Le elezioni generali della settimana scorsa in Pakistan si sono risolte con il successo relativamente annunciato del leader populista e nazionalista Imran Khan, il cui Movimento per la Giustizia (Pakistan Tehreek-e-Insaf, PTI) ha estromesso dal potere i due partiti a carattere sostanzialmente dinastico e clientelare che, militari a parte, hanno dominato gran parte della storia politica del paese dell’Asia meridionale.

 

Il successo del PTI potrebbe anche essere, secondo molti osservatori, una tappa importante nel processo in corso a livello internazionale verso il multipolarismo. Tradizionale alleato, per non dire fantoccio, degli Stati Uniti, il Pakistan e la sua classe dirigente sono da qualche tempo al centro di dinamiche strategiche regionali che stanno determinando un avvicinamento sempre più evidente di Islamabad alla Cina, con cui i rapporti sono peraltro storicamente cordiali, e addirittura alla Russia.

 

 

Una delle carte vincenti della campagna elettorale dell’ex campione di cricket Imran Khan, assieme all’appello religioso islamico, è stata proprio la condanna degli USA e della loro guerra contro i militanti fondamentalisti in territorio pakistano, oltre che in Afghanistan, attraverso l’uso dei droni. La diffusissima ostilità nei confronti dei bombardamenti americani ha così garantito un crescente sostegno a Khan e al PTI, saldandosi ad almeno due altre questioni estremamente sentite, e per le quali ha promesso di battersi, in un paese dove la maggioranza della popolazione vive in condizioni disperate: la lotta alla povertà e alla corruzione.

 

I giornali ufficiali in Occidente e i principali rivali interni del PTI, vale a dire la Lega Musulmana Pakistana (PML-N) dell’ex primo ministro ora in carcere, Nawaz Sharif, e il Partito Popolare (PPP) della famiglia Bhutto, hanno insistito sull’appoggio decisivo dei vertici militari per Khan. Vista la consueta influenza di questi ultimi sulla vita politica pakistana, la vittoria alle urne del PTI sarebbe stata perciò il risultato di brogli e intimidazioni pianificate dalle forze armate stesse, come confermerebbe tra l’altro la presenza di quasi 400 mila soldati in tutto il paese per garantire le operazioni di voto.

 

Episodi sospetti e violenze anche molto gravi si sono in effetti verificate a urne aperte. Gli osservatori internazionali non hanno tuttavia rilevato manipolazioni su larga scala. La delegazione inviata dall’Unione Europa ha da parte sua rilevato più che altro un clima “iniquo” in campagna elettorale, con i candidati e i partiti dotati di maggiori mezzi finanziari in grado di dominare la scena a svantaggio degli altri. Una situazione, insomma, da questo punto di vista identica a quella delle “democrazie” occidentali.

 

I risultati definitivi hanno poi rispecchiato in sostanza le previsioni di quasi tutti i sondaggi precedenti il voto. Il PTI e la PML-N di Sharif erano considerati cioè molto vicini. Alcune rilevazioni davano maggiori chances di successo al partito di Khan e altre a quello dell’ex primo ministro.

 

Anche se è difficile quantificarne eventuali vantaggi, è innegabile che l’attitudine dei militari nei confronti del neo-vincitore delle elezioni sia stata tutt’altro che ostile. Anzi, i guai giudiziari in cui è invischiato Nawaz Sharif, secondo alcuni, sarebbero stati pilotati dagli ambienti militari per danneggiare il suo partito. L’ex premier e la figlia erano stati arrestati al rientro dall’auto-esilio temporaneo di Londra in seguito a un procedimento scaturito dalla vicenda dei “Panama Papers.”

 

Se è difficile dubitare del fatto che la famiglia Sharif abbia beneficiato in maniera a dir poco sospetta della posizione dei suoi membri, questa accusa potrebbe essere estesa alla gran parte dei politici pakistani. Nawaz aveva comunque provato a riciclarsi come martire o perseguitato politico, ma questi sforzi alla fine non hanno dato frutti, essendo il suo partito screditato dagli ultimi anni di governo, segnati, tra l’altro, dall’adozione di brutali misure di austerity in cambio di un prestito del Fondo Monetario Internazionale (FMI).

 

Il primo partito nell’Assemblea Nazionale pakistana sarà così il PTI, ma per una ventina di seggi non è riuscito a garantirsi la maggioranza assoluta. Trattative per formare un esecutivo sono già in corso con movimenti minori, partiti locali e deputati indipendenti, mentre Khan si è detto certo che potrà giurare da nuovo primo ministro il prossimo 11 di agosto.

 

La PML-N e il PPP hanno però complessivamente più seggi del PTI e, dopo un paio di riunioni dei rispettivi vertici, nonostante le differenze, sembrano essersi accordati per cercare di impedire la creazione di un gabinetto guidato da Imran Khan o, quanto meno, per rendergli la vita il più difficile possibile.

 

La prospettiva più percorribile per mantenere anche solo una parte delle promesse elettorali del PTI sembra essere quella di abbracciare i progetti infrastrutturali cinesi, a cominciare dal cosiddetto “Corridoio Economico Sino-Pakistano” (CPEC) che dovrebbe collegare i due paesi e facilitare il transito di merci, così come del petrolio proveniente dal Medio Oriente.

 

Questa tendenza a rafforzare il rapporto con Pechino e a prendere forzatamente le distanze da Washington è già ampiamente in atto in Pakistan, sulla spinta del rafforzamento della partnership strategica tra USA e India, ma poggia finora su basi precarie proprio per il ruolo storicamente decisivo che ha ricoperto l’alleanza con Washington per questo paese.

 

Imran Khan, dopo il voto, ha auspicato con toni moderati una relazione vantaggiosa per entrambi i paesi, ma ha allo stesso tempo evidenziato la necessità che i rapporti con gli Stati Uniti risultino equi e non sbilanciati a favore di questi ultimi.

 

Le premesse non sono evidentemente positive, dal momento che dagli USA è stata incessante la campagna mediatica contro Imran Khan e il suo partito. Da Washington è chiaro il disagio di dover trattare con un nuovo governo pakistano che promette di accelerare la svolta strategica intrapresa negli ultimi anni e il cui leader ha indicato la Cina come modello di sviluppo a cui intende ispirarsi.

 

La politica estera pakistana continuerà comunque a essere formulata dalle forze armate e il supporto di queste ultime sarà perciò decisivo per l’implementazione di un’agenda domestica già di per sé al limite dell’utopistico. In questa prospettiva, saranno in particolare le aperture all’India a essere messe a dura prova. Khan ha parlato in questi giorni di disponibilità a migliorare le relazioni bilaterali con il nemico di sempre, purché anche i leader indiani siano aperti al dialogo.

 

In passato, d’altra parte, i governi civili succedutisi a Islamabad hanno spesso visto frustrate precocemente le loro ambizioni diplomatiche riguardanti l’India in seguito all’intervento dei militari, la cui posizione di assoluto rilievo in Pakistan è dovuta in gran parte proprio al persistere di una percepita minaccia vitale proveniente dal vicino orientale.

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