Un saluto non deve essere necessariamente un addio, ma quello di ieri di Francesco Totti al pubblico romanista e di questi al suo idolo assoluto, è stato davvero un addio, il rimando alle stelle di una storia d’amore che non potrà più essere scritta sull’erba. Perché non sarà semplice vederlo dietro una scrivania o a bordo campo e lui stesso, infatti, appare ancora incerto sul cammino da intraprendere. Lo farà solo dopo aver elaborato il lutto di una fine che non avrebbe voluto vedere mai. Totti era il campo e solo il campo. A inventare, a deliziare occhi e a strappare applausi per quel modo spontaneo e strafottente, elegante ma irriverente, di giocare al calcio.



Talento purissimo, classe cristallina, Totti è stato il giocatore di calcio più importante della storia ultra centenaria della Roma, che ha visto buoni giocatori e anche grandi campioni, ma solo lui è stato il suo fuoriclasse assoluto. Più di mezzo secolo con una maglia che è stata, in realtà, una seconda pelle. Romano e romanista, simbolo vivente della “romanità”, ovvero di quel modo di essere sfrontato, scanzonato e sopra le righe; quel paradosso, quell’iperbole di una città che, comunque la si giudichi, non ha eguali al mondo. E Totti, il ragazzo di Porta Metronia, è stato molto più di un giocatore. E’ stato appunto un simbolo, un’icona, una rappresentazione di un modo di essere carico di tutte le idiosincrasie romane, che in Totti si sono riverberate, nel bene e nel male, come uno specchio d’acqua.

Più di 70.000 spettatori sono accorsi ieri a riempire ogni spazio di uno stadio che è divenuto per un tempo cattedrale. Sono andati per lui, il piazzamento della squadra non interessava nessuno. Sono andati a dare il loro ultimo applauso al loro idolo, a un giocatore arrivato ragazzo e fattosi uomo vittoria dopo vittoria, sconfitta dopo sconfitta, illusione dopo illusione e delusione dopo delusione.

Non ha vinto molto Totti, nemmeno una minima parte di quello che il suo talento calcistico, la sua classe purissima avrebbero potuto permettergli. I tifosi della Roma ricordano che sarebbe potuto andare a vincere in piazze dove il profumo della vittoria è facile da intercettare, ma ha scelto di rimanere a Roma per amore. C’è anche però chi sostiene che Roma era l’unico luogo al mondo in cui Totti era Totti e che nessun’altra piazza lo avrebbe visto sul podio dell’assoluto, icona della devozione totale di un pubblico che ha nel tifo un religione, un certificato di appartenenza che prescinde dal calcio.

Sono molte le bandiere del calcio che hanno addolorato con il loro addio: da Zanetti dell’Inter a Maldini del Milan, da Antognoni della Fiorentina a Del Piero della Juventus. Ma costoro hanno rappresentato le vicende delle loro squadre, mentre Totti ha rappresentato una città. Ne ha costruito una mistica che prescindeva dai risultati sul campo. Per questo le lacrime di ieri che sapevano della fine di una storia irripetibile a qualunque latitudine.

Perché da 25 anni a questa parte la squadra della Roma era composta da Totti più altri dieci. Giocatori, allenatori, presidenti: adesso tutto potrà e dovrà cambiare, ma senza Totti sembrerà di giocare senza la bandiera, senza i colori, senza quella rassegnazione atavica che grazie al suo fuoriclasse aveva imparato a trasformarsi in un atteggiamento gladiatorio, ai limiti dell’arroganza calcistica anche nelle sue cadute.

La catarsi dell’Olimpico è piombata sul calcio rendendo anche l’esito del campionato un dettaglio rispetto all’emozione di un addio che ha riempito di lacrime curve e tribune, tutti consapevoli che da domani la Roma sarà altra cosa.

Da domani, infatti, la Roma sarà una squadra di calcio. Particolare, con un tifo appassionato, esagerato com’è nella sua natura, ma diversa dalla Roma di Totti. E quella catarsi collettiva di ieri racconta soprattutto la paura di diventare normali in una città che, in più di duemila anni, alla normalità ha sempre fatto spallucce.

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