Il ritorno in maniera formale della Siria nella Lega Araba segna non soltanto il reintegro a tutti gli effetti di Damasco nelle dinamiche diplomatiche regionali dopo quasi dodici anni, ma anche il fallimento delle manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati per rovesciare con la violenza il governo di Bashar al-Assad e imprimere una svolta strategica anti-iraniana in Medio Oriente. La decisione è stata presa durante un vertice a porte chiuse nel fine settimana in Egitto e spiana la strada alla partecipazione da parte del legittimo governo siriano alla riunione della Lega Araba prevista per il prossimo 19 maggio in Arabia Saudita.

 

Al Cairo erano presenti i rappresentanti di 13 dei 22 paesi membri dell’organizzazione e tutti avrebbero dato parere positivo al reintegro della Siria. La sospensione di Damasco risaliva al summit del novembre 2011 sempre nella capitale egiziana, quando, dietro pressioni americane, Assad era stato oggetto di provvedimenti punitivi in seguito alla dura risposta delle forze di sicurezza siriana contro quelle che erano state caratterizzate come manifestazioni democratiche di protesta, in realtà alimentate e manipolate da Washington, dalla Turchia e da svariati regimi arabi sunniti.

Il rientro siriano nella Lega Araba sarebbe vincolato a una serie di condizioni, tra cui il ritorno nel paese dei profughi senza che diventino oggetto di ritorsioni. Inoltre, Assad dovrebbe accettare e favorire un processo politico che porti a nuove elezioni nel paese, nonché adoperarsi per fermare il traffico di stupefacenti dalla Siria verso i paesi confinanti. Quest’ultima condizione suona a dir poco ipocrita, visto che l’esplosione della circolazione di droga in Siria e in Medio Oriente, a cominciare dalla sostanza “Captagon”, è il risultato precisamente del caos generato dalla guerra ed è da ricondurre in primo luogo ai gruppi fondamentalisti dell’opposizione armata finanziati dall’Occidente e dagli altri loro sponsor mediorientali.

Le riserve con cui il governo di Damasco sarebbe stato riammesso richiamano i termini della risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU 2254 del dicembre 2015 e sembrano essere una qualche forma di concessione agli Stati Uniti, che continuano a opporsi strenuamente al processo di normalizzazione in corso. È possibile infatti che almeno qualche membro della Lega intenda limitare gli attriti con Washington sulla questione Siria e che abbia perciò spinto per introdurre nella risoluzione finale le suddette condizioni.

Al di là dei possibili vincoli, il reintegro della Siria appena ufficializzato ha un valore prima di tutto politico. La decisione rappresenta una riabilitazione vera e propria del governo di Assad, assieme al riconoscimento della sua autorità su tutto il territorio siriano. Una riabilitazione che, almeno a livello potenziale, apre le porte alla futura cancellazione delle sanzioni imposte contro Damasco nell’ultimo decennio. Il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, ha inoltre ribadito nel corso del vertice al Cairo che la soluzione alla crisi siriana deve essere “politica” e non militare, mentre sarà anche necessario “eliminare il terrorismo” dal paese, ovvero quei gruppi armati che si battono ancora contro il governo centrale con l’aiuto di attori stranieri.

Il riposizionamento regionale della Siria dopo gli eventi del fine settimana è il risultato di un lavoro diplomatico e di un riassestamento strategico in corso ormai da qualche anno. Gli ultimi mesi hanno però registrato una netta accelerazione grazie soprattutto all’iniziativa saudita. Lo scorso mese di aprile, il ministro degli Esteri siriano, Faisal al-Mekdad, era stato protagonista di una storica visita a Riyadh, in seguito alla quale la monarchia wahhabita aveva dichiarato pubblicamente il proprio sostegno all’unità territoriale della Siria, oltre che a una soluzione diplomatica del conflitto.

Pochi giorni dopo era stato il ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan, a recarsi a Damasco, verosimilmente per consegnare ad Assad l’invito al summit della Lega Araba del 19 maggio. L’ultimo passo prima del vertice del Cairo di domenica era stato il tavolo di Amman di lunedì scorso, dove Arabia Saudita, Egitto, Giordania e Iraq, in presenza dei rappresentanti di Damasco, si erano appunto impegnati per l’integrità territoriale della Siria e a liberare il paese da “tutte le interferenze straniere”, inclusa quindi anche quella americana.

Il nuovo passo verso il consolidamento della posizione del governo di Assad non è solo la conseguenza del cambiamento di attitudine di Riyadh, ma anche e soprattutto dell’espansione dell’influenza di Russia e Cina nel teatro mediorientale. Per questi ultimi paesi il ritorno di Damasco nella Lega Araba è un evidente successo che si può misurare facilmente dall’ennesima reazione risentita dell’amministrazione Biden alle notizie riguardanti la Siria. La stabilizzazione siriana e il ritorno di buona parte del territorio sotto il controllo governativo sono strettamente legati all’intervento militare russo inaugurato nel 2015.

Riguardo a Pechino, invece, è la penetrazione economica e infrastrutturale cinese nella regione, assieme all’integrazione in ambito energetico con le monarchie del Golfo Persico, a essere determinante. I risultati dal punto di vista diplomatico si sono potuti osservare nel mese di marzo con l’accordo tra Arabia Saudita e Iran per il ristabilimento di normali relazioni bilaterali dopo anni di gelo. La distensione tra Riyadh e Teheran grazie alla Cina ha gettato le basi per la risoluzione del conflitto in Siria, come hanno appunto confermato i contatti ad altissimo livello tra la casa regnante saudita e il governo di Assad delle scorse settimane e la recentissima decisione della Lega Araba.

Con l’inizio della fine dell’isolamento di Damasco viene meno dunque l’elemento centrale della strategia americana, costruita sulla promozione di una sanguinosa guerra civile dietro la propaganda della lotta per la democrazia del popolo siriano. Il passo successivo dovrà essere ora l’evacuazione del contingente illegale di soldati e mercenari che Washington conserva nel nord-est della Siria in collaborazione con le milizie curde. Che ciò accada nel breve periodo resta a dir poco dubbio, ma per il momento la scommessa americana contro Assad è fallita praticamente su tutti i fronti e gli ultimi a non volerne prendere atto restano proprio gli Stati Uniti.

In un’analisi della notizia del fine settimana, l’ex analista della CIA e blogger Larry Johnson ha ricordato che l’iniziativa della Lega Araba determina anche “il deragliamento degli sforzi americani di isolare e punire l’Iran”, proprio perché la guerra per il cambio di regime in Siria era in sostanza uno strumento per il raggiungimento di quest’ultimo obiettivo di politica estera. In parallelo, Israele vede messi in pericolo i piani di normalizzazione con il mondo arabo in funzione anti-iraniana, con il rischio di ritrovarsi isolato dopo avere accarezzato a lungo la possibilità di stabilire relazioni diplomatiche ufficiali soprattutto con l’Arabia Saudita senza concedere nulla sul fronte palestinese.

Come già anticipato, gli Stati Uniti restano per il momento irremovibili in merito alla Siria e hanno confermato di volere continuare a imporre sanzioni unilaterali contro Damasco. In seno alla Lega Araba, rimangono contrari al reintegro siriano anche Qatar, Kuwait e Marocco. La posizione di Doha appare quella più significativa dal punto di vista degli equilibri regionali e, Kuwait a parte, costituisce un’eccezione tra le monarchie del Golfo. Le resistenze del Qatar sembrano singolari a molti osservatori, in particolare se si considera che l’unico alleato strategico nella regione di questo paese, ovvero la Turchia, ha da tempo avviato anch’essa un percorso di riconciliazione con Assad.

Non c’è dubbio che il Qatar sia stato il paese che ha investito maggiormente sull’opposizione armata in Siria, appoggiando e continuando ad appoggiare anche oggi organizzazioni terroriste. In questo modo, Doha intende mantenere la capacità di fare leva su Damasco per ottenere concessioni nel momento in cui una soluzione politica dovesse concretizzarsi. La testata on-line libanese The Cradle in una recente analisi ha poi individuato altri motivi per il comportamento del Qatar. Uno di questi è la presenza sul territorio dell’emirato della più grande base militare americana in Asia occidentale.

Un altro potrebbe essere l’evoluzione dei negoziati tra Siria e Turchia. Doha attenderebbe cioè sviluppi positivi in questo ambito, delegando il processo di normalizzazione ad Ankara. Fino a che i motivi di scontro tra i due paesi non saranno risolti, il Qatar non farà passi significativi per migliorare i rapporti con Assad. D’altro canto, spiega ancora The Cradle, potrebbe essere proprio il governo siriano a tenere a distanza il Qatar, sia per il ruolo di spicco che ha ricoperto nella guerra sia perché dal punto di vista strategico questo paese non ha il peso di potenze regionali come Arabia Saudita, Emirati Arabi o Turchia.

Il governo siriano considera d’altra parte il Qatar come uno dei principali istigatori del conflitto. L’anno scorso, infatti, il vice-ministro degli Esteri Bashar al-Jaafari aveva puntato pubblicamente il dito contro Doha, spiegando che una delle ragioni della guerra scatenata contro il proprio paese era stato il rifiuto da parte di Damasco di acconsentire al passaggio sul territorio siriano di un gasdotto che doveva collegare il Qatar alla Turchia per trasportare gas verso l’Europa, così da fare del piccolo emirato il primo fornitore del vecchio continente al posto della Russia.

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