Ue-Russia, contro legge e logica

di Fabrizio Casari

Truppe, armi e propaganda, ma non solo. I soldi, non mancano mai i soldi. Quando si volesse cercare un elemento simbolico per descrivere la crisi d’identità politica e di prospettiva dell’Unione Europea, ormai estensione statunitense, c'è la vicenda del sequestro dei beni russi a seguito del conflitto in Ucraina. La vicenda in sé, infatti, presenta una miscela di subordinazione ideologica,...
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Rafah e ONU, Israele al bivio

di Mario Lombardo

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato lunedì per la prima volta dall’inizio dell’aggressione israeliana una risoluzione che chiede l’immediato cessate il fuoco nella striscia di Gaza. Il provvedimento è passato con 14 voti a favore e la sola astensione degli Stati Uniti, che hanno rinunciato al potere di veto, provocando una durissima reazione da parte del regime israeliano. Per tutta risposta, Netanyahu ha annullato la visita a Washington di una delegazione che avrebbe dovuto discutere con la Casa Bianca la possibile operazione militare nella città di Rafah, al confine tra la striscia e l’Egitto. Questa iniziativa, dalle implicazioni potenzialmente devastanti, resta al centro dell’attenzione della...
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di Michele Paris

L’ondata di guai che sta investendo Donald Trump a partire dal suo insediamento alla Casa Bianca rischia di travolgere un’amministrazione Repubblicana sempre più sotto assedio da parte di sezioni della classe dirigente americana che cominciano ormai a discutere apertamente di un possibile procedimento di impeachment.

Con l’eco del licenziamento del direttore dell’FBI, James Comey, non ancora spento, la nuova settimana a Washington si è aperta con due nuove rivelazioni “bomba”, o quanto meno considerate tali dalla stampa ufficiale, pubblicate a distanza di un giorno dai due giornali maggiormente impegnati nella campagna anti-russa diretta contro il presidente Trump.

Lunedì il Washington Post aveva scritto che quest’ultimo si era lasciato sfuggire alcune informazioni di intelligence riservate sulle attività dello Stato Islamico (ISIS), con ogni probabilità passate dai servizi di Israele, durante il discusso incontro della scorsa settimana alla Casa Bianca con il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, e l’ambasciatore di Mosca a Washington, Sergey Kislyak.

La presunta gaffe di Trump non ha avuto confermate e, in ogni caso, il contenuto della conversazione del presidente con i rappresentanti del governo russo non è sembrata sollevare particolari preoccupazioni, sia dal punto di vista legale sia da quello della “sicurezza nazionale”.

Ciononostante, la notizia del Post ha scatenato un nuovo polverone politico a Washington, intensificatosi il giorno dopo in seguito all’esclusiva del New York Times su un “memorandum” dello stesso Comey. L’ormai ex numero uno dell’FBI sarebbe cioè in possesso di un appunto scritto da suo pugno relativo a un incontro alla Casa Bianca con Trump a febbraio, durante il quale il presidente gli avrebbe chiesto di chiudere l’indagine in corso ai danni del suo ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Michael Flynn.

L’ex generale americano è al centro della caccia alle streghe anti-russa negli Stati Uniti e il giorno prima del faccia a faccia tra Trump e Comey era stato rimosso dal suo incarico per avere mentito al presidente e al vice-presidente sulla natura di alcune conversazioni che aveva intrattenuto con l’ambasciatore russo Kislyak.

Il doppio colpo assestato dal Post e dal Times contro la Casa Bianca fa sempre parte di un’offensiva in atto da mesi e dietro alla quale vi sono poteri allineati alla galassia “neo-con” e all’apparato militare e dell’intelligence americano che cercano in tutti i modi di delegittimare un’amministrazione impegnata, sia pure in maniera limitata, a ripianare le tensioni tra gli USA e la Russia.

Che Trump abbia effettivamente sollevato la questione dell’indagine di Flynn con Comey è del tutto possibile. Tuttavia, l’attendibilità di un giornale come il New York Times, o il Washington Post, è a dir poco discutibile sulla vicenda del cosiddetto “Russiagate”, vista la natura politica del suo operato.

Come praticamente tutte le notizie pubblicate finora sul caso, anche l’ultima rivelazione è basata sulle dichiarazioni di fonti anonime all’interno del governo americano, evidentemente interessate a screditare l’amministrazione Trump.

L’articolo di martedì del Times non è nemmeno basato sull’analisi del “memorandum” di Comey, già di per sé parziale e non considerabile come una prova inconfutabile del comportamento del presidente. Bensì si tratta di un resoconto di terza mano, riportato da una non meglio identificata persona vicina a Comey che sarebbe a conoscenza di quanto scritto da quest’ultimo dopo il suo faccia a faccia con Trump.

Quest’ultimo attacco a Trump sembra rappresentare un salto qualitativo nella campagna in corso relativa ai presunti legami tra la nuova amministrazione e il governo di Mosca. A dimostrarlo è il linguaggio utilizzato dall’articolo del Times e le reazioni di analisti, commentatori e politici che sono da tempo sul carro degli accusatori del presidente o che hanno deciso di salirvi dopo i recenti sviluppi.

L’imbeccata per la linea d’attacco contro Trump è chiaramente rintracciabile in un passaggio dell’articolo di martedì, nel quale si afferma che “la richiesta di Trump [a Comey] è la prova più chiara che il presidente abbia cercato di influenzare il Dipartimento di Giustizia e l’indagine dell’FBI sui legami tra i suoi uomini e la Russia”.

Questa frase solleva cioè l’ipotesi di una possibile incriminazione di Trump per “ostruzione alla giustizia”, un capo d’accusa che potrebbe giustificare un procedimento di impeachment, come accadde proprio al presidente Nixon nel 1974 nell’ambito dello scandalo “Watergate”.

Anche prendendo per vero il contenuto dell’appunto di James Comey sulle pressioni di Trump, qualche commentatore ha fatto notare come per il momento non ci siano prove di azioni concrete del presidente volte a ostacolare lo svolgimento dell’inchiesta dell’FBI sul “Russiagate”. Tutt’al più, le parole di Trump rivelerebbero un non sorprendente atteggiamento inopportuno del presidente.

Se, poi, il comportamento del presidente fosse stato realmente così grave, c’è da chiedersi la ragione per la quale Comey non abbia sollevato la questione con il dipartimento di Giustizia, da cui l’FBI dipende, o con il team che conduce l’indagine su Flynn e il “Russiagate”. Comey, piuttosto, come ha spiegato il New York Times, si è limitato a informare alcuni colleghi e a tenere traccia delle presunte interferenze di Trump, raccogliendole in un dossier con l’intenzione di passarlo alla stampa in caso di un suo licenziamento, com’è puntualmente avvenuto nei giorni scorsi.

L’assenza di prove non è comunque un particolare che ha finora contenuto le accuse e le polemiche verso la Casa Bianca. Infatti, esponenti Democratici e molti Repubblicani hanno subito attaccato Trump e in più di un’occasione è stato appunto sollevato il fantasma dell’impeachment.

L’intervento potenzialmente di maggiore rilievo è stato quello del presidente della commissione Sorveglianza della Camera dei Rappresentanti, il deputato Repubblicano Jason Chaffetz, il quale nella serata di martedì ha fatto sapere di avere indirizzato una lettera al direttore ad interim dell’FBI, Andrew McCabe, per chiedere la consegna di tutti i documenti o le registrazioni relativi alle discussioni tra Trump e Comey.

L’iniziativa di Chaffetz, presa molto probabilmente in seguito a pressioni degli ambienti che intendono colpire Trump, è stata definita particolarmente significativa, visto che il deputato dello Utah era stato finora molto cauto sulla vicenda “Russiagate”.

Anche i leader Repubblicani di Camera e Senato hanno iniziato a esprimere impazienza nei confronti della Casa Bianca. Altri colleghi di Trump hanno invece fatto riferimento in maniera diretta alle reali implicazioni della vicenda. Il deputato del Wisconsin, Mike Gallagher, ha inviato ad esempio l’amministrazione Trump ad “abbandonare la fantasia di relazioni migliori con la Russia”.

Le accuse più esplicite sono arrivate però dalla stampa, in particolare da quella “liberal”. Il Washington Post già nel fine settimana aveva pubblicato un pezzo di opinione del docente di diritto costituzionale di Harvard, Laurence Tribe, che chiedeva apertamente l’impeachment di Trump senza nemmeno attendere l’esito delle indagini in corso sul “Russiagate”.

Il magazine Slate ha a sua volta elencato una serie di articoli della Costituzione americana che Trump avrebbe violato e che giustificherebbero la sua messa in stato d’accusa. Mercoledì, il comitato editoriale del New York Times ha invece mascherato a malapena un appello all’impeachment dietro alla richiesta di far luce una volta per tutte sui legami della Casa Bianca con la Russia.

L’isteria che sta attraversando gli ambienti politici e dei media negli Stati Uniti in seguito all’esplosione del “Russiagate” ha un carattere del tutto reazionario. La guerra in atto contro l’amministrazione Trump è infatti motivata da ragioni che hanno a che fare con gli orientamenti strategici americani e la necessità di mantenere una situazione conflittuale con Mosca.

Questi attacchi da destra nei confronti di Trump finiscono inoltre per far passare in secondo piano le inclinazioni anti-democratiche del nuovo governo Repubblicano, impegnato in un assalto frontale e senza precedenti a ciò che resta del welfare americano, ai diritti degli immigrati, alle regolamentazioni del business e a quelle ambientali.

Le crescenti richieste di impeachment tendono anche a oscurare le ragioni dell’emergere del fenomeno Trump e della sua ascesa alla presidenza degli Stati Uniti, presentata come un inconveniente più o meno casuale all’interno di un sistema politico e sociale altrimenti esemplare e perfettamente funzionante.

L’eventuale rimozione di Trump in questi termini, al contrario, non rappresenterebbe nessun ritorno a un inesistente eden democratico ma sarebbe una nuova tappa nello smantellamento delle norme democratiche negli Stati Uniti, determinando un riallineamento della classe dirigente americana attorno a un’agenda non meno reazionaria e segnata ancora di più dal rischio di un conflitto nucleare.

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