Ue-Russia, contro legge e logica

di Fabrizio Casari

Truppe, armi e propaganda, ma non solo. I soldi, non mancano mai i soldi. Quando si volesse cercare un elemento simbolico per descrivere la crisi d’identità politica e di prospettiva dell’Unione Europea, ormai estensione statunitense, c'è la vicenda del sequestro dei beni russi a seguito del conflitto in Ucraina. La vicenda in sé, infatti, presenta una miscela di subordinazione ideologica,...
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Rafah e ONU, Israele al bivio

di Mario Lombardo

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato lunedì per la prima volta dall’inizio dell’aggressione israeliana una risoluzione che chiede l’immediato cessate il fuoco nella striscia di Gaza. Il provvedimento è passato con 14 voti a favore e la sola astensione degli Stati Uniti, che hanno rinunciato al potere di veto, provocando una durissima reazione da parte del regime israeliano. Per tutta risposta, Netanyahu ha annullato la visita a Washington di una delegazione che avrebbe dovuto discutere con la Casa Bianca la possibile operazione militare nella città di Rafah, al confine tra la striscia e l’Egitto. Questa iniziativa, dalle implicazioni potenzialmente devastanti, resta al centro dell’attenzione della...
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di Michele Paris

Le conseguenze della disastrosa incursione condotta in Yemen il 29 gennaio scorso dalle forze speciali americane continuano a farsi sentire dopo che il governo del paese mediorientale in guerra ha fatto sapere di avere preso provvedimenti per limitare quanto meno i danni di immagine derivanti dalle operazioni “anti-terrorismo” degli Stati Uniti.

Martedì, i giornali americani avevano riportato la notizia del ritiro da parte del governo yemenita del permesso, concesso agli USA, di condurre operazioni militari di terra sul proprio territorio per dare la caccia a presunti terroristi. Qualche ora più tardi, però, è arrivata la smentita parziale da parte delle stesse autorità dello Yemen.

Come ha scritto la Reuters dopo avere raccolto dichiarazioni da fonti locali, il governo riconosciuto internazionalmente avrebbe soltanto espresso a Washington le proprie “riserve” in merito al più recente blitz e chiesto “maggiore coordinazione con le autorità yemenite” nel rispetto della sovranità del paese. L’autorizzazione per le future operazioni non sarebbe stata dunque revocata.

La presa di posizione del governo dello Yemen, anche se dettata da ragioni di opportunità, è estremamente significativa. Se in apparenza la risposta al raid di dieci giorni fa potrebbe sembrare fin troppo cauta, essa va collegata alla natura di un esecutivo che conserva la propria legittimità internazionale proprio grazie al sostegno di Stati Uniti e Arabia Saudita, impegnati in un conflitto sanguinoso contro i “ribelli” sciiti Houthi che avevano di fatto preso il potere nella primavera del 2015.

Anche nel quadro del totale servilismo dovuto a Washington dal governo del presidente Abd Rabbu Mansour Hadi, gli esponenti di quest’ultimo si sono sentiti costretti a rilasciare una qualche dichiarazione critica nei confronti degli USA, vista la precaria situazione interna. Infatti, operazioni come quella del 29 gennaio non fanno che aggravare l’avversione della popolazione yemenita nei confronti degli Stati Uniti, rendendo ancora più complicata la posizione di un governo che controlla oltretutto solo una parte del paese nella penisola arabica.

L’incursione, in preparazione da almeno due mesi, è stata la prima autorizzata dalla nuova amministrazione Trump. Il neo-presidente aveva dato il via libera senza indugi all’operazione, verosimilmente dopo avere ricevuto le necessarie rassicurazioni da parte del Pentagono, ma l’esito è stato catastrofico su tutti i fronti. Se anche Trump avesse nutrito qualche dubbio, ciò che ha prevalso è stata comunque la necessità di mandare un messaggio di fiducia ai vertici militari a pochi giorni dall’insediamento alla Casa Bianca.

A nulla, se non ad aumentare l’imbarazzo, sono servite le dichiarazioni al limite del ridicolo dello stesso Trump e del suo portavoce, Sean Spicer, sul “completo successo” dell’operazione. La Casa Bianca, dopo il fiasco, ha provato a far credere che l’incursione aveva come obiettivo la semplice “raccolta di informazioni” sull’organizzazione terroristica al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP).

Le sole modalità del blitz e le massicce forze impiegate smentiscono però clamorosamente questa versione. A partecipare alle operazioni vi erano decine di uomini agli ordini del Comando Centrale, responsabile delle forze armate USA in Medio Oriente, e di quello delle Forze Speciali, ma anche agenti della CIA e delle forze speciali degli Emirati Arabi Uniti. A sostegno di essi, si contavano inoltre elicotteri, aerei, droni e una nave da guerra al largo della costa yemenita.

L’obiettivo reale dell’operazione è stato con ogni probabilità rivelato qualche giorno fa dalla NBC ed era cioè il numero uno di AQAP, Qassim al-Raymi, considerato dagli Stati Uniti il terzo terrorista più pericoloso del pianeta. Il leader di al-Qaeda non è però finito tra le vittime del raid, essendo forse riuscito a fuggire grazie a una soffiata prima dell’operazione o, semplicemente, le informazioni sulla sua presenza nel villaggio preso di mira erano sbagliate.

Il colossale fallimento dell’operazione è costato un numero imprecisato di vittime civili. Alcune stime parlano di oltre 30 morti in totale, mentre per altri sarebbero state poco meno di 60. Tra di essi ci sono anche donne e almeno sette bambini, inclusa Nawar al-Awlaki, la figlia di otto anni di Anwar al-Awlaki, il predicatore di nazionalità americana ucciso su ordine di Obama sempre in Yemen da un drone nel settembre del 2011.

Un paio di settimane dopo l’assassinio di Awlaki, un'altra incursione con un drone USA aveva ucciso anche il figlio16enne di quest’ultimo. A descrivere l’agonia della figlia di Awlaki è stato il nonno, il quale ha raccontato di come la bambina sia stata colpita al collo da un proiettile e sia morta dissanguata in meno di due ore.

Com’è pratica comune per i vertici militari americani, inizialmente era stata smentita l’esistenza di vittime civili. Solo dopo l’apparizione in rete di immagini raccapriccianti e la diffusione dei resoconti dell’accaduto da parte dei sopravvissuti, il Pentagono ha fatto una parziale rettifica. Almeno un certo numero di donne uccise sono state tuttavia giudicate obiettivi legittimi, in quanto presunte sostenitrici di al-Qaeda. Dei bambini trucidati non è stata data invece nessuna indicazione sul loro possibile ruolo nell’organizzazione fondamentalista.

Secondo alcune ricostruzioni dei fatti accaduti la sera del 29 gennaio nel villaggio di Yakla, nella provincia di Bayda, i membri del commando americano sarebbero stati scoperti subito dopo l’inizio dell’operazione, forse grazie a una soffiata o, addirittura, in seguito all’abbaiare di un cane. Visto il bilancio delle vittime e l’elevato numero di civili tra di esse, è probabile che i militari abbiano a quel punto sparato a tutto ciò che si muoveva.

Nel conflitto a fuoco è rimasto ucciso anche il “SEAL” americano, William Owens, e proprio il suo decesso ha senza dubbio contribuito in maniera decisiva a portare la vicenda all’attenzione della stampa. Non solo, anche un elicottero MV-22 Osprey è stato danneggiato e in seguito distrutto da velivoli militari americani appositamente inviati.

I punti oscuri del raid restano numerosi. Il leader di AQAP, in un messaggio diffuso dopo l’attacco, ha ammesso che tra le vittime c’erano 14 suoi uomini. Secondo la testata on-line Middle East Eye, invece, molte testimonianze raccolte nel villaggio hanno smentito la presenza di guerriglieri di al-Qaeda. Piuttosto, gli appartenenti ai clan locali avrebbero preso le armi, ampiamente diffuse in Yemen, e iniziato a sparare contro il commando americano dopo che i soldati avevano fatto irruzione nelle abitazioni uccidendone gli occupanti, incluse donne e bambini.

Per altri, ancora, il disastro dell’operazione dimostrerebbe la profonda ignoranza americana della realtà dello Yemen o, peggio ancora, la più o meno deliberata intenzione di fomentare odio ed estremismo, forse per alimentare una minaccia terroristica che consente a Washington di perpetuare la propria presenza militare in aree strategicamente rilevanti del pianeta, come la penisola arabica.

A Yakla, infatti, non vi era probabilmente nessuna base qaedista ma, in un intreccio tribale e di interessi locali difficile da sciogliere, forse soltanto famiglie o gruppi di individui che talvolta stabiliscono alleanza temporanee con al-Qaeda o formazioni armate vicine ad essa.

Singolarmente, almeno in apparenza, questi gruppi sono spesso sostenuti finanziariamente e militarmente dall’Arabia Saudita, il cui regime li recluta per combattere i “ribelli” Houthi. A conferma di ciò, sempre l’indagine di Middle East Eye ha citato testimoni che assicurano come nell’operazione americana siano morti almeno tre leader tribali di spicco che facevano parte di un gruppo di combattenti impegnato contro gli Houthi e, quindi, di fatto a fianco dei sauditi.

A complicare il quadro c’è infine anche il fatto che al-Qaeda nella Penisola Arabica, ufficialmente obiettivo numero uno dell’anti-terrorismo USA, ha notevolmente allargato il territorio sotto il proprio controllo in Yemen grazie alla guerra scatenata da Riyadh con l’appoggio americano, dopo che in precedenza svariate analisi avevano giudicato ormai quasi irrilevante l’influenza dell’organizzazione nel paese.

Nonostante tutti i dettagli dell’incursione americana siano ben lontani dall’essere noti, quanto è accaduto in Yemen è un ulteriore esempio della criminalità e del disinteresse per le vite umane e la stabilità di paesi sovrani con cui il governo e i militari degli Stati Uniti conducono i propri affari internazionali.

Inoltre, con l’autorizzazione al massacro del 29 gennaio, il neo-presidente Trump ha confermato la sua intenzione di raccogliere la sanguinosa eredità di Obama in questo paese, già teatro di precedenti incursioni di terra finite in tragedia, di un’incessante campagna condotta con i droni che continua a mietere vittime civili e di una guerra cruenta per ristabilire l’autorità di un governo-fantoccio che salvaguardi gli interessi nella regione degli Stati Uniti e del regime saudita.

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