In una recente comunicazione al Congresso, prevista per legge negli Stati Uniti, il presidente Trump ha per la prima volta deliberatamente omesso alcune informazioni cruciali sull’impiego dei soldati americani all’estero. La decisione conferma una tendenza allarmante dell’amministrazione repubblicana, impegnata in questi mesi nell’assegnare sempre maggiori poteri e discrezionalità ai militari nella conduzione degli affari internazionali.

 

 

Secondo il contenuto del War Powers Act del 1973, ogni sei mesi il presidente ha l’obbligo di notificare alla Camera dei Rappresentanti e al Senato di Washington le informazioni relative allo status delle forze armate americane dispiegate in scenari di combattimento. Trump ha elencato i paesi nei quali operano i militari USA, ma ha frequentemente tenuto nascosto il numero di essi, al contrario di quanto aveva fatto nella comunicazione al Congresso dello scorso mese di giugno. In particolare, i dati quantitativi riguardanti i conflitti in Afghanistan, Iraq e Siria sono spariti dal nuovo rapporto.

 

Secondo il Pentagono, la segretezza sarebbe dovuta alla necessità di bilanciare il dovere di informare il potere legislativo e il pubblico americano con l’imperativo di non fornire ai “nemici” alcun vantaggio strategico. In realtà, il motivo principale del riserbo sul numero di truppe inviate all’estero ha a che fare con il tentativo di dare meno informazioni possibili agli americani su guerre per le quali vi è poco o nessun sostegno popolare. Per la classe dirigente americana ciò è tanto più necessario vista la tendenza a scatenare nuovi e sempre più gravi conflitti - potenzialmente anche contro potenze nucleari - nell’illusione di arrestare il declino internazionale degli Stati Uniti.

 

La gravità della decisione di Trump di non rivelare il numero di soldati americani utilizzati all’estero appare evidente soprattutto se si considera che quest’ultima iniziativa si inserisce in un processo di continuo deterioramento del quadro teoricamente democratico previsto dalla legislazione americana per regolamentare la gestione di conflitti internazionali.

 

L’ultima violazione del War Powers Act da parte di Trump avviene cioè in una situazione nella quale questa legge è di fatto carta straccia. Essa era stata adottata durante la presidenza Nixon e con la guerra del Vietnam sullo sfondo. L’obiettivo era quello di limitare i poteri del presidente di dichiarare e condurre guerre senza l’approvazione del Congresso, come previsto invece dalla Costituzione.

 

In concreto, la legge consente l’impiego della forza militare a discrezione del presidente ma solo per un periodo massimo di 60 giorni, dopodiché è obbligatorio ottenere un mandato esplicito del Congresso. In assenza di esso, il presidente dovrebbe ritirare le truppe entro 90 giorni.

 

Se si pensa alle modalità con cui sono state condotte quasi tutte le guerre scatenate dagli Stati Uniti dopo la fine della Guerra Fredda, oggi le prescrizioni del War Powers Act risultano a dir poco risibili. Il potere esecutivo negli Stati Uniti, oltretutto in buona parte guidato dai militari, ha agito e continua infatti ad agire con totale discrezionalità e virtualmente senza controlli o vincoli.

 

Per quanto riguarda i conflitti ufficialmente riconducibili alla “guerra al terrore”, ad esempio, l’autorizzazione all’uso della forza, approvata dal Congresso dopo l’11 settembre 2001, è stata e continua a essere utilizzata in maniera distorta per giustificare qualsiasi intervento in un paese straniero, anche quando in esso non vi è traccia di al-Qaeda o operano organizzazioni ostili a quest’ultima.

 

In maniera apparentemente singolare, la mancata comunicazione al Congresso del numero di soldati americani utilizzati in combattimento arriva poco dopo che il dipartimento della Difesa aveva invece reso nota questa informazione per l’Afghanistan, l’Iraq e la Siria. Per tutti e tre i paesi vi erano tuttavia delle discrepanze o dati poco chiari che, assieme alla segretezza di Trump, indicano come la realtà sia probabilmente diversa da quella descritta dal Pentagono.

 

Particolarmente sospetta è la situazione relativa alla Siria. Fino a poche settimane fa il numero ufficiale di soldati americani impiegati illegalmente era di 500, ma ai primi di dicembre un portavoce del Pentagono nel corso di una conferenza stampa si era lasciato sfuggire la cifra di 4 mila. Subito dopo, i suoi superiori hanno corretto il tiro, fissando la cifra a 2 mila, comunque di molto superiore a quella precedentemente nota.

 

Un dettaglio importante della recente lettera al Congresso di Trump riguarda poi lo Yemen, dove il governo USA ha rivelato di avere un piccolo contingente di propri soldati. Questa ammissione da un lato conferma nuovamente come il ricorso alla forza militare da parte americana sia fuori dal controllo anche nominale del potere legislativo e dall’altro aggrava la complicità di Washington nella guerra criminale combattuta dal regime saudita nel più povero dei paesi arabi.

 

L’attitudine di Trump, emersa dalla comunicazione al Congresso, non è ad ogni modo inaspettata. Essa è la logica conseguenza di una strategia che, nel quadro di un progetto autoritario della gestione del potere, prevede l’assegnazione di incarichi politici sempre più importanti ai vertici militari. Questi ultimi, inoltre, hanno anche la facoltà di decidere dove e in che quantità impiegare le forze armate americane. Da sottolineare, infine, è l’estrema docilità dei rappresentanti del Congresso di fronte alla sottrazione da parte della Casa Bianca del loro potere costituzionale di dichiarare guerra e di controllare l’esecutivo in ambito militare.

 

L’unico sforzo dei membri democratici e repubblicani del Congresso in questi anni è stato in fin dei conti discutere l’opportunità di approvare una nuova autorizzazione all’uso della forza, di fatto inutile, che ratifichi una realtà bellica sulla quale il potere legislativo non ha alcuna influenza.

 

Che la notizia sull’inedita reticenza di Trump circa l’impiego della macchina da guerra americana abbia incontrato il silenzio dei politici democratici dell’opposizione e trovato pochissimo spazio sulla stampa d’oltreoceano, inclusa quella “liberal”, è comunque poco sorprendente. L’accelerazione del presidente repubblicano in questo ambito rappresenta d’altra parte soltanto un’evoluzione della condotta di Obama.

 

Il Partito Democratico e i media a esso allineati continuano a essere fissati con il presunto scandalo del “Russiagate”, inaugurato proprio dalla precedente amministrazione e i cui obiettivi non hanno nulla di democratico, essendo in sostanza legati alla preparazione di un conflitto armato con la seconda potenza nucleare del pianeta.

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