Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, sembra avere per il momento scongiurato una delicata crisi di governo e allontanato l’ipotesi di elezioni anticipate. Il suo gabinetto esce tuttavia indebolito dal recente scontro con gli alleati di estrema destra, provocato dalla tregua siglata con Hamas per chiudere l’ennesimo conflitto armato nella striscia di Gaza.

 

Settimana scorsa, l’ormai ex ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, si era dimesso dal governo dopo avere accusato Netanyahu di essere troppo tenero nei confronti di Hamas e di avere accettato un cessate il fuoco senza avere debellato una volta per tutte la minaccia islamista sulla popolazione di Israele. La decisione di Lieberman era stata quasi universalmente giudicata come una mossa elettorale, per dare al leader del partito Yisrael Beitenu credenziali militariste e garantirgli la possibilità di provare a strappare voti al Likud del primo ministro.

 

 

L’uscita di Lieberman dal governo aveva così privato Netanyahu di cinque seggi, riducendo al minimo la sua maggioranza (61 su 120). Un’elezione anticipata appariva totalmente plausibile già in una situazione di questo genere, ma era addirittura diventata quasi inevitabile dopo che un altro “falco” dell’esecutivo Netanyahu, il ministro dell’Educazione Naftali Bennett, aveva minacciato anch’egli di ritirare i deputati del suo movimento (“Casa Ebraica”) se il portafoglio della Difesa non gli fosse stato assegnato in sostituzione di Lieberman.

 

L’agitazione alla destra del Likud ha però consentito a Netanyahu di promuovere la sua immagine di leader dedito alla sicurezza del paese e di dipingere i rivali interni come irresponsabili interessati solo a calcoli elettorali. Con un discorso tenuto domenica, Netanyahu ha attaccato coloro che con il loro comportamento stavano costringendo il paese a elezioni anticipate, cioè uno scenario a suo dire da evitare a tutti i costi, visti i problemi legati alla sicurezza che Israele sta affrontando in questo frangente.

 

Il primo ministro ha anche annunciato di volere ricoprire egli stesso il ruolo di ministro della Difesa e, poco più tardi, la minaccia di Bennett e del suo partito è immediatamente rientrata. Il ministro dell’Educazione ha cercato di salvare le apparenze per giustificare il suo passo indietro, dicendosi soddisfatto delle rassicurazioni in materia di sicurezza offerte da Netanyahu.

 

La scadenza naturale del parlamento israeliano è prevista per il novembre del prossimo anno, ma, nonostante l’apparente risoluzione della crisi, sono in molti a credere che la Knesset possa essere sciolta almeno qualche mese prima. Svariati fattori pesano infatti su un gabinetto con una maggioranza così risicata, non da ultimi i guai giudiziari dello stesso Netanyahu, sul cui capo pendono possibili incriminazioni nell’ambito di alcuni procedimenti per corruzione.

 

Se Netanyahu non sembra essere interessato al momento a chiedere anticipatamete un nuovo mandato degli elettori, è evidente come anch’egli si stia già preparando per un voto a breve. Nello stesso discorso del fine settimana, il primo ministro ha ostentato ad esempio le sue credenziali in materia di sicurezza, quasi a respingere le accuse di Bennett e Lieberman in un antipasto del prossimo confronto elettorale che si giocherà quasi certamente sui temi cari alla destra israeliana.

 

In un clima nel quale quasi tutto il panorama politico fa a gara per attestarsi sulle posizioni più guerrafondaie possibili, Netanyahu è consapevole di essere esposto ad attacchi da destra anche solo per avere sottoscritto una tregua con Hamas, peraltro seguita a scontri causati dall’ennesima operazione criminale delle forze di sicurezza israeliane in territorio palestinese.

 

Ciononostante, Netanyahu intende perseguire un progetto che comporta il mantenimento di un certo equilibrio a Gaza, pur non avendo nulla a che vedere con scrupoli di natura pacifista o per le condizioni drammatiche della popolazione palestinese.

 

Le dichiarazioni del premier sulla volontà di evitare “una guerra non necessaria” nascondono cioè il bisogno, da un lato, di mantenere una relativa pace a Gaza sotto il controllo di Hamas e, dall’altro, di garantire l’esistenza di quest’ultima organizzazione, sia per evitare una complicatissima occupazione militare israeliana della striscia sia per impedire un’unificazione dei territori palestinesi sotto il dominio dell’Autorità Palestinese.

 

In ultima analisi, l’obiettivo di Netanyahu è la costante espansione degli insediamenti illegali israeliani e il conseguente impedimento della creazione di uno stato palestinese unificato. Da qui deriva la necessità di alimentare le divisioni tra i palestinesi e, allo stesso tempo, di evitare l’esplosione di tensioni o il verificarsi di eventi estremi che peggiorino ulteriormente l’immagine internazionale di Israele fino al punto di ostacolare l’implementazione dell’agenda del primo ministro.

 

In questo senso va interpretata la recente decisione di Netanyahu, anch’essa fortemente criticata dalla destra interna all’alleanza di governo, di consentire il trasferimento a Gaza di aiuti provenienti dal Qatar per 15 milioni di dollari, in buona parte destinati a pagare stipendi e a prevenire rivolte popolari contro gli stessi vertici di Hamas.

 

Un altro elemento da considerare nella relativa cautela di Netanyahu è senza dubbio la capacità ormai acquisita da parte di Hamas di colpire in maniera pesante la popolazione israeliana. Una nuova guerra a tutti gli effetti con il braccio armato del governo di Gaza si trasformerebbe cioè in una dispendiosa impresa per Israele in termini economici e di uomini, senza contare i problemi d’immagine dovuti alle più che probabili condanne internazionali nonostante il sostegno dell’alleato americano.

 

A differenza di Bennett e Lieberman, dunque, Netanyahu continua a mostrare un certo pragmatismo nella gestione del problema di Gaza, sia pure nell’ambito di un disegno inequivocabilmente anti-palestinese. Come ha spiegato un’analisi pubblicata qualche giorno fa dalla testata on-line Middle East Eye, per il premier israeliano “l’esistenza di Hamas rappresenta un bonus strategico di primissima importanza”, poiché, dal suo punto di vista, “qualsiasi fattore che possa favorire la creazione di uno stato indipendente a Gaza, separato dalla Cisgiordania, è una sorta di benedizione”.

 

In altri parole, Netanyahu intende capitalizzare per i propri scopi le divisioni tra Hamas e Autorità Palestinese, visto che “fino a quando le due entità rimarranno separate, le probabilità che l’OLP e i palestinesi in generale reclamino e ottengano un unico stato indipendente sono ridotte al minimo”. In una situazione già tutt’altro che favorevole, insomma, la mancata unità palestinese ostacola in maniera decisiva l’avvio di qualsiasi negoziato e favorisce il consolidamento dell’occupazione promossa da Netanyahu.

 

In questo gioco di equilibri di Netanyahu, costretto a muoversi tra le spinte dell’estrema destra domestica e la necessità di garantire lo status quo sul fronte palestinese, si inseriscono infine le manovre dell’amministrazione Trump e l’elaborazione, probabilmente tuttora in corso, del “piano di pace” della Casa Bianca. Se i dettagli della proposta americana non sono noti ufficialmente, sembra praticamente certo che prevederà anch’essa la formazione di entità palestinesi separate, in modo da favorire ancor più Israele.

 

Il piano di Trump, studiato dal genero Jared Kushner e ridicolmente auto-definito “accordo del secolo”, sembra essere dunque un tradimento anche formale della causa palestinese e ricalcare in sostanza le posizioni di Netanyahu, la cui permanenza alla guida del governo continua a rimanere perciò un’assoluta priorità anche per il principale alleato dello stato di Israele.

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