È passata mercoledì in prima lettura la mozione del governo israeliano che, se approvata definitivamente la prossima settimana, scioglierà il parlamento unicamerale (Knesset), mandando il paese alle elezioni per la quinta volta in meno di quattro anni. Il primo ministro uscente, Naftali Bennett, e il suo vice e imminente successore ad interim, Yair Lapid, hanno deciso questa settimana di mandare in archivio il (finto) “governo del cambiamento” dopo avere preso atto dell’impossibilità di tenere assieme una coalizione troppo frammentata e instabile.

 

I due principali leader dell’esecutivo sembrano avere deciso in autonomia della sorte della legislatura, senza nemmeno consultare o informare in anticipo i loro alleati. La manovra di Bennett e Lapid serve a impedire all’opposizione e all’ex premier Netanyahu di mettere assieme un governo alternativo di destra senza passare per le urne. L’ipotesi appariva d’altronde tutt’altro che improbabile, viste le numerose defezioni delle ultime settimane dalla coalizione di maggioranza, in particolare dal partito Yamina di Bennett.

È stata anzi proprio l’emorragia di deputati dalla maggioranza a rendere impossibile la stabilizzazione del governo, andato ormai sotto la quota di 61 seggi che aveva raggiunto nel giugno del 2021 dopo l’accordo tra otto partiti di diverso orientamento politico. Non sono stati però solo i calcoli aritmetici a far saltare il gabinetto Bennett. Decisivi sono stati probabilmente anche i contraccolpi della mancata approvazione dell’estensione di una legge che rappresenta il fondamento del regime di apartheid imposto ai palestinesi nei territori occupati della Cisgiordania.

Un paio di settimane fa, il governo era andato clamorosamente sotto alla Knesset sulla proroga, considerata per mezzo secolo come una formalità, della legge che estende le regolamentazioni civili israeliane ai coloni che vivono negli insediamenti illegali. Senza il prolungamento di questa legislazione, della durata di cinque anni, anche questi ultimi come i palestinesi sarebbero soggetti alla legge militare, con una serie di gravissime complicazioni dovute al carattere illegale dell’occupazione israeliana, tanto da rendere dubbio, tra l’altro, anche il diritto di voto dei coloni. La legge, senza l’approvazione dell’aula, cesserebbe di esistere a fine giugno, ma con lo scioglimento del parlamento verrà automaticamente prorogata.

Nel complesso, è possibile affermare che il governo Bennett è crollato sotto il peso delle sue stesse contraddizioni. La coalizione che lo sosteneva va dal partito di estrema destra Yamina a quello di sinistra Meretz fino a quello conservatore arabo Ra’am, passando per gli ultra-nazionalisti laici di Yisrael Beiteinu dell’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Spacciato come “governo del cambiamento”, anche per via della componente araba e di centro-sinistra che lo caratterizzava, è finito per diventare un altro strumento delle politiche sioniste radicali e razziste implementate durante gli anni di Netanyahu.

Alla fine, il già ricordato voto sulla “legge apartheid” ha suggellato con una sorta di paradosso la natura reazionaria del governo Bennett. Davanti al rischio di veder crollare la fragilissima maggioranza, deputati di Meretz, teoricamente contrari alla legislazione, si sono espressi a favore, anche se non tutti, mentre l’opposizione del Likud e dell’ultra-destra religiosa ha votato contro, con l’obiettivo appunto di far cadere il governo.

In definitiva, l’esecutivo uscente ha fatto registrare un’accelerazione della concessione dei permessi di costruire nei territori occupati, così come delle demolizioni degli edifici palestinesi. I palestinesi uccisi dalle forze di sicurezza nell’ultimo anno, secondo alcune stime, sono stati più di cento, mentre quasi 650 sono quelli detenuti nelle carceri israeliane senza processo. L’assassinio nel mese di maggio a Jenin della giornalista palestinese-americana di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, è avvenuto infine per mano delle forze di sicurezza sotto il comando del ministro laburista della Pubblica Sicurezza, Omer Bar-Lev.

Salvo sorprese, la settimana prossima dovrebbero essere programmate le due restanti votazioni sulla proposta di scioglimento della Knesset. Se approvate, nuove elezioni saranno fissate in una data compresa tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre. I sondaggi di queste settimane danno nettamente in vantaggio il Likud. Il partito di Netanyahu potrebbe ottenere circa 35 seggi sui 120 totali in palio, mentre progressi dovrebbero far segnare anche gli alleati ultra-ortodossi e apertamente anti-arabi del Fronte Nazionale Ebraico di Itamar Ben Gvir e del Partito Religioso Sionista di Bezalel Smotrich.

La potenziale coalizione di estrema destra oggi all’opposizione potrebbe tuttavia non raggiungere i 61 seggi necessari a governare e sarà perciò da vedere se alcune componenti dell’attuale maggioranza sceglieranno di seguire le sirene di Netanyahu nei prossimi mesi. Il fronte anti-Netanyahu condurrà invece un’altra campagna elettorale probabilmente con al centro la battaglia contro l’ex premier, di fatto già l’unico collante della coalizione uscente.

Da vedere sarà anche la capacità di Yair Lapid e del suo partito “centrista” Yesh Atid di proporsi come alternativa moderata a un Netanyahu deciso a puntare su toni decisamente radicali e sempre coinvolto in seri guai legali. Yesh Atid sembra poter aggiungere qualche seggio ai 17 che detiene attualmente, ma la difficoltà principale sarà quella di uscire dalla logica sionista anti-palestinese che permea ormai quasi interamente il panorama politico dello stato ebraico.

Lapid avrà in ogni caso qualche mese in cui godrà di ampia visibilità, visto che, una volta sciolto ufficialmente il parlamento, diventerà primo ministro ad interim. La successione a Bennett, che in condizioni normali avrebbe dovuto avvenire nell’agosto del 2023, è prevista dallo stesso accordo di governo, nel caso a provocare la crisi della coalizione siano membri del partito Yamina. Ufficialmente, infatti, la maggioranza è venuta meno dopo l’abbandono di due deputati del partito del premier uscente: Idit Silman e, più recentemente, Nir Orbach.

Ad accogliere Joe Biden in visita in Israele per la prima volta da presidente USA il prossimo luglio dovrebbe esserci quindi Lapid, il quale conserverà anche il portafoglio degli Esteri. Sarà interessante in quell’occasione verificare se i colloqui tra i due alleati toccheranno temi caldi come la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi, in particolare l’Arabia Saudita, dopo i risultati ottenuti durante l’amministrazione Trump, e la questione dell’Iran e delle trattative sull’orlo del naufragio per la riesumazione dell’accordo sul nucleare (JCPOA), fortemente avversato da Tel Aviv. Essendo quello che rappresenterà Israele davanti al presidente Biden un governo di transizione, è possibile che decisioni definitive sui temi di maggiore rilievo vengano rinviate a dopo il voto.

Qualunque sia l’esito delle ormai molto probabili ennesime elezioni anticipate, non si intravedono cambiamenti significativi all’orizzonte per Israele. Il radicalizzarsi della situazione interna, le crescenti disuguaglianze sociali e le difficoltà dell’economia, l’assenza totale di un percorso per la risoluzione della questione palestinese, il disinteresse per quest’ultima causa dei regimi arabi sunniti, la copertura garantita dagli Stati Uniti a qualsiasi crimine israeliano rendono certo un futuro fatto ancora una volta di violenza, apartheid, violazione sistematica del diritto internazionale. Con queste premesse, appare più che logico anche l’altrettanto probabile ritorno al potere di Netanyahu dopo un purgatorio durato nemmeno due anni.

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