Il massacro in corso nello Yemen per mano del regime saudita e dei suoi alleati continua a confermarsi il più grave crimine attualmente in fase di esecuzione sulla faccia della terra. Il tristissimo primato del più povero dei paesi arabi ha trovato conferma in questi giorni con l’ennesima strage commessa dalla “coalizione” guidata da Riyadh, i cui aerei da guerra hanno colpito un edificio adibito a prigione uccidendo più 100 detenuti.

La più recente operazione arriva in un momento nel quale le difficoltà si stanno moltiplicando per l’Arabia Saudita sul fronte yemenita. I “ribelli” Houthi sciiti, obiettivo della campagna militare, continuano infatti a mostrare capacità offensive sempre maggiori, mentre i principali alleati della monarchia wahhabita nel conflitto, gli Emirati Arabi Uniti, sembrano muoversi in direzione almeno parzialmente contraria, come testimonia il riaccendersi delle spinte separatiste nel sud del paese.

 

Domenica mattina, i jet sauditi hanno condotto almeno sei incursioni nella località di Dhamar, nello Yemen sud-occidentale, bombardando una struttura che ospitava in passato un’università prima di essere convertita in un centro di detenzione dagli Houthi. Per la “coalizione” sunnita che fa capo al regime saudita, i raid avrebbero distrutto un sito nel quale erano immagazzinati droni e missili a disposizione degli stessi “ribelli”. Testimonianze di gran lunga più attendibili hanno invece raccontato una realtà molto diversa.

In particolare, la delegazione della Croce Rossa nello Yemen ha confermato trattarsi di un carcere, poiché membri di questa organizzazione avevano fatto visita recentemente ai detenuti ospitati dall’edificio distrutto, presumibilmente tutti o quasi morti sotto le bombe saudite. Il numero dei decessi inizialmente fornito dalle autorità Houthi è stato di poco inferiore rispetto alla stima di oltre 100 fatta dalla Croce Rossa. Anche l’ufficio dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani nello Yemen ha fornito cifre più basse, avvertendo però che decine di detenuti mancavano ancora all’appello.

L’inviato speciale per lo Yemen del segretario generale delle Nazioni Unite, Martin Griffiths, ha inoltre rilasciato una dichiarazione di condanna contro i vertici sauditi. Essa suona però come una beffa per le vittime e i loro famigliari. Il diplomatico britannico ha cioè invitato la “coalizione” ad aprire un’indagine sull’incidente per verificare le responsabilità dell’accaduto. L’Arabia Saudita e i suoi complici nelle stragi commesse nello Yemen ritengono tuttavia questo e altri episodi simili già chiusi e, tutt’al più, sono disposti a svolgere indagini-farsa con esiti già pre-stabiliti per evitare qualsiasi responsabilità, grazie soprattutto alla copertura garantita dal governo degli Stati Uniti.

La strage commessa nel fine settimana contro il carcere yemenita appare particolarmente raccapricciante e vile, non solo per il fatto che i detenuti in un conflitto sono protetti dal diritto internazionale, ma anche e proprio per l’impossibilità di difendersi dovuta al loro stato. La criminalità e la totale assenza di scrupoli del regime saudita hanno avuto comunque già modo di manifestarsi in moltissime altre occasioni nel corso della guerra che dura dal 2015, visto che le forze della “coalizione” hanno preso di mira più volte scuole, abitazioni civili, fabbriche, bus di studenti e banchetti di nozze, provocando un numero indefinito di vittime innocenti.

A ciò vanno aggiunti altri crimini di guerra di rilevanza estrema, come il blocco quasi totale imposto agli aiuti umanitari e all’importazione di cibo e medicinali, col risultato di provocare il decesso di decine di migliaia di civili per fame ed epidemie. Che tutto questo possa continuare ad accadere nel silenzio quasi assoluto della comunità internazionale e che i responsabili restino impuniti è dovuto pressoché unicamente alla collaborazione e alla difesa del regime saudita e dei suoi alleati da parte dei governi occidentali, a cominciare da quello americano.

La guerra era stata scatenata con il via libera dell’allora amministrazione Obama per fermare l’avanzata delle milizie Houthi che avevano deposto il governo del presidente yemenita, Abd Rabbu Mansour Hadi, fantoccio di Riyadh e di Washington, installato dopo le manifestazioni di protesta nel quadro della “Primavera Araba” in un’elezione nel quale risultava l’unico candidato. Da subito, il conflitto aveva assunto i contorni di una guerra per la supremazia in Medio Oriente dell’Arabia Saudita e degli altri paesi che la sostengono. Gli Houthi, che professano una fede avvicinabile allo sciismo, sono infatti considerati dai loro avversari come una sorta di milizia agli ordini dell’Iran. Se qualche legame militare o finanziario non poteva essere escluso, ancorché marginale e mai provato, i rapporti potrebbero essersi intensificati in realtà solo dopo l’aggravarsi del conflitto e proprio a causa dell’intervento saudita nello Yemen.

Nonostante una teorica superiorità schiacciante garantita anche dai rifornimenti militari e dall’assistenza nell’ambito dell’intelligence dagli USA e da altri paesi come Francia e Gran Bretagna, la guerra nello Yemen è da tempo diventata un autentico pantano per la monarchia saudita. Come già ricordato, gli Houthi, probabilmente grazie al contributo iraniano, possono contare da tempo su un arsenale che consente una resistenza formidabile e, sempre più, anche l’attuazione di incursioni con droni e lanci di missili in grado di colpire infrastrutture cruciali per l’Arabia Saudita, tra cui aeroporti e oleodotti.

Ciò ha creato malumori e divisioni nella casa regnante a Riyadh, dove il promotore dell’aggressione contro lo Yemen, l’erede al trono principe Mohammad bin Salman (MBS), aveva promesso un’operazione rapida e relativamente indolore per ristabilire il controllo sul vicino meridionale. Anche a Washington, le tensioni sullo Yemen sono alle stelle. Da un lato, l’amministrazione Trump continua a garantire il proprio totale sostegno alla campagna saudita. Dall’altro, invece, il Congresso e almeno una parte dell’apparato militare USA temono le conseguenze del discredito provocato a livello internazionale dal coinvolgimento in una guerra criminale. Il risultato, oltre ai tentativi finora inefficaci di lanciare un processo di pace, è stata una serie di provvedimenti del Congresso, tutti bloccati dal veto del presidente, per provare a costringere il Pentagono a sospendere l’appoggio militare offerto a Riyadh.

Con il procedere del conflitto, inoltre, la divergenza degli interessi tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi è diventata sempre più evidente. Quest’ultimo regime ha preso alcune iniziative negli ultimi mesi per disimpegnarsi in modo relativo dalle operazioni di guerra, come il ritiro della maggior parte delle proprie forze dispiegate sul fronte dello Yemen.

Ancora più indicativo dell’allontanamento dagli obiettivi sauditi, i regnanti degli Emirati hanno intensificato il proprio sostegno ai separatisti yemeniti del Consiglio Meridionale di Transizione, scontratisi ripetutamente con le forze “governative” teoricamente alleate contro gli Houthi. Uno degli episodi più gravi si è registrato la scorsa settimana con bombardamenti condotti dai jet degli Emirati contro un convoglio delle milizie fedeli al presidente Hadi, e appoggiate dai sauditi, che si stava recando nella città portuale di Aden per combattere i separatisti. Il bilancio dell’attacco, a seconda delle fonti citate dai media internazionali, è stato tra i 30 e i 45 soldati uccisi, oltre a decine di feriti.

Gli Emirati Arabi sembrano essere sempre meno interessati a proseguire una guerra onerosissima sia in termini economici che di immagine. Tanto più che l’obiettivo principale per questo paese è con ogni probabilità il controllo sui porti e la costa meridionale dello Yemen, raggiungibile non necessariamente con la sconfitta degli Houthi, quanto piuttosto attraverso la creazione di un’entità indipendente o autonoma che ricalchi quella esistente fino all’unificazione con lo Yemen del Nord nel 1990.

Nonostante il rapporto ritenuto strettissimo tra il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman e quello dell’emirato di Abu Dhabi, Mohammad bin Zayed, gli Emirati Arabi stanno secondo alcuni osservatori prendendo anche le distanze dalla campagna a tutto campo contro l’Iran promossa da Riyadh. D’altra parte, malgrado la retorica ufficiale e la rete di alleanze, questo paese continua ad avere rapporti commerciali significativi con la Repubblica Islamica e, in caso di attacco contro Teheran, rischierebbe di diventare da subito uno dei principali bersagli della inevitabile ritorsione iraniana.

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