Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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USA, ritirata dal Sahel

di redazione

Le speranze di Washington di riuscire a mantenere la presenza militare in Niger sono tramontate definitivamente dopo l’arrivo a Niamey dei primi cento consiglieri militari della “Africa Corps” russa. Gli Stati Uniti lo scorso fine settimana hanno infatti reso noto di aver accettato di ritirare dal Niger il contingente di un migliaio di militari, UAV (droni) armati MQ9 Reaper, elicotteri e aerei da trasporto. Il vice segretario di Stato Kurt Campbell ha avuto un faccia a faccia a Washington con il premier nigerino Ali Mahamane Lamine Zeine, che ha ribadito la decisione sovrana del suo Paese di chiedere la partenza di tutte le forze straniere, comprese quelle americane. L’accordo prevederebbe l’invio nei prossimi giorni di una...
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di Michele Paris

Il raggiungimento di un accordo definitivo sul nucleare iraniano sembra dovere slittare almeno di qualche giorno rispetto alla scadenza originariamente fissata per la mezzanotte di martedì 30 giugno. Il prolungamento delle discussioni in corso a Vienna è dovuto alle difficoltà nell’arrivare a un’intesa su una manciata di questioni ritenute cruciali dai governi occidentali che fanno parte del gruppo dei P5+1 (USA, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania), anche se la laboriosità delle trattative indica soprattutto l’assenza della volontà politica da parte americana di riconoscere la piena legittimità delle aspirazioni di Teheran, non solo nell’ambito del nucleare.

Il fine settimana appena concluso ha fatto registrare fitti incontri tra il capo della delegazione iraniana, il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, con i rappresentanti di USA, Francia, Gran Bretagna, Germania e Unione Europea. Lo stesso diplomatico iraniano è poi tornato a Teheran nella giornata di domenica per consultazioni con il governo e l’entourage della guida suprema, ayatollah Ali Khamenei, ma sarà di ritorno a Vienna già martedì.

Il segretario di Stato USA, John Kerry, è rimasto invece nella capitale austriaca, mentre i suoi omologhi Laurent Fabius (Francia), Philip Hammond (GB) e Frank-Walter Steinmeier (Germania) torneranno nelle ore immediatamente precedenti la scadenza, assieme ai ministri degli Esteri di Russia e Cina.

Domenica, la responsabile della politica estera UE, Federica Mogherini, aveva affermato che vi erano speranze sul rispetto del termine del 30 giugno, anche se molti giornali hanno riportato i preparitivi delle varie parti per prorogare le trattative e delineare un accordo nei giorni successivi.

I punti sui quali sono arenati i negoziati riguardano in particolare le modalità e i tempi con cui dovrebbero essere cancellate o sospese le sanzioni che gravano sulla Repubblica Islamica e la natura delle ispezioni internazionali nei siti nucleare iraniani. Particolarmente controverse sono poi le ispezioni presso le installazioni militari, teoricamente utili per verificare ipotetici programmi condotti dall’Iran in passato per giungere alla costruzione di armi nucleari.

Il governo francese si è fatto carico nei giorni scorsi di “proporre” condizioni più stringenti in questi due ambiti, nonché di imporre limiti alle attività iraniane di ricerca e sviluppo sul nucleare. Come hanno spiegato molti analisti, l’iniziativa di Parigi è stata chiaramente coordinata con gli Stati Uniti e Israele.

Singolarmente, tutte queste condizioni erano state respinte da Khamenei nel corso di un discorso pubblico tenuto la scorsa settimana e destinato in larga misura a placare i timori degli oppositori dell’accordo sul fronte domestico.

L’ayatollah, il quale ha dato tempo fa la propria approvazione ai negoziati, era ricorso a una retorica combattiva, criticando gli Stati Uniti - sostanzialmente in maniera corretta - per volere la “resa” dell’Iran, escludendo tra, l’altro, l’accettazione di restrizioni alla propria attività nucleare per un periodo di “10 o 12 anni”.

Khamenei, inoltre, ha invocato la fine di tutte le sanzioni economiche, sia quelle imposte dal Consiglio di Sicurezza ONU sia quelle del Congresso USA o della Casa Bianca, immediatamente dopo la firma dell’accordo, mentre le altre - cioè in ambito energetico o militare - potrebbero essere smantellate in un periodo di tempo ragionevole. Washington, al contrario, intende imbrigliare l’Iran in un lungo processo di graduale allentamento delle sanzioni, le quali potrebbero in ogni caso essere riapplicate automaticamente in caso di mancato rispetto dell’accordo.

Qualsiasi ispezione dei siti militari, infine, è stata esclusa da Khamenei, vista anche la risaputa fragilità delle presunte prove presentate in passato all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) circa gli esperimenti iraniani sul nucleare in questo settore.

L’insistenza degli Stati Uniti e dei loro alleati su condizioni che difficilmente possono essere accettate dal governo di Teheran senza capitolare e subire pericolosi contraccolpi interni riflette in parte le pressioni esercitate da più parti sull’amministrazione Obama per fare marcia indietro sull’accordo o, quanto meno, per constringere l’Iran a fare concessioni ancora maggiori.

Alle manovre del Congresso di Washington e all’isteria di Israele continuano ad aggiungersi voci esterne, come quelle di cinque ex consiglieri del presidente americano, i quali hanno messo in guardia dal firmare un accordo che non conterrebbe nemmeno gli standard minimi fissati dal governo USA per sventare la minaccia nucleare iraniana.

Da parte sua, Obama intende finalizzare un accordo nel più breve tempo possibile, sia pure cercando di ottene il massimo da Teheran. Un eventuale sforamento della scadenza prevista dall’intesa preliminare raggiunta il 2 aprile scorso a Losanna dovrebbe essere al massimo di pochi giorni, anche perché se la Casa Bianca non presenterà un accordo al Congresso per ottenerne l’approvazione entro il 9 luglio, il periodo di tempo a disposizione di quest’ultimo per analizzarlo passerà da 30 a 60 giorni.

Ciò è quanto previsto da una legge recentemente approvata dal Congresso stesso e firmata da Obama come compromesso per superare le resistenze di deputati e senatori di entrambi i partiti ai negoziati con la Repubblica Islamica.

Il calcolo di Obama appare dunque parzialmente differente da quello dei “falchi” di Washington, interessati in maniera pura e semplice al cambio di regime a Teheran. La Casa Bianca, puntando sulla disponibilità della leadership “moderata” in Iran e sul desiderio di veder cessare le sanzioni economiche punitive, auspica un accordo che preservi un meccanismo volto a fare pressioni sul regime anche nei prossimi anni, sia attraverso la minaccia della reimposizione delle stesse sanzioni o la richiesta dell’apertura dei siti militari alle ispezioni internazionali.

In questo modo, gli Stati Uniti contano di ottenere concessioni utili ai propri interessi strategici in Medio Oriente o di limitare l’integrazione economico-politico-militare dell’Iran con la Russia e la Cina, veri obiettivi di Washington nella guerra per l’egemonia planetaria. Parallelamente, sulla politica iraniana di Obama agiscono anche gli interessi economici del business americano, stimolato, come i propri rivali europei, a tornare su un mercato enorme e in un paese con ingenti risorse energetiche.

La disposizione all’accordo dell’amministrazione Obama per risolvere una crisi fabbricata e dai contenuti quasi esclusivamente politici non ha perciò nulla a che vedere con il rispetto dei diritti dell’Iran a sviluppare un programma nucleare pacifico e a giocare un ruolo di spicco su scala regionale.

Infatti, anche durante le trattative dei mesi scorsi non sono mai mancate le minacce militari da parte americana nei confronti della Repubblica Islamica e, nel caso un accordo definitivo dovesse uscire dall’ultimo round di negoziati a Vienna, c’è da scommettere che non mancheranno nemmeno in futuro.

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