di Fabrizio Casari

Cesare Prandelli ha messo il primo mattoncino su casa azzurri. Non sarà granito, ma per ora è sufficiente ad impedire un’altro cedimento strutturale. Una casa che dev’essere ricostruita dalle fondamenta, giacchè il disastro Lippi ha minato proprio dalle fondamenta credibilità, forza e persino la sorte che agli azzurri erano sempre risultate dote naturali; prova ne sia che gli azzurri non vincevano dal Novembre del 2009. Ci vorranno ora almeno cinque o sei partite prima che la nuova Italia trovi lo spartito giusto per suonare un’altra musica, ma l’importante, per ora, era non stonare e, comunque, specie a centrocampo, si sono visti sprazzi di gioco che fanno ben sperare. Prandelli deve avere il tempo e la serenità necessaria a lavorare, ma cominciare a fare punti quando i punti servono è comunque un buon inizio.

Intendiamoci, non è stata una passeggiata. Il carattere degli azzurri non é mancato, ma abbiamo rischiato seriamente di prenderle, perché la partita si era messa male quando, alla mezz'ora del primo tempo, l’Estonia aveva trovato un gol grazie ad un tiro (non irresistibile) di Vassiljev da 35 metri che Sirigu non ha trattenuto; sulla respinta, tapin vincente di Zenjov  e odore di guai che si diffonde nelle case degli italiani molto più che la Scavolini.

Vuoi l’incertezza di Sirigu (decisamente meglio puntare su Viviano, superiore anche a Marchetti), vuoi il fatto che gli Estoni hanno piedi marmorei ma polmoni d’acciaio, schemi banali, ma un’aggressività fisica ed una corsa che noi non conosciamo, i dilettanti di Tallin a momenti ce le suonano. Complice una difesa da registrare, infilata più di una volta in velocità e vittima di scarsa intesa tra i suoi componenti, l’Estonia ha avuto anche altre occasioni per incrementare il bottino.

Fortunatamente, il calcio si gioca anche con la tecnica e, se i piedi buoni sono italiani, non può che essere parziale il risultato che ci vedeva sotto di un gol alla fine del primo tempo. Nella ripresa, infatti, a ribaltare il risultato intervengono due invenzioni di chi la tecnica ce l’ha nelle dita dei piedi: Antonio Cassano. Fino a quel momento richiamato spesso da Prandelli causa scarso impegno nella copertura della sua zona, Fantantonio realizza il pareggio su calcio d’angolo battuto da Pirlo. Mentre la difesa estone si preoccupa di Chiellini e Pazzini, sbuca solo soletto il folletto barese che (udite, udite) insacca di testa.

L’Italia spingeva già dal rientro dagli spogliatoi, ma con scarsa qualità. Nel primo tempo le idee erano poche e confuse in mezzo al campo, poca la corsa utile sulle fasce e Pazzini decisamente contenuto dai centrali estoni. Ma, appunto, Fantantonio c’è: su un altro angolo, tirato basso e sul primo palo, il campione barese sfodera un colpo di tacco che elude le marcature e consegna il pallone a Bonucci che, davanti alla porta, non si fa sfuggire l’occasione.

Recuperare qualità, produrre gioco, cercare l’assetto giusto. Sono i pezzi che compongono il puzzle della nuova squadra di Prandelli. Aspettando di comprendere meglio la presunta utilità di Pepe o Molinaro (Balotelli è altro pianeta e Antonelli appare decisamente più indicato di Molinaro) In attesa di Balo e del miglior Pazzini, è comunque una squadra che ha capito quello che c’era da capire: Cassano è l’imprevedibilità, la genialità del tocco, la giocata che fa la differenza.

Va quindi incrementato e sostenuto il suo muoversi tra le linee con una squadra che sappia sostenere le invenzioni e accompagnarne le finalizzazioni. I muscoli servono nei contrasti: quando il pallone corre a terra serve invece chi lo sa calciare per poter fare la differenza. Vince chi schiera campioni che quando serve corrono, non campioni della corsa senza piedi nobili. Ad ogni modo, l’Italia di Lippi pare già un brutto ricordo. Il fatto poi che una vittoria che dovrebbe essere scontata ci appare come una buona notizia, è solo il segno dei tempi che ci tocca di vivere sul pianeta Eupalla.

di Fabrizio Casari

La giostra riparte. Ieri sera é cominciato il nuovo campionato e, per la prima volta negli ultimi due-tre anni, l’Inter non è necessariamente la favorita d’obbligo. Sarà l’anno della tessera del tifoso e delle telecamere negli spogliatoi; quindi poco calcio e molto contorno. Il primo colpo l’ha messo a segno il Genoa, andando a vincere a Udine, cosa non facile per nessuno, almeno fino all’anno scorso. Il gol di Mesto é bello, l'infortunio di Toni é brutto. L’esordiente Cesena pareggia sul campo della Roma e questo é un risultato in qualche modo sorprendente.

Vietato illudersi o deprimersi, però; le esordienti sono ossi duri da rodere per tutte le grandi nelle prime giornate di campionato. Oggi ci saranno le altre partite e domani sera il turno si chiuderà con Bologna-Inter. Ma nessun risultato, almeno per tutto settembre, dirà qualcosa d'importante, salvo raccontare la condizione atletica delle squadre candidate ai primi posti e la scoperta della squadra-rivelazione dell'anno.

Alcune caratteristiche, comunque, accompagnano questo 109esimo campionato italiano: siedono sulle panchine venti allenatori che non hanno mai vinto uno scudetto, mentre coloro che hanno vinto ripetutamente (i migliori della categoria) sono tutti emigrati all’estero. Da qui alla fine di giugno si disputeranno 380 partite, ce ne sarà abbastanza per annoiarsi. Soprattutto di polemiche. Per ora, comunque, le notizie più importanti riguardano la Supercoppa europea e il calciomercato.

Perché se il campionato è appena iniziato, è finito invece il sogno della sestina interista, vista la sconfitta nella Supercoppa europea. Difficile credere che quella vista a Montecarlo fosse l’Inter e difficile anche pensare che si riproporrà a livelli così scarsi. In novanta minuti d’inconsistenza tattica e soprattutto fisica (ma i due elementi non sono così indipendenti tra loro) i campioni d'Europa hanno perso l’appuntamento con il Grande Slam. Magari adesso Mourinho sarà certamente combattuto tra il dispiacere per la “sua” Inter e la soddisfazione per la caduta di Benitez, ma il fatto è che una preparazione atletica ancora a metà per la maggior parte dei giocatori dell’Inter, ha offerto una serata dove la squadra stellare, vista fino alla fine dello scorso campionato, è rientrata nei ranghi della normalità.

I primi segnali si erano già visti nella vittoria contro la Roma in Supercoppa italiana, dove però la squadra di Ranieri aveva giocato per 40 minuti, cedendo poi completamente il campo. Ma la difesa alta di Benitez aveva già messo nei guai due o tre volte la retroguardia interista, che tra le tante qualità non possiede la velocità, tranne che in Cordoba, che però non è titolare. E una difesa alta ha bisogno di due elementi: tattica del fuorigioco impeccabile e velocità di corsa dei difensori. Nessuno dei due appartiene all’Inter, soprattutto il secondo.

L’Inter di oggi appare una squadra certamente forte, ma non imbattibile. Il nuovo allenatore ci ha messo del suo, modificando sensibilmente l’assetto tattico costruito negli ultimi due anni. Due le mosse sbagliate: quella di sostituire Pandev (un attaccante di manovra) con Stankovic (un centrocampista) e l’incapacità di vedere la condizione fisica dei suoi giocatori (alla quale certo ha contribuito il Mondiale, ma la diversa metodologia della preparazione non sembra certo aver aiutato).

Il primo aspetto è puramente tattico: l’Inter di Mourinho aspettava gli avversari e li colpiva in contropiede, certo. Ma gli avversari non potevano mai attaccare in massa, così da rendere affannosa la difesa, perché la presenza di tre punte ed un trequartista interisti obbligavano centrocampo e difesa avversaria ad un atteggiamento prudente, per evitare proprio che il contropiede dell’Inter divenisse una fuga in campo aperto. La difesa nerazzurra, coperta da Cambiasso e Zanetti, difficilmente andava in inferiorità numerica.

L’altro elemento è certo la condizione fisica: l’Atletico è arrivato prima su ogni pallone e, cosa peggiore, ha mostrato una grinta nel pressing che i nerazzurri non hanno avuto. Eto’o e Snejider, come pure Milito, erano raddoppiati o triplicati regolarmente e all’Inter non c’era nessun’idea di cosa fare con il pallone. A tratti sembrava l’Inter di Simoni o di Cuper: lanci lunghi e vediamo che succede.

Fuori dai denti: Mourinho sarebbe entrato in campo e li avrebbe strangolati, Benitez si asciuga il sudore. L’Inter sentiva Mourinho come il capo di un esercito in guerra contro tutto e tutti, mentre Benitez appare come un ottimo tecnico, ma con scarsa capacità di ribaltare il campo. Perché la carica psicologica che trasmetteva lo Special One non è cibo che si trova nella dispensa di Benitez e perché, raggiunta la vetta, è difficile mantenere le motivazioni per rimanerci. Non fosse stato vero questo, lo Special One sarebbe ancora a Milano.

L’estate è passata tra il Mondiale e il mercato. Il primo è andato come doveva, il secondo no. E’ stato agitato, ma non straordinario. Inter e Roma sono quelle che si sono mosse di meno, Juventus, Genoa, Lazio e Napoli quelle che l’hanno fatto di più. Tutto da vedere che i movimenti siano stati azzeccati, ma questo è quanto è successo. I tifosi si sono illusi o delusi, i procuratori si sono divertiti e i giornalisti hanno scritto, parola più parola meno, quello che scrivono tutti gli anni. Come i giocatori che baciano la maglia ad agosto e scappano un anno dopo, che descrivono sempre il nuovo approdo come “un sogno” o “una scelta di vita”, dimenticandosi sempre di dire che è tutta una questione di soldi. Vanno dove li porta il procuratore.

La Juve ha comprato molto, ma nessun acquisto può essere definito straordinario, mentre Trezeguet, uno dei pochi che segnava comunque, è andato via. Il colpo più significativo l’ha messo a segno il Milan con l’ingaggio di Ibrahimovic, che cambia squadra ormai ogni anno. Un’operazione che desta alcune perplessità sul piano finanziario, perché se il prezzo dell’operazione é quello dichiarato - 24 milioni di Euro a partire dal prossimo anno - colloca il Barcellona nel club dei babbei, dal momento che l’attaccante era stato acquistato un anno fa per 55 milioni (più Eto’o) dall’Inter. E non si capisce come mai non sia andato al Manchester City degli sceicchi, guidato di Mancini, che era disposto a pagare almeno 12 milioni di Euro in più del Milan, stando alla stampa inglese.

Ma il Barcellona ha deciso comunque di venderlo al cavaliere e a prezzi di saldo estivo. Eppure l’asso svedese aveva segnato 30 gol in una stagione, quindi non si può certo parlare di difficoltà d’inserimento. Dunque, al momento, appare chiaro che Moratti (che l’aveva pagato 25 quattro anni prima, vincendoci tre scudetti) è un genio della finanza e Galliani pure, mentre Rosell ora e Laporta l’anno scorso, sono stati due bischeri. A meno che, prossimamente, alcuni dettagli rendano l’operazione meno opaca, questo è quanto si può dire ora.

L’acquisto del fuoriclasse svedese - questo l’augurio dei tifosi rossoneri - dovrebbe avere esito diverso dalle varie bufale dei pensionati dell’Inter quali Vieri e Ronaldo, in ultimo Favalli o dello stesso Ronaldinho, che ha avuto sorte appena migliore solo di quella di altre bufale brasiliane. Ma Ibra cambierà drasticamente il modo di giocare della squadra di Allegri, che mantiene comunque i suoi annosi problemi sia in difesa che a centrocampo, oltre all’incognita dello stesso allenatore. Ad ogni modo, il club di via Turati appare ora alla pari dell’Inter. Il rischio è che il campionato sia un derby di Milano lungo quaranta domeniche.

La Roma, che ha comunque un ottimo tecnico e un gioco a memoria, non pare però attrezzata a competere su tre fronti. Organico ridotto e malandato; Burdisso è arrivato allo stesso prezzo con il quale lo si poteva prendere un mese prima e Adriano e Simplicio non basteranno a dare il valore aggiunto di cui ha bisogno per ridurre il gap con l’Inter. Che poi nella capitale i giornali e le radio dicano il contrario, è cosa ascrivibile al marketing e all’abitudine.

 

di Fabrizio Casari

Doveva essere il mondiale della nuova Argentina di Maradona, che diceva di voler assaporare, nella gioia del trionfo, una gioia parimenti grande: quella di stringere la mano a Nelson Mandela, uomo simbolo del nuovo Sudafrica, icona della libertà e della giustizia a qualunque latitudine. Magari Mandela riuscirà anche ad incontrarlo, Maradona, ma se ciò avverrà, sarà in veste privata. L’Argentina, infatti, è stata umiliata, più che battuta, da una Germania che, per tutta la partita, ha impartito lezioni di gioco e carattere ai giocatori della Seleciòn. Che è sembrata priva di gioco e di ordine in campo, che copriva male e con affanno. Reparti distanti tra loro e totale assenza sia di schemi che di fantasia. Due elementi, questi ultimi, la cui responsabilità è tutta intera di Maradona.

Lezione numero uno: un fuoriclasse assoluto in campo, non coinciderà necessariamente con uno straordinario tecnico. Il Ct argentino, del resto, ha scelto come un Lippi qualunque, portandosi in Sudafrica un blocco di giocatori che già avevano stentato nella fase eliminatoria precedente il torneo, riuscendo ad arrivare in Sudafrica solo in maniera rocambolesca. E, come Lippi (ma Maradona ci perdonerà per l’accostamento poco carino) ha scientemente stabilito che i giocatori migliori (e più in forma) avrebbero dovuto rimanere a casa o in panchina, per fare posto ad un gruppo di fedelissimi che, alla prova dei fatti, sono risultati soprattutto fedeli ai propri limiti. Chi semina vento raccoglie tempesta, dice un proverbio, e così è stato.

Lasciare a casa Esteban Cambiasso e Javier Zanetti, per schierare Otamendi e Mascherano (l’Inter farebbe bene a pensarci cento volte prima d’investire decine di milioni per acquistare el jefecito) è una bestemmia al dio Eupalla. E tenere in panchina Samuel e Milito, per schierare l’ingessato De Michelis e l’evanescente Higuain è persino peggio. E’ così che si prendono quattro gol e non se ne segna nemmeno uno. Persino Veron, che visti i limiti d’età era sembrato un’azzardo per un torneo dove si gioca ogni 4 giorni, ha visto la gara dalla panchina. D’accordo: la sua presenza rallenta il gioco, ma è anche indiscutibile che l’illumina.

E visto che la velocità non è certo garantita da Mascherano o Rodriguez, tanto valeva inserire Veron: la brujita almeno è uomo di geometrie e precisione, è giocatore capace di ribaltare il campo con tocchi di prima e lanci al millimetro di 40-50 metri, determinante per innescare punte veloci.

Particolarmente deludente Messi, che dimostra come anche uno splendido solista resti con le polveri bagnate quando la squadra intorno a lui non gira. Messaggio chiaro quello pervenuto ieri dal Sudafrica: Messi non é Maradona e Maradona non è Mourinho. Peccato: el pibe de oro ci è simpatico assai. Siamo certi che farà tesoro dell’esperienza.

La Spagna riesce ad avere la meglio sul Paraguay (che ha giocato uno straordinario mondiale) solo con il rotto della cuffia e solo grazie al suo straordinario Villa, uno da cui non puoi mai aspettarti da dove segnerà, ma solo che, comunque, lo farà. Con el nino Torres decisamente ai margini, Villa e Iniesta sono il valore aggiunto sufficiente degli iberici, almeno per ora.

Ma la Germania di Loew e l’Olanda di Snejider e Robben sembrano di ben altro livello. L’Uruguay di Tabarez, pure ottima squadra, non pare essere in grado di fermare gli arancioni e i teutonici, guidati da Schweinsteiger e Ozil, con un Klose che non sembra accusare l’età, sembra capace, con la sua velocità e la sua tecnica, di mandare al tappeto le Furie Rosse. Visti i valori in campo, sarebbe lecito attendersi una finale tra Olanda e Germania. Un finale diverso sarebbe solo golosità da scommettitori arditi.

 

di Fabrizio Casari

I primi verdetti del mondiale sudafricano sembrano voler raccontare di un calcio diverso da quello che tutti immaginavamo. Eurocentrici e narcisi forse, convinti del livello assoluto del calcio continentale certamente, commentatori, tifosi e scommettitori europei erano persuasi di un andamento del torneo dove le nazionali del vecchio continente avrebbero recitato la parte del leone.

Inghilterra, Spagna, Germania, Portogallo, Francia e Italia erano infatti ritenute le squadre più attrezzate per arrivare fino in fondo. Si offrivano possibilità al Brasile, unica tra le squadre latinoamericane. E, se non altro per statistica, si riteneva che alcune squadre africane avrebbero recitato un ruolo di primo piano. E invece no.

L’accesso ai quarti di finale racconta di un blocco che rappresenta un pezzo di un continente cui non erano state assegnate grandi possibilità. Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay (e il Cile appena uscito) sono il Cono Sur del continente latinoamericano. Affamati di vittorie e ricche di talento, sono squadre che giocano un bel calcio, che non propongono fuochi d’artificio in alternanza a errori marchiani, come tradizione vorrebbe. Giocano un calcio tattico, sono squadre che coprono bene ogni zona del campo, difficili da affrontare e da perforare. Muscolari e tecnici, veloci. Cedono terreno alla classe dell’avversario solo quando il fiato diventa corto e l’acido lattico s’impossessa dei muscoli. Sono i rappresentanti di un calcio che era sì ritenuto di grandi tradizioni, ma solo avendo a memoria gli anni ’50.

Vanno invece a casa i miliardari del calcio, con annessi i supercampioni che avrebbero dovuto far brillare le loro squadre nella vetrina più prestigiosa della chiesa pallonare. E sulla ribalta arriva il Paraguay di Santa Cruz: ordinato, veloce, aggressivo e anche un po’ fortunato.

Ad eccezione dell’Olanda di Snejider e Robben, che sta addirittura superando le attese, le delusioni abbondano. La Francia di Henry e Benzema e, soprattutto, di Domenech, ha ricevuto la giusta moneta per l’accesso al mondiale con irregolarità di gioco e scorrettezza successiva nel non ammetterlo. Con una truffa fecero fuori l’Irlanda del Trap che avrebbe avuto diritto ad un verdetto equo. Dell’Italia meglio non parlare: aveva quote di successo solo oltreconfine, nel Paese erano pochi a nutrire speranze. Ad ogni modo aveva quotazioni di squadra, più che altro per tradizione e per essere campioni in carica, ma di fuoriclasse non li proponeva.

Chi presentava fuoriclasse erano altri. I Rooney, i Torres, i Cristiano Ronaldo, i Messi e i Tevez erano le stelle attese, giacchè Eto’o e Drogba, per quanto straordinari, non potevano, soli, invertire l’inadeguatezza delle loro rispettive nazionali. E allora?

Rooney, Gerrard e Lampard, che agli ordini di Capello avrebbero dovuto impressionare tutti, visti anche i risultati della fase preparatoria, sono arrivati bolliti e hanno confermato come il tecnico di Pieris sia un perdente di successo. Adatto alle lunghe traversate, ma non ai tornei brevi dove si vince o si va a casa.

Cristiano Ronaldo è l’unica vera stella del suo Portogallo, giacche Veloso, Simao e gli altri sono solo buoni giocatori. Ma proprio lui, il principe del gossip pallonaro, indiscusso talento delle veline e capace di ogni prodezza in campo, è arrivato fuori forma ed inutile.

Di Fernando Torres non si hanno notizie fino ad ora, anche causa infortunio grave dal quale è rientrato da poco. Ma la sua Spagna va. Una squadra completa, forte in tutti i reparti, dalla porta al delantero, non sembra avere punti deboli e, fino ad ora, gli manca solo il suo bomber. Messi e Tevez, invece, agli ordini di Maradona, stanno facendo buona parte di quello che ci si attendeva.

Il Brasile di Maicon e Julio Cesar, di Lucio e Luis Fabiano, è ancora in attesa di Kakà, ma Dunga sa come mettere in campo i verde-oro, che sembrano aver rimesso lo champagne in frigo ed aver fatto incetta di acqua tonica.

Ora i quarti, poi le semifinali e quindi le finali. Il mondiale non è ancora finito, solo gli ultimi che si sognavano primi sono andati a casa.

 

 

 

di Fabrizio Casari

E’ finita com'era inevitabile, viste le premesse. L’Italia è fuori dal mondiale sudafricano. Anche l’ultima partita, quella decisiva per il passaggio  agli ottavi, ha mostrato tutta l’insipienza di una squadra costruita sull’arroganza e la presunzione del proprio allenatore.La Slovacchia, non certo uno spauracchio calcistico, ha giocato la sua onesta partita limitandosi a proporre le uniche armi che aveva a disposizione: la forza fisica e la velocità. Arrivavano prima su ogni pallone e non temevano i contrasti. Tanto è bastato per rifilarci tre gol e mandarci in albergo a fare le valigie. Non li avevano mai fatti a nessuno tre gol, forse nemmeno in allenamento. Siamo noi a dargli questa gioia. Il girone più semplice del torneo ci vede ultimi.

D’altra parte il valore assoluto degli azzurri era già emerso sia nelle amichevoli che hanno preceduto il torneo, sia nelle due precedenti partite con Paraguay e Nuova Zelanda, non certo scuole calcistiche di primo livello. La squadra di Lippi non ha mai mostrato un gioco, un’idea di calcio, una qualità singola e corale. La difesa sembra la banda del buco e solo grazie all’imprecisione slovacca non abbiamo subìto un passivo umiliante.

Sui gol Marchetti può fare poco, ma anche quel poco non lo fa. Su quattro conclusioni verso la nostra porta, tre diventano gol. Ad eccezione di Pirlo, entrato nel secondo tempo, che ha provato a ridare un minimo d’ordine e di geometrie, quella vista contro la Slovacchia è stata una squadra non in grado di costruire una filiera di almeno tre passaggi, meno che mai, quindi, di garantire il possesso palla necessario per far correre gli avversari e scardinarne l’assetto. Privi d’idee e privi anche di piedi buoni, raramente qualcuno arriva in zona tiro. Incapace di verticalizzare e di svariare sulle fasce, incapace anche di tenere le distanze tra i reparti, l’Italia ha sfornato un campionario di lanci lunghi quanto imprecisi ma, soprattutto, priva di brillantezza: si è rivelata priva di energie fisiche e con solo quelle nervose - che pure ha mostrato insieme alla voglia di provarci - non si va lontano.

Il Sudafrica ha certamente denunciato i limiti degli azzurri. Cannavaro è stato forse il peggiore di tutto il mondiale e Marchetti, Criscito, Iaquinta, Pepe, Maggio, Marchisio, Di Natale e Gilardino non sono apparsi in grado di proporsi su scenari diversi dal campionato italiano, mentre De Rossi, Chiellini, Zambrotta, Quagliarella e Montolivo non sono stati all’altezza delle aspettative. Ma sbaglierebbe chi volesse infilare l’intero movimento calcistico italiano in questa nuova Corea. La responsabilità di quest’assemblaggio - perché di questo si parla quando si mettono in campo giocatori senza un gioco - è interamente di Marcello Lippi e dei dirigenti della Federazione.

Il primo ha mostrato, con la consueta arroganza e superbia, il disprezzo verso le indicazioni che il campionato forniva. Ha lasciato a casa la maggior parte dei giocatori italiani che più avevano dato prova di qualità durante la stagione appena conclusa, mettendo invece in campo giocatori come Iaquinta che ha giocato un mese in tutto il campionato e Gilardino, che non segna un gol da 4 mesi, quale che sia la maglia che indossa.

Sono rimasti a casa tutti i giocatori che avrebbero potuto dare un volto completamente diverso alle partite. Niente Totti, Cassano, Balotelli, Thiago Motta, Perrotta, e infortunati Ranocchia e Santon, in Sudafrica sono andati quelli che Lippi ha voluto non per valore, ma per fedeltà a lui e al clan che ha governato lo spogliatoio. Sono così rimasti a casa quelli che non sono simpatici (preferiamo limitarci a questo) all’allenatore, che ha ritenuto di disporre della nazionale di calcio come fosse un suo bene privato.

La Federazione, invece, con l’inutile Abete, non ha ritenuto durante i mesi passati, quando Lippi dava mostra di tutta la sua arroganza ribadendo che avrebbe portato solo quelli che voleva lui, di fermarlo e richiamarlo ad una maggiore condivisione nelle scelte. La Federazione ha avallato scelte, comportamenti e polemiche del Ct, che ora, quattro anni dopo il trionfo di Berlino, ritrova la sua dimensione. Che lo fece vincere nella Juve della triade e lo vide fallire nell’Inter di Moratti, per motivi identici, probabilmente.

Un allenatore che ha usato la nazionale come un taxi, scendendovi e salendoci a piacimento e che ha distribuito fastidio e insofferenza per ogni opinione che non fosse l’estratto dei suoi desideri, che ha atteso per un anno la naturalizzazione di un Amauri impresentabile per ignorare invece gli oriundi di livello. Nelle dichiarazioni del post-pertita Lippi si è assunto le sue responsabilità, ma davvero nessuno pensava che fossero di qualcun altro. Per la prima volta, l’Italia esce da un mondiale senza aver vinto nemmeno una partita. Da oggi, il sinonimo di fallimento del calcio italiano non sarà più la Corea di Fabbri, ma la Slovacchia di Lippi.

Ora tocca a Prandelli. Dovrà costruire un gruppo di giovani miscelandolo con quelli come Pirlo, De Rossi, forse ancora Buffon, Pazzini e Quagliarella che ancora possono dire e dare molto ai colori azzurri. Gli innesti dei giovani, da Ranocchia a Santon, da Bonucci a Balotelli, con l’affiancamento di Thiago Motta e Cassano, saranno i primi, obbligati passi per avvicinarci agli europei. Due anni sono sufficienti per costruire anima e corpo di una squadra in grado di dire la sua sui campi. Auguri.


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