La resistenza palestinese a Gaza continua a portare a termine operazioni complesse e altamente efficaci contro le forze sioniste di occupazione nonostante una situazione a dir poco catastrofica e l’avanzamento a passo spedito dei piani di pulizia etnica di Trump e Netanyahu. La visita di lunedì a Washington del primo ministro/criminale di guerra israeliano ha assunto, visti gli scenari complessivi, connotati grotteschi, sia pure ribadendo il sostanziale allineamento di USA e Israele sulla questione del genocidio palestinese. I segnali che arrivano dalla diplomazia, intanto, restano contraddittori. Per Hamas non ci sono ancora sviluppi positivi, vista l’assenza quasi totale di elasticità dei negoziatori di Tel Aviv, mentre dalla Casa Bianca e da fonti israeliane si insiste nel sostenere che l’accordo per un cessate il fuoco potrebbe essere a portata di mano.

Agguati e censura

L’imboscata di lunedì sera degli uomini delle brigate al-Qassam, l’ala militare di Hamas, contro militari del battaglione israeliano Netzah Yehuda nel nord di Gaza è stata oggetto di falsificazioni e critiche in Israele, reinnescando la polemica sulla censura imposta dal regime di Netanyahu riguardo alle perdite delle forze di occupazione. Una prima versione ufficiale aveva fornito un numero sottostimato dei morti nell’operazione condotta brillantemente da Hamas. Alla fine sono stati confermati cinque decessi e 14 feriti, di cui due in gravi condizioni.

Molti in Israele hanno accusato il governo di tenere nascosto il numero delle vittime durante le operazioni nella striscia, col preciso intento di limitare al massimo l’opposizione alla guerra. Una polemica e un malcontento crescenti nella società israeliana, alla luce anche del ripetersi di episodi sanguinosi – o eroici dal punto di vista palestinese – che riguardano le forze di occupazione. Clamoroso era stato, anche per l’eco trovato in rete e sui “social”, il blitz di Hamas il 24 giugno scorso contro un blindato nemico che aveva fatto sette vittime tra i militari israeliani.

Come già fatto per le conseguenze dei bombardamenti iraniani lo scorso mese di giugno, oggetto di una pesantissima censura, anche e ancora di più in merito ai morti e ai feriti in combattimento o, più precisamente, nell’attuazione del genocidio palestinese, gli sforzi di Netanyahu per minimizzare i danni vanno di pari passi con l’aumento delle frustrazioni sul fronte interno per una guerra che sembra avere come unico obiettivo morte e distruzione. La progressiva rottura del muro di silenzio alzato dal regime è comunque uno degli elementi potenzialmente determinanti nel fare aumentare le pressioni sul premier/criminale di guerra e il suo regime per fermare la strage in corso a Gaza.

I lager umanitari

La visita di Netanyahu negli Stati Uniti si è accompagnata alla diffusione di varie notizie sui progetti allo studio per ripulire la striscia della sua legittima popolazione. Nella conferenza stampa dalla Casa Bianca, Trump e Netanyahu hanno rilanciato il piano americano presentato qualche mese fa per espellere forzatamente i palestinesi da Gaza, facendolo passare come un gesto umanitario e una “libera scelta” di questi ultimi. Netanyahu ha spiegato che i due alleati si stanno adoperando per trovare paesi disposti ad accogliere i palestinesi costretti a lasciare la loro terra. La “libera scelta” prospettata dal criminale di guerra a capo del governo di Tel Aviv consiste in definitiva nel costringere i palestinesi in veri e propri campi di concentramento, affamarli e ucciderne il numero più alto possibile, per poi non lasciare ai sopravvissuti altra alternativa che l’espulsione.

In modo ancora più preciso ha descritto questo piano l’altro principale responsabile del genocidio, il ministro della “Difesa” Israel Katz. Quest’ultimo ha rivelato di avere dato ordine alle forze di occupazione di creare un campo di concentramento, chiamato “città umanitaria”, sulle rovine della città di Rafah, nell’estremo sud della striscia. I palestinesi che verranno “ospitati” dalla struttura saranno sottoposti a uno screening di sicurezza preventivo, ovvero una parte di essi sarà oggetto di esecuzioni sommarie, e una volta nel campo, il cui perimetro sarà pattugliato dalle forze israeliane, non sarà permesso loro di lasciarlo.

Nella fase iniziale del piano, dovrebbero essere spostati circa 600 mila palestinesi, la gran parte dei quali attualmente rifugiati nell’area costiera di al-Mawasi. Il loro destino, quanto meno per quelli che riusciranno a sopravvivere, sarà appunto “l’emigrazione”, che, ha assicurato Katz, “avverrà certamente”. Discutendo del progetto, l’avvocato israeliano per i diritti umani Michael Sfard ha spiegato al Guardian che “l’espulsione di un gruppo di persone dalla loro terra in un contesto bellico è un crimine di guerra”, ma se ciò viene fatto “su una scala così massiva… diventa un crimine contro l’umanità”.

Nelle ultime ore si è verificata in ogni caso una convergenza di notizie e rivelazioni a proposito di questi piani, tale da far pensare a una imminente accelerazione. Anche la Reuters ha scritto infatti che la famigerata Fondazione Umanitaria per Gaza (GHF), cioè l’organizzazione che gestisce da qualche settimana il finto programma di distribuzione di aiuti nella striscia, ha proposto al governo americano l’istituzione di “aree di transito” dove spingere la popolazione palestinese, per poi avviare il piano di espulsione.

Miraggi di tregua

Tornando al progetto del ministro Katz, nelle sue parole viene spiegato che la costruzione del mega-lager a Rafah sarebbe facilitata dall’eventuale periodo di tregua di 60 giorni in fase di negoziazione a Doha, in Qatar. C’è da chiedersi come una simile dichiarazione possa favorire la diplomazia, se mai essa abbia una qualche chance di successo. Le trattative continuano a rimanere arenate sulla determinazione israeliana di arrivare a un accordo con Hamas che, in sostanza, decreti la distruzione del movimento di resistenza. Netanyahu intende infatti concedere solo una pausa per ottenere la liberazione degli “ostaggi” e riprendere poi la strage.

Oltre a ciò, come sostiene Katz, Hamas dovrebbe firmare un documento che, durante la sospensione solo temporanea delle operazioni, consentirebbe a Israele di costruire senza ostacoli una struttura di detenzione destinata a sterminare e/o espellere i palestinesi dalla loro terra. Hamas, da parte sua, sostiene di non avere alcuna intenzione di rinunciare ad alcuni punti fondamentali, come lo stop permanente alle operazioni militari israeliane, l’evacuazione dalla striscia da parte delle forze di occupazione, l’ingresso illimitato di aiuti umanitari e il lancio della ricostruzione.

Netanyahu, come già accennato, vuole al contrario solo una pausa per riorganizzare le operazioni, liberare i prigionieri ancora nelle mani di Hamas e poi ripartire con i massacri. Il premier/criminale di guerra continua infatti ad affermare che non ci sarà nessun futuro per Hamas a Gaza e, di conseguenza, Hamas dovrebbe firmare la propria condanna a morte per avere in cambio la pace nella striscia. Le posizioni appaiono dunque inconciliabili e senza l’arretramento di una delle due parti, con un prezzo però enorme da pagare sia per una che per l’altra, le prospettive restano molto cupe.

Da parte di Netanyahu, accettare alcune delle condizioni di Hamas significherebbe fare un passo indietro dalle dichiarazioni pubbliche sugli obiettivi della guerra di aggressione, con tutto ciò che ne conseguenze in termini politici e di credibilità. Inoltre, senza il completamento del genocidio e la “pulizia” della striscia, gli alleati ultra-radicali del premier uscirebbero quasi certamente dal governo, anche se nei giorni scorsi alcuni leader dell’opposizione, come Benny Gantz, avevano promesso un paracadute politico a Netanyahu in caso di accordo sul cessate il fuoco. Per Hamas, come già spiegato, la firma sulla tregua nei termini proposti da Trump e Netanyahu non sarebbe solo la fine del movimento, ma la pietra tombale sulle residue speranze di libertà, sovranità e dignità di tutto il popolo palestinese.

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