Georgia, gli 'agenti' dell’Occidente

di Mario Lombardo

Il parlamento georgiano ha approvato questa settimana in prima lettura una controversa legge sugli "agenti stranieri", nonostante le proteste dell'opposizione e gli avvertimenti di Bruxelles che la legislazione potrebbe mettere a rischio le ambizioni del paese di aderire all’Unione Europea. La misura, ufficialmente nota come "Legge sulla trasparenza dell'influenza straniera", ha ricevuto...
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La memoria scomoda di Euskadi

di Massimo Angelilli

Il prossimo 21 aprile si svolgeranno le elezioni amministrative nei Paesi Baschi. Ovvero, il rinnovamento del Parlamento Autonomo, incluso il Lehendakari - Governatore che lo presidierà e i 75 deputati che lo integreranno. Il numero delle persone aventi diritto al voto è di circa 1.800.000, tra le province di Vizcaya Guipúzcoa e Álava. Il bacino elettorale più grande è quello biscaglino comprendente Bilbao, mentre la sede del Parlamento si trova a Vitoria-Gasteiz, capitale dell’Álava. Le elezioni regionali in Spagna, come d’altronde in qualsiasi altro paese, non sono mai una questione banale. Men che meno quelle in Euskadi. Si inseriscono in una stagione particolarmente densa di ricorso alle urne, iniziata con l’appuntamento...
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di Michele Paris

La crisi in cui si dibatte da tempo lo Yemen è sfociata ufficialmente in un nuovo conflitto regionale in Medio Oriente nella mattinata di giovedì in seguito ai bombardamenti aerei condotti dall’Arabia Saudita e dalle altre monarchie assolute del Golfo Persico nel più povero dei paesi arabi. L’obiettivo della “coalizione”, messa assieme dai sauditi e appoggiata dagli USA, sono i “ribelli” sciiti Houthi che dallo scorso autunno hanno progressivamente preso il controllo delle istituzioni dello stato yemenita, estromettendo dal potere il burattino di Washington e Riyadh, ovvero il presidente Abd Rabbu Mansour Hadi.

La portata dell’impegno militare in Yemen è stata descritta dal network saudita Al Arabiya. La campagna di Riyadh conta su 100 velivoli da guerra, ben 150 mila soldati e altre unità navali. Le incursioni nelle prime ore di giovedì avrebbero già fatto alcune vittime tra i leader Houthi. Lo Yemen, intanto, ha chiuso i principali aeroporti sul proprio territorio e lo spazio aereo del paese è sotto il completo controllo saudita.

Della “coalizione” fanno parte i paesi dell’ultra-reazionario Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) - tranne l’Oman - cioè Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar, più l’Egitto, la Giordania, il Marocco, il Pakistan e il Sudan. Alcuni di questi ultimi paesi avrebbero già manifestato la disponibilità a inviare truppe di terra in Yemen.

Poco dopo l’annuncio dell’avvio delle manovre belliche da parte dell’ambasciatore saudita a Washington, Adel al-Jubeir, l’amministrazione Obama ha comunicato il proprio sostegno all’alleato saudita, con la portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Bernadette Meehan, che ha confermato come il presidente abbia “autorizzato il supporto logistico e d’intelligence alle operazioni militari” dirette dal GCC.

L’aggressione dello Yemen dovebbe essere il tentativo di fermare l’avanzata degli Houthi, ritenuti una forza al servizio degli obiettivi strategici dell’Iran. La giustificazione formale dell’attacco sarebbe la richiesta presentata qualche giorno fa dal presidente yemenita Hadi alle Nazioni Unite per intervenire a favore della “legittima autorità” del suo paese e respingere la minaccia degli Houthi, minacciosamente vicini alla città di Aden, sulla costa meridionale. Qui, lo stesso presidente, costretto ad annunciare le dimissioni nel mese di gennaio, si era rifugiato dopo la fuga dalla capitale, Sanaa, dove era tenuto in stato di semi-prigionia dagli Houthi.

L’ennesima guerra esplosa in Medio Oriente rappresenta in primo luogo una nuova débacle per gli Stati Uniti e la loro sconsiderata strategia per il dominio del mondo arabo sotto forma di “guerra al terrore”. La disintegrazione della società di questo paese della penisola arabica appare tanto più eclatante alla luce del fatto che, solo pochi mesi fa, il presidente Obama aveva celebrato pubblicamente la validità del modello yemenita nell’esecuzione della strategia anti-terroristica americana.

Nelle ultime settimane si è assistito piuttosto all’avanzata di una marea che ha travolto il regime del presidente Hadi e, con esso, i piani degli USA per lo Yemen. La stessa presenza della rappresentanza diplomatica americana, delle forze speciali e della CIA in questo paese è stata spazzata via con una serie di umilianti ordini di ritiro, culminati con la recente conquista da parte degli Houthi della base di Al Anad, quartier generale delle missioni di morte con i droni condotte dagli Stati Uniti ufficialmente contro i membri di Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP).

Proprio l’intervento americano in Yemen ha causato l’aggravamento delle tensioni settarie e il risentimento di ampie fasce della popolazione nei confronti di un regime percepito correttamente al servizio dell’imperialismo a stelle e strisce. Secondo varie fonti, i droni americani avrebbero fatto più di mille vittime in Yemen, tra cui un numero imprecisato di civili innocenti.

La guerra appena iniziata rischia così di infiammare ancor più il Medio Oriente, in considerazione soprattutto della possibile reazione dell’Iran. Il ministro degli Esteri della Repubblica Islamica ha condannato giovedì l’iniziativa saudita, con la portavoce Marziyeh Afkham che ha ricordato la necessità di implementare gli accordi mediati dalle Nazioni Unite per giungere a una risoluzione pacifica del conflitto interno allo Yemen.

I negoziati tra le parti in lotta erano di fatto saltati nel mese di gennaio, a detta degli Houthi a causa della mancata accettazione da parte del governo dei termini concordati per attuare un piano di integrazione nelle istituzioni dei leader del movimento che rappresenta le tribù sciite del nord dello Yemen dopo decenni di repressione e marginalizzazione.

Riguardo all’Iran, è significativo e con ogni probabilità tutt’altro che casuale che l’operazione militare saudita prenda le mosse a pochissimi giorni dall’ultima data utile per il raggiungimento di un accordo internazionale preliminare sul nucleare di Teheran. Riyadh, assieme a Israele e alle altre monarchie medievali del Golfo Persico, si oppone fermamente alla risoluzione della crisi sul nucleare iraniano, temendo che una certa rappacificazione tra Teheran e Washington possa consentire alla Repubblica Islamica - vale a dire il proprio rivale storico - di giocare un ruolo di primo piano in Medio Oriente, riducendo l’influenza saudita.

Trascinando l’Iran in una guerra aperta nello Yemen, secondo la propaganda ufficiale in appoggio a una milizia sciita “ribelle” che intende rovesciare un governo e un presidente legittimi, l’Arabia Saudita spera di assestare un colpo mortale alle trattative in atto sul nucleare e di mantenere Teheran nello stato di isolamento in cui si è trovato in questi anni.

Proprio la vicinanza di un accordo con le potenze internazionali per risolvere l’annosa questione del proprio programma nucleare, però, dovrebbe convincere l’Iran a mantenere un atteggiamento prudente sullo Yemen, per lo meno nel breve periodo, nonostante il relativo appoggio garantito finora agli Houthi.

Le potenzialità esplosive del nuovo conflitto rischiano però seriamente di allargare il fronte delle ostilità, tanto più in presenza di altri gravissimi scenari di crisi in Medio Oriente. Gli stessi militanti Houthi hanno già fatto sapere di avere radunato i propri uomini nel governatorato di Saada, lungo il confine con l’Arabia Saudita, e di avere intenzione di valutare una “risposta adeguata” all’aggressione dei paesi del Golfo.

Un membro del politburo della milizia sciita, denominata ufficialmente “Ansarullah”, ha definito l’attacco saudita come una “dichiarazione di guerra contro il popolo yemenita”. Secondo quanto riportato dai media, i primi bombardamenti avrebbero già fatto una ventina di morti e decine di feriti.

Nella crisi dello Yemen è impossibile non rilevare infine alcune contraddizioni e intrecci apparentemente anomali che caratterizzano la “guerra al terrore” e le manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati.

Ad esempio, l’ascesa degli Houthi sarebbe stata favorita da fazioni nelle forze armate yemenite che continuano a fare riferimento all’ex presidente Saleh, per decenni fedele alleato di USA e Arabia Saudita. Saleh era stato deposto nel 2012 in seguito a un piano mediato da Riyadh per mettere fine ai disordini provocati dalla “Primavera Araba” che minacciavano la totale destabilizzazione dello Yemen.

Saleh era stato costretto a farsi da parte per lasciare spazio al suo vice - l’attuale presidente Hadi - in seguito a un’elezione-farsa nella quale quest’ultimo appariva come l’unico candidato. Avendo mantenuto una certa influenza nel paese pur essendo in esilio in Etiopia, Saleh ha fin dall’inizio manovrato contro il nuovo regime, finendo per appoggiare la campagna degli Houthi.

Singolarmente, Stati Uniti e Arabia Saudita continuano inoltre a indicare come obiettivo del proprio intervento in Yemen, oltre e ancor più degli Houthi, la presenza di al-Qaeda.

Tuttavia, com’è accaduto in Siria con la campagna anti-Assad, anche nella penisola arabica a essere combattuti sono ora coloro che conducono la battaglia più intensa ed efficace contro il fondamentalismo sunnita. Violenti scontri armati tra Houthi e al-Qaeda, infatti, sono stati frequentemente registrati negli ultimi mesi in Yemen.

A determinare il nuovo intervento militare unilaterale sul territorio di un paese sovrano da parte degli USA o dei loro alleati è in sostanza la prospettiva di uno Yemen nel caos totale o, ancora peggio, sotto l’influenza iraniana attraverso il predominio di una formazione settaria (sciita) come gli Houthi.

A fronte della povertà estrema della propria popolazione e della devastazione sociale che lo caratterizza, questo paese rappresenta uno snodo strategico fondamentale per le potenze regionali e non solo. Lo Yemen, oltre a condividere una lunghissima linea di confine con l’Arabia Saudita, a sua volta costretta a fare i conti con un’irrequieta minoranza sciita nel proprio territorio, si affaccia sullo stretto di Bab el-Mandeb che congiunge il Mar Rosso con il Golfo di Aden e, quindi, l’Oceano Indiano, da dove transitano importanti rotte commerciali che consentono il trasporto del petrolio nordafricano e dell’export europeo e americano verso i paesi del continente asiatico.

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