Un nuovo e forse definitivo accordo sulla Brexit tra il governo di Boris Johnson e l’Unione Europea è stato finalmente raggiunto nella mattinata di giovedì dopo intensi negoziati tra le due parti. L’intesa rimane però in bilico a meno di due settimane dalla data prevista per l’uscita di Londra dall’UE. Una seduta straordinaria e decisiva del Parlamento britannico è in programma sabato, quando l’accordo sarà messo ai voti in un clima che al momento si prospetta estremamente incerto. Giovedì e venerdì, invece, sarà il summit dei 28 paesi dell’Unione a valutare il testo appena concordato e che, per molti, potrebbe essere l’ennesima manovra del primo ministro britannico per forzare un’elezione anticipata in patria e ottenere un pieno mandato a governare il paese.

La forza politica che ha garantito finora la maggioranza alla Camera dei Comuni agli ultimi governi conservatori, gli unionisti nordirlandesi del DUP, già prima dell’annuncio ufficiale di Bruxelles e Downing Street, aveva escluso di poter dare il proprio sostegno all’accordo. La leader del partito, Arlene Foster, e il numero uno del gruppo parlamentare, Nigel Dodds, hanno ribadito le loro posizioni giovedì, giudicando inaccettabili i termini stabiliti per risolvere il nodo doganale sull’isola d’Irlanda, assieme a quello relativo all’autorità del governo locale di Belfast nell’accettare, respingere o prolungare le condizioni concordate tra Londra e Bruxelles.

 

L’ostacolo principale all’accordo, che già aveva affondato per tre volte quello stipulato da Theresa May, è appunto il meccanismo da implementare per evitare il ritorno a una frontiera a tutti gli effetti tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Se ciò dovesse accadere, il traffico di merci tra i due confini sarebbe gravemente ostacolato, con tutte le conseguenze del caso per l’economia dell’isola, e verrebbe messo in pericolo anche il cosiddetto accordo del “Venerdì Santo” del 1998 che mise fine al conflitto in Irlanda del Nord.

Il precedente accordo tra Regno Unito e UE, mai approvato dal Parlamento di Londra, prevedeva la permanenza delle contee nordirlandesi nel sistema doganale europeo tramite un controverso dispositivo definito “backstop”. Gli unionisti e i sostenitori della Brexit lo avevano però contestato da subito, perché avrebbe in sostanza creato una doppia regolamentazione doganale tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito. Allo stesso modo, questa soluzione rischiava di escludere la sola Irlanda del Nord da futuri eventuali accordi commerciali sottoscritti da Londra con altri paesi.

L’intesa di giovedì cerca perciò di aggirare la questione attraverso un espediente studiato per provare a soddisfare entrambe le parti. Ufficialmente, l’Irlanda del Nord resterebbe nel territorio doganale del Regno Unito, ma applicherebbe almeno una parte delle regole europee per gli scambi delle merci. I controlli in entrata avverrebbero solo nei porti e negli aeroporti, ma non lungo il confine di terra. La frontiera effettiva sarebbe così nel mare d’Irlanda, anche se ciò ha subito sollevato le riserve degli unionisti, a causa di possibili impedimenti agli scambi con il resto del Regno Unito.

Questa sistemazione dei confini e delle regole doganali dovrebbe essere poi approvata e confermata ogni quattro anni dal parlamento nordirlandese a semplice maggioranza e non, come ipotizzato in precedenza, in presenza di una maggioranza di entrambe le comunità, cattolica e protestante.

Una volta ottenuto il via libera all’accordo dai membri dell’UE, per Johnson resterà il problema di trovare i voti necessari in Parlamento. Se il DUP dovesse confermare la propria contrarietà, le opzioni per il governo risulterebbero ristrette. Per incassare l’approvazione della Camera dei Comuni, servirà l’appoggio di un certo numero di deputati laburisti e di almeno una parte dei 21 membri del Parlamento espulsi dal Partito Conservatore a inizio settembre per avere votato a favore di una risoluzione che impediva la Brexit senza un accordo con Bruxelles.

La fazione più radicalmente pro-Brexit dei conservatori ha mostrato nelle scorse ore una certa disponibilità ad approvare l’accordo proposto dal primo ministro. Anche un voto compatto dei “Tories” non sarebbe però sufficiente a garantire una maggioranza. Alcuni commentatori britannici hanno ipotizzato una possibile operazione di convincimento in corso da parte del governo nei confronti degli unionisti del DUP, attraverso la promessa di concessioni e stanziamenti finanziari a favore dell’Irlanda del Nord.

Per il Guardian, tuttavia, in molti a Belfast giudicano la strategia di Johnson in modo diverso. Il primo ministro punterebbe infatti a ottenere un accordo da Bruxelles da usare come strumento per arrivare al voto anticipato e per trascinare il Regno Unito fuori dall’Unione entro il 31 ottobre, senza preoccuparsi troppo del risultato del voto di sabato alla Camera dei Comuni.

In teoria, il “Benn Act”, approvato a settembre dal Parlamento, obbliga il governo a chiedere un rinvio della Brexit a Bruxelles in assenza di un accordo o di un voto favorevole dell’aula. Ciò dovrebbe legare le mani a Johnson, ma da settimane si parla di possibili manovre del primo ministro per finalizzare l’uscita dall’UE secondo i propri piani, pur nel rispetto formale della legge.

In questo senso va probabilmente interpretata l’intenzione di Johnson, rivelata dalla BBC, di chiedere ai leader dell’Unione di escludere la possibilità di un rinvio della Brexit. Il primo ministro, in questo modo, soddisferebbe il “Benn Act” chiedendo una proroga a Bruxelles, ma ne annullerebbe gli effetti incassando un rifiuto decisamente gradito. Le speranze di Johnson sono state comunque frustrate giovedì, quando i leader europei hanno lasciato aperta la porta a un rinvio, nonostante l’indicazione contraria del presidente uscente della Commissione Juncker.

Le prossime ore saranno decisive per capire gli equilibri in Parlamento e le posizioni delle varie fazioni della classe politica britannica alla vigilia di quella che è probabilmente la decisione più importante per questo paese dal dopoguerra a oggi. Un’altra complicazione potrebbe emergere sabato se i deputati contrari alla Brexit dovessero decidere di votare, unitamente all’accordo negoziato dal primo ministro, la proposta di un secondo referendum per scegliere tra quest’ultimo e la permanenza nell’UE. Nella giornata di giovedì, l’ipotesi è sembrata tuttavia scemare, visto il timore che l’iniziativa possa non trovare il sostegno necessario in aula.

In gioco c’è anche il futuro politico di Boris Johnson. Due sono i binari su cui intende muoversi il primo ministro. Il primo prevede l’uscita dall’UE entro fine ottobre e poi un’elezione anticipata da vincere sull’onda della Brexit. Il secondo, se la Brexit dovesse nuovamente slittare, passa invece prima dal voto in tempi brevi, puntando su una campagna elettorale giocata sul rispetto del risultato del referendum del 2016.

In entrambi i casi, l’obiettivo di Johnson e dei conservatori pro-Brexit resta quello di sottrarre il Regno Unito dai vincoli europei per fare del paese una sorta di “paradiso” del neo-liberismo e della deregulation finanziaria, nonché strategicamente indipendente e, soprattutto, libero di allineare i propri interessi a quelli degli Stati Uniti.

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