USA, l’imbroglio del Mar Rosso

di Mario Lombardo

A quasi tre mesi dall’inizio della “missione” americana e britannica nel Mar Rosso, per contrastare le iniziative a sostegno della Resistenza palestinese del governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (“Houthis)”, nessuno degli obiettivi fissati dall’amministrazione Biden sembra essere a portata di mano. Gran parte dei traffici commerciali lungo questa rotta, che collega...
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Sahra Wagenknecht, nuova stella (rossa) tedesca

di redazione

Sahra Wagenknecht: «Ue troppo centralista, l’Ucraina non può vincere. È vero che molti elettori della vecchia sinistra sono andati a destra, non perché razzisti o nazionalisti, bensì perché insoddisfatti» BERLINO — Sahra Wagenknecht è di sinistra, conservatrice di sinistra, dice lei. Ha fondato un partito che porta il suo nome, perché – sostiene – il principale problema dei progressisti europei è che «la loro clientela oggi è fatta di privilegiati». I detrattori la accusano di essere populista, ma il partito cresce e in alcune regioni dell’Est è la seconda o terza forza. Abbastanza da poter rompere gli equilibri della politica tedesca. Insomma, è diventata un fenomeno. Ci accoglie nel suo studio, con i colleghi del...
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di Michele Paris

La decisione adottata lo scorso fine settimana dal governo turco di prendere parte attiva alla campagna bellica guidata dagli Stati Uniti ufficialmente contro lo Stato Islamico (ISIS) rappresenta una svolta strategica significativa e potenzialmente in grado di cambiare le sorti del conflitto in Siria. Ankara rimane però prigioniera delle contraddizioni prodotte dalla sua stessa politica estera, mentre le conseguenze delle proprie azioni potrebbero facilmente portare a un’ulteriore destabilizzazione dell’intero Medio Oriente.

Dopo i primi bombardamenti condotti dai jet turchi contro le basi dell’ISIS nel nord della Siria nella giornata di venerdì, le incursioni oltre confine si sono ripetute nella notte di domenica. In questo caso, come era parzialmente successo due giorni prima, le bombe hanno però colpito postazioni del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) nel nord dell’Iraq, in risposta a una serie di attentati registrati in Turchia nei giorni scorsi e, da ultimo, un attacco nella serata di domenica risoltosi in due soldati turchi uccisi nella località di Diyarbakir.

La nuova intraprendenza turca è scaturita dall’accordo siglato sempre settimana scorsa con gli Stati Uniti, da tempo impegnati a convincere il governo del presidente, Recep Tayyip Erdogan, e del primo ministro, Ahmet Davutoglu, a partecipare all’azione contro l’ISIS in territorio iracheno e siriano. Washington ha inoltre ottenuto l’utilizzo di almeno due basi militari in Turchia, tra cui quella di Incirlik, da dove prenderanno il volo gli aerei da guerra impegnati nella campagna contro i fondamentalisti islamici.

Gli aspetti cruciali dell’intesa sembrano essere però le concessioni fatte dall’amministrazione Obama al governo di Ankara, anche se non ancora riconosciute ufficialmente, come la riapertura delle ostilità con il PKK dopo la tregua che durava dal 2012. Gli Stati Uniti hanno appoggiato pubblicamente l’iniziativa della Turchia, citando il diritto di questo paese all’autodifesa e ricordando come anche Washington consideri il PKK un’organizzazione terrorista.

Il crollo del processo di pace tra il governo turco e il PKK ha tuttavia delle implicazioni ben più ampie, visto che questa organizzazione armata curda ha stretti legami con il Partito dell’Unione Democratica (PYD) curdo-siriano e il suo braccio armato, le Unità di Protezione Popolare (YPG). Sia il PYD sia l’YPG sono stati finora in prima linea nella lotta contro l’ISIS in Siria, fungendo di fatto da alleati della coalizione guidata dagli USA.

Gli sviluppi di questi giorni suggeriscono perciò che la Turchia abbia ottenuto il via libera dagli americani per colpire la presunta minaccia curda oltre i propri confini meridionali in cambio dell’impegno - la cui intensità sarà tutta da verificare - di partecipare all’offensiva contro l’ISIS. Ankara, d’altra parte, vede con maggiore nervosismo la formazione di un fronte unitario curdo che non l’espansione dell’ISIS in Siria, la cui avanzata è stata anzi sostenuta più o meno attivamente per favorire la caduta di Bashar al-Assad.

Proprio la fine del regime di Damasco è senza dubbio al centro dei pensieri di Erdogan e Davutoglu, come conferma l’altra importante concessione con ogni probabilità fatta dagli Stati Uniti ad Ankara. La Turchia avrebbe cioè ottenuto l’OK per la creazione di una “zona di sicurezza” lungo il proprio confine in territorio siriano.

Da quello che hanno riportato i giornali americani e turchi, l’amministrazione Obama intende evitare di chiamare quest’area con il proprio nome - “no-fly zone” - visto che ciò renderebbe fin troppo evidente come il vero obiettivo della campagna condotta da quasi un anno in Siria sia il regime di Assad. Quindi, Ankara e Washington parleranno di “area di sicurezza” o “area protetta”, anche se il risultato sarà comunque quello di istituire un territorio da assegnare al controllo dell’opposizione siriana “moderata” per organizzare non tanto la battaglia contro l’ISIS ma contro le forze di Damasco.

Con una certa ironia quasi certamente involontaria, domenica il Washington Post ha ricordato come gli Stati Uniti e la Turchia abbiano però pareri differenti circa i gruppi armati di opposizione in Siria da considerare “moderati”, alla luce soprattutto della spregiudicata politica di Ankara a favore di organizzazioni jihadiste violente, utilizzate come forza d’urto per cercare di rovesciare Assad.

In ogni caso, l’impatto di un impegno diretto della Turchia in Siria minaccia di produrre una frattura nella coalizione nominalmente anti-ISIS, poiché i leader curdi siriani, i quali non senza ragioni accusano da tempo Erdogan di appoggiare questa stessa organizzazione, hanno espresso preoccupazione per il possibile ingresso delle truppe di Ankara in Siria. Un eventuale scontro tra la Turchia e le forze dell’YPG metterebbe nelle mani di Washington una nuova questione spinosa sul fronte siriano, sia pure anche in questo caso derivante dalla dissennata politica estera americana.

Che le intenzioni di Erdogan siano quelle di colpire principalmente i curdi sul proprio territorio è comunque evidente anche dalla netta prevalenza dei militanti appartenenti a questa minoranza tra le centinaia di arresti in varie operazioni di polizia condotte negli ultimi giorni.

Anche se ufficialmente motivata dall’attentato suicida di una settimana fa nella città di Suruç, commesso da un membro dell’ISIS, e dalle azioni del PKK, la svolta strategica e militare di Ankara a cui si sta assistendo era in preparazione da tempo.

Una serie di fattori sembra avere contribuito alla svolta decisa da Erdogan e Davutoglu, tutti più o meno riconducibili alla crisi politica del loro partito (AKP) e al ridimensionamento della posizione della Turchia sullo scacchiere regionale, ugualmente conseguenza delle politiche del governo.

Innanzitutto, la decisione di partecipare in maniera diretta alla guerra contro l’ISIS, come dimostra anche l’enorme interesse suscitato tra i media di tutto il mondo, consente in qualche modo alla Turchia di tornare a svolgere un ruolo di primo piano nelle vicende mediorientali.

Se Ankara aveva partecipato attivamente alla guerra clandestina per abbattere Assad, appoggiando fin dall’inizio del conflitto in Siria i gruppi armati fondamentalisti, l’esplosione e l’avanzata in Iraq dell’ISIS avevano finito per produrre una coalizione tra gli USA, i paesi arabi sunniti e le formazioni curde irachene e siriane, a discapito appunto di una Turchia rimasta relativamente isolata.

La partecipazione tardiva alla campagna anti-ISIS e l’offensiva contro il PKK sono così il tentativo di recuperare una certa influenza in Medio Oriente, coerentemente con le ambizioni da potenza regionale nutrite dal governo dell’AKP.

L’altro fattore, in parte collegato al precedente, ha a che fare invece con la situazione politica interna turca. Com’è noto, l’AKP ha perso per la prima volta da quando è al potere la maggioranza assoluta in Parlamento nelle elezioni dello scorso mese di maggio, soprattutto a causa della conquista per la prima volta di un certo numero di seggi da parte della formazione curda HDP.

Vista la difficoltà nel mettere assieme un gabinetto di coalizione che, in ogni caso, ridurrebbe gli spazi di manovra di Erdogan e Davutoglu, i due leader dell’AKP puntano a nuove elezioni tra pochi mesi per tornare a governare in autonomia. A questo scopo, il presidente e il primo ministro intendono alimentare i sentimenti nazionalisti e anti-curdi in Turchia, così da recuperare una parte dei consensi finiti all’HDP nell’ultima tornata elettorale.

Ugualmente, colpendo o dando l’impressione di colpire l’ISIS, il governo turco proverà a neutralizzare le accuse che molti anche sul fronte interno gli rivolgono di avere sostenuto l’organizzazione fondamentalista o, quanto meno, di avere tollerato le operazioni e il transito verso la Siria dei suoi membri, con il risultato di avere destabilizzato la stessa Turchia.

Questa scommessa non è tuttavia priva di rischi per Erdogan, visto che le decisioni dei giorni scorsi minacciano di trascinare ancor più la Turchia in un conflitto su due fronti – siriano e curdo – decisamente impopolare tra la popolazione. Gli ostacoli che si prospettano per il governo sono in definitiva di sua stessa creazione, essendo il rafforzamento dell’ISIS e delle formazioni curde la diretta conseguenza delle manovre messe in atto per indebolire il regime di Assad in Siria.

La Turchia, ad ogni modo, ha chiesto per martedì la convocazione di una riunione straordinaria della NATO, secondo il ministero degli Esteri di Ankara per “informare gli alleati sulle operazioni in corso contro l’ISIS in Siria e il PKK nel nord dell’Iraq”. Il vertice, in realtà, potrebbe essere l’occasione per dare una qualche legittimità alle incursioni iniziate nei giorni scorsi e per ottenere l’appoggio alla creazione di una no-fly zone a tutti gli effetti in territorio siriano.

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