USA, l’imbroglio del Mar Rosso

di Mario Lombardo

A quasi tre mesi dall’inizio della “missione” americana e britannica nel Mar Rosso, per contrastare le iniziative a sostegno della Resistenza palestinese del governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (“Houthis)”, nessuno degli obiettivi fissati dall’amministrazione Biden sembra essere a portata di mano. Gran parte dei traffici commerciali lungo questa rotta, che collega...
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Sahra Wagenknecht, nuova stella (rossa) tedesca

di redazione

Sahra Wagenknecht: «Ue troppo centralista, l’Ucraina non può vincere. È vero che molti elettori della vecchia sinistra sono andati a destra, non perché razzisti o nazionalisti, bensì perché insoddisfatti» BERLINO — Sahra Wagenknecht è di sinistra, conservatrice di sinistra, dice lei. Ha fondato un partito che porta il suo nome, perché – sostiene – il principale problema dei progressisti europei è che «la loro clientela oggi è fatta di privilegiati». I detrattori la accusano di essere populista, ma il partito cresce e in alcune regioni dell’Est è la seconda o terza forza. Abbastanza da poter rompere gli equilibri della politica tedesca. Insomma, è diventata un fenomeno. Ci accoglie nel suo studio, con i colleghi del...
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di Emy Muzzi

Londra. Il comunicato stampa con cui il Foreign Office britannico ha annunciato il via libera, con le debite precauzioni, ai cittadini britannici che volessero visitare l’Iran, ha aperto uno squarcio nel cielo grigio e piovoso di uno dei tanti sabati londinesi. Sì è vero, non è altro che l’estensione diplomatica dell’accordo di Vienna per la non proliferazione del nucleare, eppure la decisione ha il suo peso e il suo senso nel marcare quella che è senza dubbio una vittoria della diplomazia che segna la travagliata storia dei rapporti Iran-Occidente.

L’agreement voluto da Obama, Kerry, Rouhani e il ministro degli esterni iraniano Javad Zarif, apre una nuova fase che, se le 111 pagine del trattato saranno rispettate da Tehran, avrà sviluppi politico economici notevoli.

Ma i limiti restano: se da una parte i ‘Brits’ potranno apprezzare la maestosità dell’Impero Persiano a Tehran o a Persepoli, in caso di necessità non ci sarà ancora un’ambasciata britannica a dar loro sostegno.

L’attacco del 2011 contro la sede diplomatica del Regno Unito a Tehran è ancora storia recente. Ci vorrà tempo perché la Union Jack sventoli di nuovo a Tehran, ma il ministro degli esteri Philip Hammond fa capire, tra le parole, che se la riduzione delle sanzioni da una parte e l’abbandono del programma nucleare a fini bellici dall’altra funzioneranno, l’ambasciata potrebbe anche riaprire.

Per il momento i cittadini britannici dovranno evitare i confini con Pakistan, Afghanistan e Iraq e fare riferimento all’ambasciata svedese. Fatta eccezione per queste aree di crisi il capo del Foreign Office ha dichiarato che “In altre aree dell’Iran il rischio per i cittadini britannici è cambiato, e questo in parte è dovuto alla riduzione dell’ostilità sotto il governo del presidente Rouhani”.

La mossa sullo scacchiere della diplomazia internazionale accende su Londra quella luce che nelle settimane scorse a Vienna era stata oscurata da John Kerry e dalla sua dialettica decisa che se da una parte viene regolarmente smentita dalla malafede della ‘necessità’ di una guerra in Siria, dall’altra ha il pregio di aver imposto dei limiti all’Israele oltranzista di Netanyahu che ha tentato, come sempre, di monopolizzare e strumentalizzare il Congresso Usa ai suoi fini.

La smaccata indipendenza delle dinamiche Usa, e (moderatamente di riflesso) anche Britanniche, dalla violenta opposizione di Israele all’accordo con Tehran è il passo in avanti verso quella marginalizzazione del potere di Benjamin Netanyahu che riequilibra, in parte, l’asse internazionale.

A cosa si deve questa svolta? A chi fa, o faceva comodo, un Iran nemico del mondo, minaccia internazionale e minaccia incombente di morte per Israele? Ai conservatori in Usa e Israele sicuramente, all’industria e commercio legale e illegale di armi, e sul fronte politico alla Russia rispetto al margine d’influenza e strumentalizzazione del mondo islamico in funzione anti occidentale in una fase in cui il conflitto in Ucraina ha inaugurato il ‘revival’ della guerra fredda.

Inoltre c’è una cosa che ha cambiato l’ottica dei Democratici Usa su Israele: la vendita illegale delle armi tecnologiche ‘made in Usa’ alla Cina (su cui pende il bando). Questa porcata gli americani non l’hanno dimenticata e, qui ricordiamo, che la strategia di marginalizzazione di Russia e Cina è la strategia a lungo termine che tiene alta la bandiera filo iraniana.

Nel pur necessario scetticismo, bisogna riconoscere che l’accordo è un passo serio, positivo. Una delle conseguenze immediate risuona nella parola chiave comprensibile in tutte le lingue, anche in persiano: ‘business’.

Se il Regno Unito nel ricostruire il business con Tehran procede ancora con cautela, è Berlino a fare il salto in avanti. Pochi giorni fa Bloomberg ha lanciato la notizia: “Il gruppo Basf sta pianificando la ricostruzione del suo business in Iran”. La potente multinazionale chimica tedesca è pronta a fare affari.

Reduce da una visita, (non turistica) nel regno dell’antica Persia assieme al vice della Merkel, Sigmar Gabriel, il ceo della Basf Kurt Bock ha detto entusiasta in una trionfale conferenza stampa: “La tecnologia, la qualità del lavoro e l’attendibilità tedesche sono altamente apprezzate in Iran, per questo abbiamo grandi possibilità di ricucire e sviluppare vecchi legami”.

Oddio! Ma la Basf non era multinazionale criminale che costruiva elementi chiave per la costruzione di armi chimiche? Speriamo che l’accordo di Vienna non si risolva in una riconversione dell’industria bellica iraniana dal nucleare al chimico....


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