L’accordo sugli investimenti raggiunto il penultimo giorno dell’anno tra Cina e Unione Europea ha rappresentato una sorpresa particolarmente sgradita per il governo americano e, in particolare, per l’amministrazione entrante del presidente-eletto Joe Biden. L’intesa, che sembrava in pieno stallo appena un paio di mesi fa, potrebbe infatti aggravare le tensioni tra le due sponde dell’Atlantico proprio mentre l’uscita di scena di Trump prospettava a Washington la possibilità di costruire un fronte comune con gli alleati per contenere la minaccia cinese.

I negoziati erano in corso da parecchi anni, ma le differenze che apparivano quasi insormontabili sono state superate nell’arco di poche settimane soprattutto, secondo quanto riportato dai media, grazie all’impegno diretto del presidente cinese, Xi Jinping, e della cancelliera tedesca Merkel, con il pieno appoggio di Macron e della numero uno della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.

L’accordo dovrà essere ratificato dai singoli parlamenti dei paesi UE prima di entrare in vigore e, in tal caso, rafforzerà i legami economici tra Bruxelles e Pechino, spianando la strada a quello che sarà probabilmente il passo successivo, vale a dire un trattato di libero scambio. A dare la spinta decisiva sono stati due fattori. Il primo è il voto per le presidenziali USA dello scorso novembre e il successivo periodo di transizione tra le due amministrazioni, mentre l’altro è l’avvicinarsi della fine del semestre tedesco alla presidenza dell’Unione.

Quest’ultimo elemento ha messo in chiaro quale sia la posta in gioco per il governo di Berlino, ben deciso a far valere la propria autonomia strategica dagli Stati Uniti, in particolare riguardo alla promozione degli interessi del capitalismo tedesco, orientato sempre più verso il mercato cinese. L’autorità ulteriore garantita dalla leadership provvisoria dell’UE, assieme alla finestra temporale tra la sconfitta di Trump e l’insediamento di Biden, hanno dato, come spiegava qualche giorno fa un commento del francese Le Monde, una “opportunità unica” a una Germania convinta dalla pandemia della necessità “urgente di rafforzare la sovranità europea… nel pieno dello scontro tra Washington e Pechino”.

Proprio la concomitanza dell’accordo con la vittoria di Biden e l’impegno dell’ex vice-presidente democratico per rinsaldare le alleanze in Occidente, al fine di contrastare le spinte centrifughe e multipolari, testimonia della presenza di forze formidabili dentro la classe dirigente europea che spingono per l’implementazione di politiche “indipendenti” e potenzialmente in conflitto con gli Stati Uniti, al di là degli orientamenti dell’inquilino della Casa Bianca.

Queste dinamiche rispondono d’altra parte a fattori oggettivi e non dipendono solo dalle tendenze personali di Trump. Da Parigi a Berlino, i leader delle principali potenze economiche europee ritengono evidentemente che negli USA la strada del nazionalismo spinto difficilmente verrà abbandonata del tutto. La minaccia alla coesione della NATO, la guerra commerciale anche contro gli alleati e l’arma delle sanzioni economiche dirette verso paesi con cui Bruxelles non intende rompere (Cina, Russia, Iran) rischiano di restare a lungo in cima all’agenda di qualsiasi governo USA perché sono in definitiva una reazione alla declinante posizione internazionale di Washington.

L’accordo sugli investimenti è dunque in primo luogo una decisione politica da parte dell’Europa, il cui business intende però sfruttare le occasioni di profitto offerte dalla Cina, praticamente l’unica potenza economica mondiale in grado di far segnare tassi di crescita positivi per l’anno 2020. Secondo i termini concordati, le compagnie europee di svariati settori avranno accesso senza precedenti al mercato cinese, ad esempio senza l’obbligo di operare in regime di “joint venture” o di condividere tecnologie e proprietà intellettuale. Ancora, a livello teorico il governo di Pechino non potrà fare discriminazioni tra le aziende europee e quelle statali domestiche nell’assegnazione di appalti.

La Cina si impegna inoltre a rispettare i termini dell’accordo sul clima di Parigi e a ratificare le convenzioni internazionali contro il lavoro forzato. Questa promessa, già denunciata come improbabile dagli oppositori dell’intesa con l’UE, serve a limitare la valanga di accuse, in larga misura strumentali, relative alla presunta esistenza di campi di lavoro nella regione a maggioranza musulmana dello Xinjiang.

Da parte sua, la Cina otterrà più ampie possibilità di investimento in Europa, dal settore manifatturiero a quello energetico. Anche in questo caso, tuttavia, i benefici saranno soprattutto politici. È quasi unanime il giudizio degli osservatori sui vantaggi di natura geopolitica che deriveranno per Pechino. L’accordo del 30 dicembre e, ancora di più, un eventuale trattato di libero scambio con l’Europa implicano la rottura dell’isolamento in cui gli Stati Uniti intendono forzare la Cina, sia attraverso la guerra commerciale unilaterale di Trump sia, in prospettiva, con il compattamento del fronte occidentale auspicato da Biden.

Ampiamente citato dai media internazionali è stato nei giorni scorsi il commento all’accordo dell’analista Noah Barkin. Quest’ultimo lo ha definito uno “schiaffo” all’amministrazione democratica entrante, intenzionata a “riparare i legami transatlantici e a lavorare in sintonia con l’Europa per far fronte alle sfide strategiche” proposte da Pechino. La rapidità con cui l’accordo sugli investimenti è stato finalizzato nelle ultime settimane dell’anno indica precisamente il desiderio dei leader europei di mettere Biden davanti al fatto compiuto, anticipando le iniziative comuni che la sua amministrazione avrebbe adottato in funzione anti-cinese.

I tempi dell’accordo e la determinazione da parte europea sono ancora più sorprendenti, nonché altamente significativi, se si pensa che i futuri membri del gabinetto Biden avevano orchestrato una vera e propria campagna per impedire la stipula dell’accordo, puntando con ogni probabilità sugli ambienti più filo-americani da questa parte dell’Atlantico.

Il prossimo consigliere per la Sicurezza Nazionale USA, Jake Sullivan, era stato il più esplicito in questo senso. Il 22 dicembre aveva scritto su Twitter che “l’amministrazione Biden-Harris gradirebbe consultarsi precocemente con i propri partner europei in merito alle preoccupazioni comuni derivanti dalle pratiche economiche cinesi”. Sempre Sullivan, in una più recente intervista alla CNN, aveva inoltre espresso la volontà di superare le incomprensioni con gli alleati sorte durante la presidenza Trump, allo scopo di “creare un’agenda comune” sulle questioni legate ai problemi sollevati dalla minaccia di Pechino.

Manifestando tutta l’apprensione degli ambienti USA vicini al Partito Democratico, l’editorialista del Washington Post, Ishaan Tharoor, ha spiegato che l’annuncio dell’accordo sugli investimenti tra Cina e UE ha invece mostrato una “realtà differente”. La Merkel e Macron hanno cioè optato per una “’autonomia strategica” dell’Europa, con l’obiettivo addirittura di liberarsi dalla “protezione, durata oltre mezzo secolo, della Pax Americana”.

Il rimescolamento in atto, che potrebbe spiazzare da subito il nuovo governo americano, è sottolineato anche dal fatto che la Commissione Europea solo nel 2019 in un documento ufficiale aveva bollato la Cina come un “rivale strategico”. Non solo, quanto meno a livello potenziale, l’integrazione euro-asiatica, a cui strizza l’occhio il recente accordo tra Pechino e Bruxelles, potrebbe produrre effetti benefici anche per la Russia. Quest’ultimo paese è infatti sempre più uno snodo imprescindibile di queste dinamiche, soprattutto per via della partnership strategica costruita con la Cina.

La posizione dell’Europa non è ad ogni modo univoca sull’approccio alla Cina. Voci fermamente contrarie all’accordo si sono fatte sentire già a partire dalle ultime ore dell’anno. Le riserve più diffuse riguardano appunto l’opportunità di inviare un messaggio così ostile a Washington alla vigilia di un cambio della guardia alla Casa Bianca che dovrebbe favorire il ripristino di relazioni più distese tra USA e UE. L’argomento preferito per denunciare l’accordo con Pechino è stato poi quello della “democrazia” e dei “diritti umani”, in merito ai quali la Cina dovrebbe presumibilmente fare molto di più prima che l’Europa acconsenta a un accordo come quello appena sottoscritto.

Una delle speranze ostentate dalla stampa ufficiale cinese nei giorni scorsi è che l’accordo sugli investimenti con Bruxelles e un futuro trattato di libero scambio possano non solo evitare l’isolamento di Pechino, ma anche stabilizzare in qualche modo il capitalismo internazionale e consolidare le fondamenta della globalizzazione.

Le divisioni in Europa e la quasi certa risposta degli Stati Uniti a questi sviluppi fanno pensare piuttosto a un inasprimento delle tensioni internazionali, già alimentate dall’impatto della pandemia in corso. La questione più esplosiva e difficilmente risolvibile nel quadro attuale resta in definitiva l’integrazione pacifica di una Cina dal peso economico sempre maggiore in un sistema dominato da un’America in profonda crisi e non più in grado di conservare la propria posizione se non attraverso la forza e la minaccia militare.

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