Il partito unico che controlla il potere negli Stati Uniti ha salvato mercoledì lo “speaker” della Camera dei Rappresentanti, il repubblicano Mike Johnson, grazie al consolidarsi di una maggioranza bipartisan schiacciante per respingere una mozione di sfiducia presentata dall’estrema destra del suo partito. A soccorrere il leader repubblicano alla camera bassa del Congresso di Washington, installatosi meno di sette mesi fa, è stata la grande maggioranza dei deputati democratici. I vertici del partito del presidente Biden si erano d’altra parte impegnati a intervenire, con un’iniziativa politica che dimostra ancora una volta l’ampia convergenza sui temi cruciali per l’imperialismo americano, come la prosecuzione della campagna anti-russa attraverso il regime ucraino.

 

La mozione è stata introdotta dalla deputata della Georgia, Marjorie Taylor Greene, che l’aveva in realtà già depositata qualche tempo fa, in attesa del momento opportuno per portarla in aula. Solo il giorno prima, la Greene sembrava intenzionata a rinviare il voto, salvo poi tornare sui suoi passi e chiedere alla Camera di esprimersi sulla sorte di Johnson.  Incontri piuttosto tesi con quest’ultimo nelle giornate di lunedì e martedì avevano alla fine convinto la parlamentare repubblicana ad agire.

La rottura tra l’estrema destra del partito e lo “speaker” si era consumata qualche settimana fa con l’approvazione dello stanziamento di 95 miliardi di dollari per le imprese militari all’estero, di cui 61 destinati in varie forme all’Ucraina. La Greene e i membri del suo gruppo, riconducibile all’ala trumpiana del Partito Repubblicano, avevano avvertito Johnson che la sua posizione sarebbe stata in pericolo se avesse portato in aula questo provvedimento senza un intervento legislativo per rimediare alla crisi migratoria a loro dire in atto al confine con il Messico.

La minaccia del voto di sfiducia contro Mike Johnson era quindi nell’aria da tempo. Lo scorso anno, il suo predecessore, Kevin McCarthy, era stato a sua volta rimosso dopo essere arrivato ai ferri corti con la destra del partito e anche in quel caso dopo un voto in aula su un provvedimento di legge approvato con il contributo dei democratici. I deputati della minoranza avevano però votato compatti contro McCarthy. Nel caso ora di Johnson, l’atteggiamento è stato diametralmente opposto, a testimonianza di un radicale cambiamento avvenuto in questi mesi sia del clima politico sia della situazione internazionale.

L’incupirsi delle prospettive militari per le forze ucraine davanti all’avanzata russa, il persistere della guerra genocida di Israele e la clamorosa ritorsione iraniana contro lo stato ebraico, seguita al bombardamento dell’ambasciata della Repubblica Islamica a Damasco, avevano convinto l’apparato di potere americano a rompere lo stallo e a fare avanzare il pacchetto di “aiuti” che languiva da mesi al Congresso. Johnson doveva però fare i conti con una maggioranza risicata e con la fazione del partito contraria alla nuova legge di spesa. Alla fine, è stato in grado di agire solo grazie all’impegno dei democratici per salvarlo da un eventuale voto di sfiducia.

Ciò è avvenuto puntualmente quando la deputata Greene ha sbloccato la mozione contro lo “speaker”. Mercoledì, 196 repubblicani e 163 democratici (su 223) hanno respinto preliminarmente la mozione, ovvero hanno impedito che venisse discussa e votata. I repubblicani che si sono espressi a favore sono stati solo 11, assieme a 32 democratici. Altri 7 democratici si sono invece astenuti. Il numero uno democratico alla Camera, Hakeem Jeffries, ha caratterizzato il voto della maggioranza del suo partito come un’iniziativa di responsabilità, presa per evitare il “caos” politico che sarebbe seguito alla rimozione di Mike Johnson.

In realtà, esisteva un accordo più o meno tacito per salvare lo “speaker” e il voto di mercoledì ha mostrato nuovamente quali siano le priorità della classe politica americana, assieme alla sostanziale unità di intenti tra i due partiti. La natura sordida dell’affare è confermata dalle dichiarazioni rilasciate da molti dei deputati democratici che hanno votato a favore della mozione di sfiducia e degli astenuti. Questi ultimi hanno ricordato le posizioni ultra-reazionarie di Johnson e il suo ruolo nel tentativo trumpiano di ribaltare l’esito delle presidenziali del 2020, ragioni cioè sufficienti, almeno per loro, a rendere impossibile un voto a suo favore.

In appoggio di Johnson si era mosso relativamente a sorpresa anche Donald Trump. Attorno alla metà di aprile, l’ex presidente repubblicano aveva incontrato lo “speaker” della Camera nella sua residenza in Florida e nelle settimane successive si era attivato per proteggerlo dall’offensiva minacciata dai deputati “MAGA”. In molti avevano pensato allora che la deputata Greene avrebbe abbandonato il progetto della mozione di sfiducia e, fino a poche ore prima del voto di mercoledì, tutto faceva in effetti pensare a una soluzione di questo genere.

L’introduzione del voto di sfiducia ha mostrato come continuino a esserci profonde tensioni tra la fazione “moderata” e l’estrema destra del Partito Repubblicano. L’insistenza della Casa Bianca nel sostenere il progetto ucraino, sposato in pieno dalla maggioranza dei repubblicani al Congresso, e l’approssimarsi delle elezioni potrebbero fare riesplodere la crisi politica attorno alla posizione di Mike Johnson. La fronda ultranazionalista alla Camera non ha infatti escluso un altro tentativo di silurare lo “speaker” nel prossimo futuro.

Pesanti critiche sono intanto prevedibilmente piovute su quest’ultimo, la cui posizione non sarà necessariamente più forte da qui al voto di novembre. Anzi, i suoi oppositori interni avranno ora gioco facile nell’accostarlo al Partito Democratico, dai cui voti dipende di fatto il suo incarico. Se anche non ci dovessero essere altre mozioni nei prossimi mesi, è comunque difficile che Johnson riesca a restare il leader del suo partito alla Camera dopo le elezioni, sia che il “GOP” riesca a conservare la maggioranza sia che la perda.

Le acque, comunque, potrebbero calmarsi almeno per un certo periodo a Washington, in attesa di possibili nuovi equilibri interni ai due partiti. La presa di posizione di Trump indica con ogni probabilità un desiderio di evitare scosse politiche durante una campagna elettorale già tumultuosa per il candidato repubblicano e per gli stessi eventi sul fronte domestico e internazionale. Nel caso, però, che la fazione “MAGA” del partito dovesse portare un altro attacco contro Mike Johnson, potrebbe non essere scontato, forse anche per calcoli elettorali e di opportunità politica, che la minoranza democratica corra ancora una volta in suo soccorso.

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