A bocce ferme, in attesa della ripresa del campionato, si possono fare alcune considerazioni sullo stato di salute della nazionale italiana. Ma quale riscatto, ma quale prova d'orgoglio? Le prime due sfide in Nations League dimostrano che ha ragione la Fifa con il suo ranking: l'Italia non è nemmeno fra le prime 20 nazionali al mondo.

 

Mai in basso come oggi. Il pareggio di venerdì scorso contro la Polonia (1-1) e la successiva sconfitta in Portogallo (0-1) raccontano la storia di una squadra senza fantasia, senza corsa, senza organizzazione, senza nemmeno una vaga idea di gioco. In due parole: senza talento.

 

 

A parte i senatori Bonucci, Chiellini e (in parte) Criscito, fra i tanti bravi ragazzi convocati da Mancini non c'è un singolo giocatore di livello internazionale. Nessuno che abbia una consolidata esperienza in Champions League, nessuno che sia abituato a giocare partite importanti fuori dall'Italia.

 

La selezione azzurra è composta principalmente da giovani di belle speranze che ormai tanto giovani non sono più e le cui speranze si sono rivelate velleità. Per dire: Gagliardini è stato escluso dalla lista Champions dell'Inter e Spinazzola non ha giocato un solo minuto in questa stagione con la maglia del Chelsea, ma entrambi venerdì sono rimasti in campo per 90 minuti.

 

In questo senso, la Nazionale è un’illustrazione delle due malattie che affliggono il calcio italiano. Innanzitutto, lo strapotere dei procuratori, che porta a valutare oltre ogni ragionevolezza i calciatori italiani. Davvero due anni fa Belotti valeva 100 milioni, visto che oggi il suo cartellino arriva forse a un terzo di quella cifra? Ha senso pagare 5 milioni di stipendio a Donnarumma? Sul serio la Roma ha fatto un affare a sborsare 30 milioni per Cristante? Non sarà un po’ da provinciali considerare Chiesa Jr un fuoriclasse in erba per un paio di giocate riuscite?

 

L’altra malattia è quella delle scuole calcio. Accecati dalla stella polare del 4-2-3-1, gli allenatori italiani hanno smesso di insegnare ai ragazzi i mestieri del mediano, dell’ala e della prima punta. Da qualche anno sono tutte mezzali e trequartisti. Risultato: non c’è più nessuno che sappia impostare giocando davanti alla difesa e nessuno il cui mestiere sia buttarla dentro. Per non parlare del dribbling, del guizzo, dell’estro estemporaneo: sembra che tentare l’uno contro uno sia diventato un peccato mortale. E in nome di cosa? Di un iper-tatticismo che avrebbe però bisogno di grande tecnic individuale o da corridori da provincia che va bene per l’Atalanta, ma sulla scena internazionale si trasforma in un motore ingolfato. 

 

Ha ragione Mancini quando si duole di pochi italiani nelle squadre di vertice del campionato, anche se avrebbe dovuto ricordare come la sua ultima avventura vincente, con l’Inter, sia stata realizzata con una squadra nella quale solo Toldo e Materazzi avevano natali italiani. E d’altra parte risulta difficile criticare i club per la mancanza di coraggio nel proporre i ragazzi italiani, visto che i loro procuratori esigono cifre decisamente fuori mercato a fronte di ipotesi di crescita tutte da verificare. Per capirci: se Belotti vale 100 milioni, quanto dovrebbe costare un centravanti europeo che ogni anno va in doppia cifra?

 

La verità è che la pochezza tecnica delle nostre scuole calcio e la messe di media di ogni tipo che amplificano virtù, trasformano i brocchi in buoni, i buoni in campioni e i campioni in fuoriclasse per compiacere la filiera del commercio di piedi, l’esame del campo racconta ben altra storia. La Nazionale che è uscita dal mondiale non è stato un incidente di percorso, bensì la logica conseguenza di quel che siamo. Ovvero una Nazionale dove 10/11 non sarebbero titolari in nessuna delle prime 10 squadre d’Europa.

 

Tornando agli azzurri di questi due match, un discorso a sé lo merita Jorginho. Faro del centrocampo di Sarri prima a Napoli e poi a Londra, l'italo-brasiliano è irriconoscibile in maglia azzurra. I compagni lo servono in continuazione perché là in mezzo è l'unico con i piedi per impostare e verticalizzare, ma lui sbaglia tantissimo e quasi mai riesce a raggiungere compagni più lontani di tre metri. Gli avversari sanno che basta marcare lui per spegnere la luce in casa Italia e lo marcano a uomo. I compagni non lo proteggono (sarebbe stato il mestiere di Parolo, ma Mancini non lo ha convocato). Al suo fianco non ci sono mastini come Allan o Kanté, ma ectoplasmi come Bonaventura o Gagliardini. Risultato: si fa prima a contare le ripartenze riuscite di quelle abortite sul nascere per errori in palleggio, tragicamente più numerose.

 

Con queste premesse, portare la palla davanti è un'impresa. Anche perché gli attaccanti o non si muovono (vedi Balotelli) o si muovono male, a vuoto o perennemente in fuorigioco (vedi Zaza e Immobile). E a parte il rigore trasformato da Jorginho contro la Polonia, in due partite non abbiamo creato nessuna vera occasione da gol.

 

Quanto a Chiesa, sola nota positiva della partita di venerdì, c'è una voragine fra il suo rendimento quando entra in campo nella ripresa - con il suo scatto da fermo che dà una vera scossa - e quando parte da titolare. In campo dal primo minuto contro il Portogallo, il figlio di Enrico ha sbagliato tanto e non è mai riuscito a penetrare le linee avversarie.

 

A sentire i commentatori Rai, sembra che il problema più grave per gli azzurri sia l'ormai quasi certa retrocessione in serie B della Nations League. Ma il vero guaio è che, a giudicare da questi primi segnali, la rifondazione invocata da tutti non è mai iniziata.

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