki, ha confermato che l’ipotesi di fornire armi al regime ucraino rimane “sul tavolo”, nonostante il cessate il fuoco e nonostante il Cremlino abbia fatto sapere che questa mossa verrebbe considerata come una minaccia diretta alla sicurezza nazionale russa.

L’atteggiamento dell’Unione Europea appare invece più sfumato visti gli interessi in gioco in relazione ai rapporti con Mosca, ben maggiori da questa parte dell’oceano rispetto a Washington. Tra i paesi membri ci sono anche profonde differenze, risultate nuovamente molto chiare qualche giorno fa con la visita di Putin a Budapest, conclusasi con una critica non troppo velata da parte del premier ungherese, Viktor Orbán, alla posizione di Bruxelles sulla questione ucraina.

In ogni caso, almeno ufficialmente l’UE continua a mostrare il proprio sostanziale allineamento agli Stati Uniti, sia pure escludendo l’ipotesi di inviare armi a Kiev. La numero uno della politica estera dell’Unione, Federica Mogherini, ha ribadito mercoledì che i 28 governi membri “rimangono pronti a intraprendere le misure appropriate nel caso dovessero continuare gli scontri o [verificarsi] altri sviluppi negativi in violazione degli accordi di Minsk”.

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