Israele e la minaccia yemenita

di Mario Lombardo

Tra i fronti “secondari” della guerra scatenata da Israele a Gaza sta guadagnando rapidamente intensità quello con il governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (Houthis). L’intervento a sostegno della causa palestinese sembra avere il potenziale di causare gravi danni economici allo stato ebraico e non solo, visto che minaccia le rotte navali che dal golfo di Aden e il Mar...
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Palestina: mattanza senza tregua

di Fabrizio Casari

Finita la Tregua? Si definisce tregua la sospensione di un conflitto, delle azioni armate e di ogni procedimento ostile. E allora, se così è, nel caso israelo-palestinese bisogna aggiornare la definizione. Tregua? Quale tregua? Nei dieci giorni che la narrazione giornalistica e diplomatica hanno definito di tregua, sono morti decine e decine di palestinesi, uccisi da coloni e soldati israeliani. La tregua ha quindi riguardato solo i bombardamenti aerei, non il fuoco contro tutto ciò che c’è palestinese: bambini, uomini e donne, case e ospedali, strade e ogni genere di installazione necessaria per vivere. In quei dieci giorni di tregua non sono mancati attacchi dalle navi israeliane e non sono finiti i rastrellamenti nelle case dei...
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Quello che la Cassazione ha stabilito è che licenziare si può anche solo per aumentare i margini di profitto di una impresa. Che, né più né meno, significa che il generare maggior valore per una azienda può essere perseguito attraverso il licenziamento.

Dunque il profitto non è legittimo solo quando è risultato della qualità del prodotto e/o dell’introduzione dello stesso in nuovi mercati, del processo d’innovazione tecnologico, della capacità di marketing o dell’efficacia della rete di vendita. Lo è anche quando utilizza il licenziamento come leva per la crescita dei margini, dal momento che in presenza di un bilancio in attivo la riduzione dei costi non dovrebbe rappresentare il primo degli obiettivi.

La sentenza della Cassazione indica, in sostanza, la fine della responsabilità sociale dell’impresa. Autorizza il venir meno, da parte del padronato, della relazione industriale che stabilisce le politiche economiche all’interno di un patto sociale inevitabile in una società di massa.

Sancisce la libertà assoluta dell’impresa di poter alzare a dismisura l’asticella della ricattabilità verso i lavoratori, maestranze, funzionari o manager che siano. Chiude, in fondo, con la concezione dell'impresa come parte della comunità di riferimento, elevando il profitto al di sopra della sua funzione sociale.

Ma se l'impresa risponde solo al suo profitto non si capisce - ad esempio - perché lo Stato interviene nelle crisi aziendali. Perché continua a versare fondi consistenti in forma diretta o sotto la veste di sgravi fiscali alle imprese, se queste non rispondono più alla dialettica delle relazioni industriali ed alla loro stessa funzione sociale, ma unicamente al loro profitto da incrementare con qualunque mezzo?

Se il massimo profitto è l’unico elemento fondante dell’impresa, se il generare lavoro e il distribuire ricchezza divengono una subordinata assoluta, la precarizzazione dei diritti dei lavoratori si converte nell’unica conseguenza possibile. Allora la funzione sociale dell’imprenditoria si annulla completamente.

E’ evidente come l’abolizione dell’articolo 18 da parte del governo Renzi abbia spianato la strada ad interpretazioni turboliberiste dell’equilibrio sociale che poco hanno a che vedere anche con quanto previsto dal dettato costituzionale in ordine alla funzione dell’impresa. Una lettura attenta della Carta imporrebbe una direzione decisamente più restrittiva del licenziamento immotivato e, infatti, altre sentenze della stessa Corte hanno in passato interpretato in modo opposto.

Ma il nuovo clima culturale che imputa al costo del lavoro o, addirittura, al lavoro in quanto tale, le responsabilità uniche della crisi imprenditoriale (Alitalia è esempio classico di questa vulgata) favorisce sentenze come queste che servono soprattutto ad incentivare gli imprenditori disonesti e gli speculatori.

Che i giudici della Cassazione, dall’alto della responsabilità di chi produce giurisprudenza, possano sentenziare con tanta leggerezza in forma opposta a 70 anni di storia delle relazioni industriali preoccupa non poco.

Conferma anzi quanto sia pericoloso, in assenza di una legiferazione netta sulla regolamentazione del mercato del lavoro, l’assunzione di un ruolo di supplenza da parte della magistratura. Che, ormai troppo spesso, dimentica che il suo ruolo è applicare le leggi, non scriverle.

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