Se c’è un ambito nel quale si misurano il grado di influenza di un determinato paese e la stabilità di un’area geografica è quello del petrolio e delle politiche energetiche in generale. A saperlo bene sono soprattutto gli Stati Uniti, il cui status di potenza fino a poco tempo fa incontrastata in Medio Oriente si è sempre fondato sulla partnership con l’Arabia Saudita e i “petrodollari”.

 

Questo primato sembra tuttavia erodersi rapidamente sull’onda degli eventi di questi ultimi anni e, oltre alle vicende militari e politiche della regione, a confermalo è anche la nascente cooperazione strategica tra lo stesso regime saudita e la Russia di Putin.

 

Mentre l’attenzione internazionale era focalizzata su quanto accadeva sul fronte della guerra in Siria, la settimana scorsa andava in scena a Riyadh un vertice tra le autorità del regno sunnita e quelle russe, centrato precisamente sulle questioni energetiche.

 

I due paesi hanno sottoscritto una serie di accordi e “memorandum d’intesa” che gettano le basi per una collaborazione di ampio respiro, tesa da un lato a sostenere gli sforzi sauditi per diversificare la propria economia, fondata sul greggio, e dall’altro a consolidare la posizione di Mosca in Medio Oriente. Sorprendentemente, vista l’alleanza di ferro tra Washington e Riyadh, il risultato potenziale di questo processo ancora alle fasi iniziali è la marginalizzazione degli Stati Uniti nella regione.

 

La notizia più importante uscita dal vertice russo-saudita è quella dell’offerta di Mosca, accettata da Riyadh, di investire nell’acquisto del 5% della mega-compagnia petrolifera pubblica saudita Aramco, per la quale il regime intende lanciare a breve un’Offerta Iniziale di Acquisto (IPO).

 

Aramco è valutata complessivamente qualcosa come duemila miliardi di dollari e la quota messa sul mercato dovrebbe perciò fruttare all’Arabia Saudita 100 miliardi che l’erede al trono, Mohammad bin Salman, vorrebbe utilizzare in primo luogo per implementare l’ambizioso piano “Vision 2030” destinato nelle intenzioni a svincolare l’economia del suo paese dal petrolio.

 

L’ottima disposizione saudita nei confronti dell’iniziativa russa deve avere provocato non pochi brividi a Washington, non solo per l’ovvia competizione con Mosca in Medio Oriente ma anche in relazione a quanto era accaduto a Riyadh la scorsa primavera in occasione della prima visita nella regione dell’allora neo-presidente Trump. Quest’ultimo era stato accolto con tutti gli onori dalla casa regnante saudita e i colloqui che ne erano seguiti avevano avuto al centro, tra l’altro, proprio la possibile partecipazione americana all’IPO di Aramco.

 

L’inserimento di Mosca nella vicenda non è l’unico motivo di preoccupazione per gli Stati Uniti, come ha confermato a Riyadh il numero uno del fondo sovrano russo di investimenti (RDIF), Kirill Dmitriev. Dmitriev ha infatti rivelato che per la quota di Aramco offerta dai sauditi si muoverà un fondo congiunto russo-cinese in collaborazione con banche russe. Anche la Cina sarà cioè in prima linea per l’IPO e, viste le implicazioni e la portata dell’operazione, essa aprirà con ogni probabilità la strada ad altre collaborazioni dall’importanza economica e strategica estremamente rilevante.

 

Sempre settimana scorsa a Riyadh, i vertici di Aramco hanno sottoscritto anche un “memorandum d’intesa” con la più grande compagnia russa produttrice di gas non statale, Novatek, per investire in un progetto estrattivo artico da 20 miliardi di dollari che dovrebbe essere operativo nel 2023.

 

Da quanto riportato dalla stampa internazionale, l’accordo sarà presentato ufficialmente nel corso del Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo, in programma nel mese di maggio, dove il rimescolamento degli equilibri strategici in atto in tutto il pianeta sarà nuovamente sotto gli occhi della comunità internazionale.

 

A dimostrazione di come il fermento registrato settimana scorsa a Riyadh possa dare l’impulso a una catena di operazioni rilevanti in ambito energetico, la stessa Novatek ha fatto sapere di essere interessata alla costruzione di un impianto per la rigassificazione di gas naturale liquefatto (LNG) in Arabia Saudita.

 

Dmitriev, “CEO” del fondo sovrano russo, ha anche assicurato che Mosca e Aramco sottoscriveranno nel prossimo futuro altri accordi di investimento. Uno di questi potrebbe beneficiare la compagnia russa indipendente di trivellazioni Eurasia Drilling, secondo la stampa specializzata da tempo interessata a entrare in progetti offshore e onshore in Arabia Saudita. Per Business Insider, addirittura il gigante russo Gazprom aveva sempre fallito nel tentativo di conquistarsi uno spazio di questo genere sul territorio del regno.

 

Sempre dei giorni scorsi è inoltre la notizia di come la Russia abbia sottoposto una proposta per la realizzazione di due reattori nucleari in Arabia Saudita, in vista di un appalto che il regime wahhabita intende assegnare il prossimo anno. Per il progetto sembravano essere in prima linea compagnie americane, coinvolte nelle trattative fin dal 2012. Il governo di Washington ha però sempre tentennato sulla questione, poiché Riyadh, nonostante il progetto sia ad uso civile, continua a rivendicare il diritto di conservare la capacità di arricchire uranio e di riprocessare il plutonio. Due operazioni, cioè, che potrebbero essere utili per la produzione di armi nucleari.

 

Il Congresso USA deve poi esprimersi per legge in caso di fornitura di tecnologia nucleare americana a un paese straniero. Lo stallo è in questo periodo al centro di discussioni a Washington, dove in molti stanno sollecitando uno sblocco della situazione per consentire alle aziende americane di partecipare all’asta saudita. Le divisioni restano profonde tra la classe politica USA, ma proprio l’interesse per l’operazione di soggetti russi, ma anche cinesi, francesi e sudcoreani, ha dato un senso di urgenza alla decisione da prendere.

 

Intanto, svariate altre intese sono già state firmate o sono in fase di negoziazione tra Mosca e Riyadh ed esse confermano il consolidamento dei rapporti bilaterali, evidenziato anche dalla retorica ufficiale piuttosto cordiale degli ultimi mesi, dalle costanti consultazioni tra i rispettivi leader e, soprattutto, dall’accordo tra la Russia e i paesi OPEC per il taglio alla produzione di greggio, tuttora in vigore, con l’obiettivo di stabilizzarne il prezzo.

 

Secondo molti osservatori, è probabile che il clima venutosi a creare nei rapporti bilaterali russo-sauditi possa condurre a un ulteriore ampliamento della collaborazione tra i due paesi, arrivando a coprire anche gli ambiti della difesa e della sicurezza, con tutte le conseguenze strategiche del caso, soprattutto in relazione all’alleanza tra Washington e Riyadh. Proprio in questi giorni l’ambasciatore saudita a Mosca ha ad esempio assicurato che i due paesi stanno definendo gli ultimi dettagli per la fornitura del sistema di difesa anti-aereo russo S-400.

 

I colloqui tra Putin e i reali sauditi vengono inoltre già seguiti da comunicati ufficiali che confermano come i due governi cerchino di coordinare le loro azioni, o quanto meno di lavorare per allentare le tensioni, in merito agli scenari di crisi in Medio Oriente, a cominciare dalla guerra in Siria e dai rapporti con l’Iran.

 

L’aspetto più interessante dell’evoluzione dei rapporti russo-sauditi è che teoricamente Mosca è allineata al fronte opposto di quello di Riyadh nel quadro dei conflitti e delle rivalità strategiche mediorientali. La Russia, com’è noto, vanta ad esempio una solida partnership con l’Iran e combatte in Siria al fianco del regime di Assad, contro il quale l’Arabia Saudita ha investito ingenti risorse, incluso il finanziamento di organizzazioni fondamentaliste.

 

Tutto questo non impedisce però un atteggiamento pragmatico da entrambe le parti e il rafforzarsi della collaborazione tra i due paesi in ambiti cruciali. Ciò conferma ancora una volta come Mosca, malgrado operi com’è ovvio per la promozione dei propri interessi, rappresenti in sostanza una forza potenzialmente stabilizzatrice sul piano internazionale, a differenza delle tendenze destabilizzanti e spesso distruttive che caratterizzano sempre più le scelte di politica estera degli Stati Uniti.

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