di Mario Lombardo

L’offensiva interna ai Laburisti britannici per colpire e costringere alle dimissioni il segretario, Jeremy Corbyn, ha ripreso vigore da qualche giorno a questa parte in seguito alla clamorosa sconfitta in un’elezione speciale per un seggio al Parlamento di Londra in un distretto considerato una roccaforte del partito.

Le manovre della destra del “Labour” sono state finalmente denunciate da uno degli storici alleati di Corbyn, il “cancelliere-ombra” John McDonnell, in un articolo apparso nel fine settimana sul sito web Labour Briefing. In questo sfogo, McDonnell ha parlato apertamente di un “golpe soft” in atto nei confronti del numero uno del partito, condotto da elementi interni e “dall’impero mediatico di [Rupert] Murdoch”.

Questa campagna anti-Corbyn sta andando in scena “dietro le quinte”, dal momento che i precedenti tentativi di attaccare direttamente e pubblicamente il leader Laburista si sono risolti in un boomerang. Infatti, l’opposizione interna a Corbyn è rappresentata da una galassia di parlamentari ed esponenti locali del partito legati in gran parte a Tony Blair e al cosiddetto “New Labour”, ovvero a un ex leader e a un progetto che suscitano ormai una profonda ostilità.

McDonnell ha affermato che il metodo preferito dai golpisti dentro al “Labour” è quello di generare una copertura mediatica sfavorevole a Jeremy Corbyn, distorcendo spesso le notizie relative a quest’ultimo in modo da dipingerlo come un leader debole alla guida di un partito lacerato dalle divisioni. Il Times e il Sun sarebbero in prima linea nella battaglia in corso contro Corbyn ed entrambe le testate sembra abbiano beneficiato di fughe di notizie tendenziose provenienti dagli oppositori del numero uno del partito.

L’articolo di McDonnell, con ogni probabilità concordato con lo stesso Corbyn, è apparso decisamente insolito, visto l’atteggiamento fin troppo conciliante che ha sempre caratterizzato le risposte del segretario e dei suoi fedelissimi alle iniziative dei complottisti nel partito.

Per questa ragione, non è stata una sorpresa la relativa marcia indietro fatta da un portavoce di John McDonnell il giorno dopo la pubblicazione on-line dell’articolo. Il commento sarebbe stato cioè scritto più di una settimana prima come reazione a un intervento di Tony Blair diretto contro la leadership di Corbyn e, presumibilmente, non rappresentava il pensiero più recente di McDonnell. Alla parziale rettifica delle tesi sostenute sul sito Labour Briefing si è accompagnato inoltre il solito patetico appello all’unità del partito.

La nuova occasione sfruttata dalla destra Laburista per attaccare Corbyn era giunta dopo il voto, tenuto in due distretti elettorali, per la sostituzione di altrettanti deputati del partito che avevano deciso di dimettersi. Sia a Copeland, nella contea di Cumbria, che a Stoke-on-Trent, nello Staffordshire, il “Labour” aveva dominato per decenni, ma in molti davano i suoi candidati in serio pericolo.

A Stoke, tuttavia, i Laburisti sono riusciti a conservare il proprio seggio, distanziando il candidato di estrema destra del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP) di oltre 12 punti percentuali nonostante un certo calo dei consensi. A Copeland, invece, il successo è andato ai Conservatori, con il “Labour” che si è fermato al secondo posto.

Qui, i Laburisti hanno arrestato l’avanzata dell’UKIP, accreditato da molti alla vigilia come favorito per la conquista di un seggio in Parlamento, poiché il referendum sulla “Brexit” dello scorso anno aveva fatto segnare numeri altissimi a favore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Il seggio di Copeland era stato occupato però da un esponente Laburista fin dal 1950, così che la sconfitta è stata subito seguita da una valanga di polemiche nei confronti di Corbyn.

Contro lo stesso leader si sono scagliati gli oppositori interni anche in seguito alla sua decisione di non partecipare alla riunione settimanale dei membri del Parlamento Laburisti subito dopo il voto. Uno di questi ultimi, in una dichiarazione rilasciata al quotidiano The Independent, ha addirittura definito l’assenza di Corbyn come un atto di “totale negligenza” nei confronti del partito.

Corbyn, da parte sua, aveva parlato in precedenza nel corso di una conferenza del Partito Laburista scozzese, accettando la sua parte di responsabilità nella sconfitta a Copeland, mentre si era scusato con i parlamentari del partito per l’impossibilità di partecipare a una riunione che, peraltro, non lo vede presente tutte le settimane.

La leadership Laburista ha dovuto anche smentire pseudo-rivelazioni di alcuni giornali britannici che avevano dato Corbyn sull’orlo delle dimissioni dopo la sconfitta elettorale di settimana scorsa. Svariate testate, sia schierate a destra, come ad esempio il Daily Telegraph, che a “sinistra”, come il Guardian, hanno poi pubblicato commenti nei quali si invitava Corbyn a prendere atto della sua gestione fallimentare e, quindi, a farsi da parte il prima possibile.

A partire dalla sua elezione a leader dei Laburisti nel 2015, Jeremy Corbyn è stato al centro di attacchi e trame golpiste che hanno visto protagonisti gli esponenti della destra interna, in maggioranza nel partito ma profondamente impopolari tra l’elettorato di riferimento.

Le centinaia di miglia di iscritti e simpatizzanti che avevano appoggiato la candidatura di Corbyn erano stati attratti dalla sua agenda nominalmente progressista, lontana anni luce – quanto meno a livello ufficiale – dalla direzione neo-liberista data al partito dalla gestione Blair.

Dopo il voto sulla “Brexit”, Corbyn era stato poi accusato di non essersi impegnato abbastanza per la permanenza di Londra nell’UE e l’esito del referendum era stato sfruttato ancora una volta dai suoi oppositori interni per spingerlo alle dimissioni. Corbyn aveva però resistito e la nuova consultazione per la leadership Laburista nel 2016 aveva restituito lo stesso risultato dell’anno precedente. Anzi, Corbyn aveva raccolto una percentuale di consensi ancora maggiore rispetto alla prima elezione, a conferma dell’ostilità popolare verso la destra Laburista e le trame golpiste dei suoi esponenti.

Le tensioni interne al “Labour” e la continua situazione precaria della leadership sono però dovute in buona parte proprio allo stesso Corbyn e a un atteggiamento eccessivamente accomodante che ha finito per incoraggiare gli attacchi nei suoi confronti.

Di fronte a un’offensiva durissima, condotta con l’appoggio dei principali media britannici, Corbyn e i suoi uomini hanno continuato a manifestare aperture alla destra “blairita”, mettendo l’unità del partito davanti alla volontà dei propri elettori e al perseguimento di politiche anche solo moderatamente progressiste.

Lo scontro interno alla classe dirigente d’oltremanica sulla “Brexit” e i termini dell’uscita dall’Unione Europea hanno poi ulteriormente inasprito la battaglia nel “Labour”, così che l’opposizione anti-Corbyn ha moltiplicato gli sforzi per operare un cambio ai vertici del partito con ogni mezzo.

La sconfitta dei Laburisti nell’elezione speciale della settimana scorsa ha infine consolidato la determinazione dei golpisti, disposti anche ad affondare il proprio partito, e favorire ancor più l’ascesa dell’estrema destra, pur di evitare che quest’ultimo possa tornare a rappresentare anche solo l’illusione di una formazione politica aperta agli interessi dei lavoratori e della classe media britannica.

di Michele Paris

Nel fine settimana appena trascorso, il Partito Democratico americano ha scelto come nuovo segretario il candidato dell’establishment ufficiale, appoggiato dal clan Clinton e dalla maggior parte dei membri dell’amministrazione dell’ex presidente Obama. L’elezione di Thomas Perez è stata probabilmente la più combattuta nella storia del Comitato Nazionale Democratico (DNC) e ha confermato sia le tensioni nel partito dopo l’umiliante sconfitta nelle presidenziali di novembre sia l’impossibilità di riformarlo dall’interno in una direzione anche solo vagamente progressista.

Per molti “liberal” americani, il successo relativamente di misura di Perez è stata una sorpresa negativa, viste le aspettative riposte nel suo principale sfidante, il deputato musulmano del Minnesota, Keith Ellison. Quest’ultimo era di fatto collegato al movimento nel Partito Democratico coagulatosi attorno alla candidatura alla presidenza del senatore del Vermont, Bernie Sanders.

Le modalità con cui Sanders era stato sconfitto nelle primarie vinte da Hillary Clinton e le frustrazioni dei suoi sostenitori avevano causato forti preoccupazioni tra i vertici del partito, moltiplicatesi dopo la vittoria di Donald Trump. Per contrastare la crisi dei Democratici e l’emorragia di consensi si era provato così ad aprire le porte del partito a uomini vicini a Sanders, in modo da dare l’illusione della disponibilità a integrare un messaggio politico di “sinistra”.

In questo quadro, l’eventuale elezione di Ellison a numero uno del Comitato avrebbe potuto rappresentare una concessione simbolica e, tutto sommato, inoffensiva alla base “liberal”. Infatti, questo organo non ha particolari funzioni di elaborazione politica, ma serve più che altro a raccogliere fondi e a coordinare le strategie elettorali dei candidati Democratici ai vari uffici federali e locali.

La promozione e il successo di Tom Perez, ex ministro del Lavoro di Obama, ha invece suggellato il dominio del tradizionale apparato di potere Democratico sul partito. Una prova di forza, quella andata in scena sabato scorso ad Atlanta, che si è resa necessaria per bloccare sul nascere qualsiasi illusione sulla natura di un partito che è semplicemente l’espressione di quei poteri forti americani non schierati dalla parte dei Repubblicani.

L’elezione di Keith Ellison, al di là delle sue attitudini non esattamente rivoluzionarie, avrebbe potuto cioè ridare un qualche entusiasmo alla tradizionale base elettorale Democratica, minacciando la traiettoria reazionaria pro-business imboccata dal partito e dai suoi leader ormai da svariati decenni.

Per dare una qualche impressione di cambiamento, Perez aveva abbracciato quasi per intero l’agenda nominalmente “liberal” di Ellison. Dopo l’ufficializzazione dei risultati del voto dei membri del DNC nella serata di sabato, inoltre, il nuovo numero uno del partito si è affrettato a fare appello all’unità, nominando a proprio vice il suo sfidante.

La mossa era con ogni probabilità già stata studiata, visti anche gli ottimi rapporti tra i due, ma ha assunto carattere di urgenza dopo che l’annuncio della vittoria di Perez era stato accolto dai sostenitori di Ellison con urla di rabbia e slogan che invitavano a consegnare il partito “al popolo” e “non ai grandi interessi economici”.

L’esito del voto indica comunque l’esistenza di gravi divisioni sugli indirizzi del partito, non tanto per dare o meno una reale rappresentazione agli interessi di lavoratori e classe media, quanto piuttosto sulle concessioni esteriori necessarie per mantenere un’immagine credibile ed evitare di perdere del tutto la propria base elettorale nel paese.

Le apprensioni che circolano tra i Democratici sono state confermate dai numeri stessi. Mentre in passato l’elezione del numero uno del DNC era stata quasi sempre una formalità, sabato sono state necessarie due votazioni. Alla prima, Perez ha mancato la quota che gli avrebbe garantito il successo immediato per un solo voto. Alla seconda ha alla fine prevalso con 235 voti contro i 200 raccolti da Ellison.

Nelle primarie per le presidenziali dell’anno scorso, i membri del DNC che si erano schierati con Sanders erano stati appena 39 su quasi 450 totali, a conferma che da allora i vertici Democratici hanno moltiplicato gli sforzi per cooptare i sostenitori del senatore ed evitare una possibile spaccatura nel partito.

Anzi, nell’elezione a segretario del partito, Ellison aveva ottenuto anche l’appoggio di personalità importanti nell’apparato di potere Democratico, a cominciare dal leader di minoranza al Senato, Charles Schumer. Al suo fianco si erano schierate anche varie organizzazioni sindacali che un anno fa avevano invece sostenuto la candidatura di Hillary Clinton alla Casa Bianca.

Sulla sorte di Ellison hanno pesato inoltre le accuse di anti-semitismo che gli sono state rivolte e il suo presunto insufficiente impegno a favore di Israele. Secondo alcuni, la presa di posizione contro il deputato del Minnesota da parte del finanziatore Democratico israeliano-americano, Haim Saban, aveva rappresentato una sorta di veto per quest’ultimo. Saban e la moglie sono d’altra parte molto influenti nel partito, avendo donato negli ultimi anni ai suoi organi, nonché soprattutto alla famiglia Clinton, svariate decine di milioni di dollari.

La questione del nuovo segretario del Partito Democratico ha ad ogni modo suscitato poco interesse negli Stati Uniti al di fuori degli ambienti della politica e della stampa ufficiale. La sostanziale indifferenza in cui si è tenuto il congresso di Atlanta è stata dovuta anche all’assenza dal dibattito tra i candidati delle questioni politiche ed economiche più urgenti.

Soprattutto, poi, nessuno ha fatto accenno ai motivi che hanno gettato il partito nel discredito e permesso l’elezione di Trump alla presidenza, vale a dire la deriva reazionaria che ha raggiunto il culmine negli otto anni di presidenza Obama segnati da guerre, austerity e smantellamento costante dei diritti democratici.

Su questi punti, il Comitato Nazionale Democratico non ha avuto nulla da dire. Anzi, su un’altra questione che sta animando il dibattito politico USA, quella della presunta influenza del governo russo sull’amministrazione Trump, l’atteggiamento che ha prevalso in larghissima misura è stato di isteria e di assecondamento della caccia alle streghe in atto.

In questo senso si era espresso lo stesso Ellison nel corso di un dibattito tra i candidati alla guida del DNC trasmesso pochi giorni prima del voto dalla CNN. Perez, a sua volta, dopo avere incassato il successo è apparso nei programmi politici della domenica mattina per puntare di nuovo il dito contro Mosca, chiedere un’indagine sulle interferenze russe nel processo elettorale americano e collegare Trump al presidente Putin.

Le parole del nuovo segretario Democratico hanno così confermato come la battaglia del suo partito contro la nuova amministrazione Repubblicana continuerà a essere condotta principalmente da destra e avrà al centro gli interessi di quella parte della classe dirigente USA che considera la Russia come il proprio principale nemico strategico.

Parallelamente, la linea del Partito Democratico non divergerà da quella mantenuta finora, favorevole cioè ai grandi interessi economici e finanziari. Questa tendenza è stata confermata, tra l’altro, dal voto del Comitato nella giornata di sabato per bocciare la reintroduzione del divieto, deciso da Obama nel 2008 e abolito prima delle elezioni del novembre scorso, di accettare contributi elettorali dalle grandi aziende americane.

di Mario Lombardo

Questa settimana, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dato il via alle udienze su un caso, relativo all’assassinio di un giovane cittadino messicano disarmato per mano di un agente dell’immigrazione americana, che potrebbe avere profonde implicazioni sia sulle avventure belliche USA all’estero sia sulle iniziative anti-migranti dell’amministrazione Trump.

La vicenda al centro della discussione risale al 7 giugno del 2010, quando l’agente della Polizia di Frontiera di El Paso, in Texas, Jesus Mesa, dal territorio americano sparò fatalmente alla testa al 15enne Sergio Hernandez Guereca, il quale si trovava invece oltre il confine con il Messico, a Ciudad Juarez.

La ricostruzione dei fatti varia parzialmente a seconda della versione fornita dalle parti in causa. L’agente americano non ha negato di avere ucciso il ragazzo messicano, ma sostiene che Hernandez e altre persone che erano con lui stavano lanciando pietre verso la frontiera. Inoltre, in quel momento era in corso un tentativo di attraversare il confine verso gli Stati Uniti da parte di un gruppo di messicani, tra cui figurava la stessa vittima.

Per Mesa, inoltre, Sergio Hernandez non era del tutto innocente come vorrebbero far credere i suoi familiari. Il 15enne sarebbe stato arrestato due volte per il suo coinvolgimento nel traffico di migranti ed entrambe le volte rimpatriato “volontariamente”, vista la sua giovane età.

Filmati ripresi da telefoni cellulari hanno però smentito la versione dell’agente americano. In quel giorno di giugno non sembra esserci stato nessun lancio di pietre all’indirizzo delle guardie di frontiera americane. Sergio Hernandez, come sostengono i genitori, stava piuttosto giocando con alcuni amici, sfidandoli a correre in direzione degli Stati Uniti, toccare la struttura che segna il confine con il Messico e tornare al luogo di partenza.

A un certo punto, l’agente Mesa aveva afferrato uno dei giovani per poi sparare a Hernandez, il quale stava cercando riparo dietro un pilastro di cemento nella zona di confine. La giovane vittima, in sostanza, non rappresentava alcuna minaccia per il poliziotto di frontiera americano.

L’uccisione di Sergio Hernandez non è affatto un caso isolato, ma si inserisce in un sistema di violenze che contraddistingue la condotta di decine di migliaia di agenti USA che operano al confine tra il loro paese e il Messico e sul quale l’amministrazione Trump intende basare la propria escalation contro l’immigrazione “clandestina”.

I metodi degli agenti americani sono stati documentati da varie indagini negli ultimi anni. Una delle più note fu quella pubblicata nel 2013 dal giornale Arizona Republic. In essa veniva descritto come la polizia di frontiera americana aveva ucciso almeno 42 persone negli otto anni precedenti. Un’altra ricerca, uscita lo stesso anno sulla rivista Washington Monthly, aveva invece documentato, tra il 2008 e il 2013, almeno una decina di episodi in cui le guardie di frontiera americane avevano sparato oltre il confine meridionale, facendo un totale di sei vittime in territorio messicano. Il dato comune a tutti questi episodi è la completa immunità garantita agli agenti responsabili degli omicidi.

Per quanto riguarda il caso di Sergio Hernandez, l’amministrazione Obama si era rifiutata sia di incriminare il suo assassino sia di accogliere la richiesta di estradizione presentata dalla giustizia messicana. L’indagine a carico dell’agente Mesa venne chiusa nel 2012 senza alcun provvedimento. Per il governo USA, il ricorso alla violenza era stato insomma giustificato.

I legali dei familiari del giovane messicano avevano allora avviato un procedimento civile in un tribunale federale negli Stati Uniti per ottenere almeno un risarcimento. Secondo il giudice distrettuale del Texas incaricato del caso, tuttavia, i genitori non avevano “legittimità legale” per presentare denuncia, poiché Hernandez non era un cittadino americano ed era stato ucciso in territorio messicano. Per queste ragioni, alla vittima non erano riconosciuti i diritti previsti dalla costituzione degli Stati Uniti.

In Appello, un collegio di tre giudici aveva ribaltato la sentenza di primo grado, sostenendo che i genitori di Hernandez avevano almeno la facoltà di procedere con la loro denuncia. L’intera corte d’Appello del Quinto Circuito degli Stati Uniti avrebbe però in seguito riaffermato il giudizio iniziale, finché il caso non è finito alla Corte Suprema per un verdetto definitivo che è atteso nel prossimo mese di giugno.

Per i genitori di Hernandez, i diritti costituzionali americani vanno applicati anche alla vicenda del loro figlio. In particolare, l’assassinio per mano di Jesus Mesa avrebbe violato il Quarto e il Quinto Emendamento della Costituzione USA. Il primo mette al riparo dall’uso di “forza eccessiva” da parte delle autorità, mentre il secondo proibisce esecuzioni sommarie e garantisce un “giusto processo” a chiunque, senza distinzioni in base alla nazionalità.

L’amministrazione Trump si è ovviamente schierata dalla parte dell’agente di frontiera, chiedendo l’archiviazione del caso. Il governo messicano partecipa invece al procedimento a fianco dei familiari della vittima. In una dichiarazione presentata dalle autorità di questo paese viene correttamente evidenziato come, a parti invertite, il governo USA avrebbe fatto senza dubbio enormi pressioni per ottenere giustizia.

Uno dei legali della famiglia Hernandez, nel corso della prima audizione alla Corte Suprema, ha avvertito che un’eventuale sentenza contraria ai propri assistiti rischierebbe di “creare una terra di nessuno” nelle aree di confine, ovvero “una zona esclusa dall’applicazione della legge nella quale gli agenti americani hanno facoltà di uccidere i civili impunemente”. Per l’avvocato, perciò, la Corte dovrebbe affermare che “il nostro confine non è un interruttore attraverso il quale si possono assicurare o negare le protezioni fondamentali previste dalla Costituzione”.

Gli orientamenti dei giudici della Corte Suprema emersi finora sembrano riflettere le divisioni ideologiche che li caratterizzano. I quattro giudici conservatori o ultra-conservatori sentenzieranno con ogni probabilità a favore del governo, mentre i moderati potrebbero favorire la famiglia Hernandez. Un verdetto di 4-4 lascerebbe comunque invariata l’ultima decisione d’Appello, così che l’agente Mesa verrebbe definitivamente scagionato.

La Corte Suprema americana opera con solo otto membri invece dei nove previsti da oltre un anno, a partire cioè dalla morte del gudice ultra-reazionario Antonin Scalia. Il candidato al posto di quest’ultimo scelto da Obama non era stato nemmeno preso in considerazione per la conferma da parte della maggioranza Repubblicana al Senato, vista la vicinanza delle elezioni presidenziali. Trump, dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, ha nominato il giudice federale Neil Gorsuch, il quale, nel caso fosse confermato in tempo dal Senato, garantirà quasi certamente un voto in più ai conservatori che appaiono orientati a respingere l’istanza della famiglia messicana.

Il caso “Hernandez contro Mesa” ha comunque implicazioni che vanno al di là dell’assassinio di un innocente di 15 anni da parte di un rappresentante del governo americano. In particolare, un’eventuale decisione a favore dei genitori del giovane potrebbe avere conseguenze sul comportamento all’estero dei militari e dei cittadini USA in genere.

Visti gli innumerevoli crimini commessi nei molti paesi invasi, occupati o semplicemente devastati da operazioni come quelle condotte con i droni, il riconoscimento alle vittime della violenza americana all’estero del diritto di denunciare i responsabili in un tribunale degli Stati Uniti rischia di aprire una valanga di procedimenti. Questo timore è stato espresso più o meno chiaramente nel corso della prima udienza da vari giudici della Corte Suprema e non solo tra quelli conservatori.

La vicenda Mesa-Hernandez avrà conseguenze anche sulle politiche anti-migratorie dell’amministrazione Trump in fase di elaborazione. Una sentenza contraria alla vittima rafforzerebbe ad esempio il senso di impunità degli agenti federali incaricati dell’implementazione delle nuove brutali misure.

Allo stesso tempo, un esito simile potrebbe anche favorire il percorso nei tribunali americani delle nuove leggi contro gli immigrati. La sostanziale impossibilità dei tribunali di contraddire il giudizio del governo sulle questioni migratorie è infatti la tesi sostenuta dai legali del dipartimento di Giustizia nella difesa dei discussi provvedimenti discriminatori adottati nelle scorse settimane dal neo-presidente Trump.

di Michele Paris

Con l’adozione di due decreti da parte del dipartimento per la Sicurezza Interna americano, l’amministrazione Trump questa settimana ha accelerato la stretta sull’immigrazione “illegale”, fornendo alle agenzie preposte gli strumenti concreti per una campagna di detenzioni e deportazioni di massa che potrebbe colpire pesantemente milioni di individui e le loro famiglie.

I due provvedimenti emanati martedì sono il corollario di altrettanti “ordini esecutivi” firmati in precedenza da Trump relativi sempre alla questione migratoria. Le nuove linee guida non nascono dal nulla, ma partono dai presupposti fissati dall’amministrazione Obama, fino ad ora di fatto la più dura nei confronti degli immigrati, per ampliare lo scopo della legislazione in vigore.

In altre parole, Trump ha spazzato via le restrizioni formali alle deportazioni a tappeto degli “irregolari” presenti sul suolo americano che aveva stabilito il suo predecessore. A dare l’idea del clima che si respirerà negli Stati Uniti a partire dai prossimi giorni è stato il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, il quale nel presentare i due decreti del dipartimento per la Sicurezza Interna ha annunciato che “chiunque si trovi qui illegalmente potrà essere soggetto a deportazione in qualsiasi momento”.

Viste le ovvie implicazioni logistiche e le resistenze alle nuove politiche in ampie fasce della popolazione, Spicer e l’amministrazione Trump hanno allo stesso tempo cercato di attenuare parzialmente i toni. Se, però, la Casa Bianca ha invitato a evitare manifestazioni di panico nelle comunità dei migranti, le misure draconiane che si annunciano potrebbero risultare di natura relativamente limitata soltanto in questa prima fase.

I piani per il tentativo di deportare tutti o buona parte dei circa 11 milioni di immigrati senza documenti che vivono negli Stati Uniti saranno infatti implementati dopo che il governo federale avrà creato l’infrastruttura logistica necessaria a portare a termine questo obiettivo. L’espulsione di un numero così alto di persone dal territorio americano è vincolata cioè a misure che richiedono mesi o forse anni per essere messe in pratica, come il reclutamento di migliaia o decine di migliaia di nuovi agenti e la costruzione di una vasta rete di strutture detentive.

La prima modifica alla normativa esistente riguarda il profilo degli immigrati esposti al rischio deportazione. Le regole stabilite da Obama prevedevano già la possibilità teorica di deportare tutti gli “irregolari”, ma nella pratica agli agenti dell’ICE (“Immigration and Customs Enforcement”) era garantita ben poca discrezione, poiché la priorità doveva essere per i casi ritenuti più urgenti, come quelli relativi a criminali o membri di gang.

Ora, invece, queste distinzioni cesseranno di esistere e, nella prima fase del programma, gli agenti dell’immigrazione avranno la facoltà di valutare a proprio piacere quali siano gli individui da espellere tra quelli che hanno un qualsiasi precedente penale, sono accusati o sospettati di avere commesso un crimine o, ancora, che hanno presumibilmente “abusato” di servizi pubblici.

Non solo: il decreto del dipartimento per la Sicurezza Interna parla anche della possibilità di arrestare o deportare tutti coloro che siano sospettati di avere “violato le leggi sull’immigrazione”. Per l’amministrazione Trump, le stime massime del numero di soggetti esposti a questi provvedimenti potrebbero arrivare addirittura a 15 milioni. Un numero così alto ha fatto ipotizzare a molti che il governo intenda colpire prima poi anche i possessori della “carta verde”, ovvero stranieri residenti legali e in maniera permanente.

Trump intende inoltre modificare la pratica di rilasciare negli Stati Uniti immigrati “irregolari” fermati appena superato il confine americano in attesa che le loro domande di asilo siano prese in considerazione. Questa procedura richiede spesso alcuni anni e al termine di essa gli individui interessati possono essere difficilmente reperibili.

Con la nuova legislazione, al contrario, i rilasci cesseranno e gli immigrati dovranno essere spediti in centri detentivi oppure espulsi verso l’ultimo paese di provenienza, quasi sempre il Messico, anche se di diversa nazionalità. Questa norma potrebbe essere considerata però incostituzionale, assieme a un’altra che prevede un processo rapido di deportazione senza la sentenza di un giudice, da applicare a immigrati che si trovano in America anche per periodi di tempo ben superiori alle due settimane, considerati ancora “in transito” da una sentenza della Corte Suprema.

Particolarmente crudele e insensata è poi la misura che potrebbe rendere soggetti a deportazione gli immigrati “irregolari” che si adoperano per organizzare l’ingresso negli Stati Uniti dei loro figli. Dal momento che i genitori spesso pagano degli intermediari per il viaggio dei figli, essi potrebbero essere accusati di facilitare il traffico illegale di persone.

Grande preoccupazione tra gli immigrati ha suscitato anche l’ipotesi di revocare il cosiddetto DACA (“Deferred Action for Childhood Arrivals”), cioè il programma adottato da Obama che garantisce una certa protezione a circa 750 mila “irregolari” giunti negli USA da bambini.

L’intervento di questa settimana di Trump lo ha lasciato ufficialmente inalterato, ma l’ordine di deportazione dallo stato di Washington che ha colpito nei giorni scorsi un 23enne di origine messicana con i requisiti per restare in America sembra avere messo in discussione anche questa salvaguardia.

Un punto centrale della strategia anti-migratoria dell’amministrazione Trump è infine quello dell’aumento massiccio degli agenti deputati all’implementazione delle nuove regole, con il dipartimento per la Sicurezza Interna che conta di assumere almeno 15 mila persone nei prossimi due anni. In parallelo, la Casa Bianca ha tutta l’intenzione di riattivare un piano, parzialmente accantonato da Obama a causa degli abusi che aveva generato, per coinvolgere nelle politiche persecutorie nei confronti dei migranti le forze di polizia locali e statali.

La brutalità e la latitudine delle misure per la lotta agli “irregolari” previste da questi primi provvedimenti adottati dalla nuova amministrazione Repubblicana appaiono decisamente spropositate rispetto alla reale minaccia rappresentata dal fenomeno migratorio negli Stati Uniti.

La giustificazione per questo pugno di ferro sarebbe da collegare a un presunto dilagare della criminalità nelle città americane a causa dell’afflusso di milioni di immigrati “clandestini”. Questa tesi ha però basi del tutto irrazionali ed è stata smentita da numerosi studi che indicano come gli immigrati senza documenti siano meno propensi a commettere crimini rispetto a coloro che hanno status di cittadini.

Non solo, mentre la percentuale di “irregolari” in America è aumentata a ritmi sostenuti nell’ultimo decennio, quella dei crimini violenti è andata nella direzione esattamente opposta. Per citare ulteriori dati, anche la popolazione carceraria negli USA è costituita da una percentuale minore di immigrati rispetto a quella che questi ultimi rappresentano nel paese in generale.

Di questa realtà, la classe dirigente americana, inclusa l’amministrazione Trump, è perfettamente al corrente. La strategia è perciò quella di alimentare paure e odio nei confronti della parte più vulnerabile e indifesa della società per scopi ben precisi.

Il primo è quello di distogliere l’attenzione della grande maggioranza della popolazione dai veri problemi, legati alla crisi strutturale del capitalismo e alle esplosive disuguaglianze sociali, e dai veri responsabili di essi. Il secondo, che sta distinguendo in maniera chiarissima il nuovo presidente, è la creazione di strutture da stato di polizia in previsione di una crescente opposizione popolare.

Ciò è possibile solo attraverso la formazione di una base di sostegno di orientamento ultra-reazionario, se non apertamente fascista, stimolata appunto da leggi come quelle più recenti sull’immigrazione, ma anche, ad esempio, da provvedimenti e dichiarazioni anti-islamiche o volte a compiacere la destra cristiana. Tutte queste iniziative, e altre ancora di uguale natura, sono state infatti prese dal neo-presidente Trump fin dal suo ingresso alla Casa Bianca poco più di un mese fa.

di Michele Paris

Nella serata di lunedì, il presidente americano, Donald Trump, ha annunciato ufficialmente la nomina del generale Herbert Raymond McMaster a consigliere per la Sicurezza Nazionale in sostituzione dell’ex generale Michael Flynn, dimessosi settimana scorsa per avere mentito alla Casa Bianca sul contenuto delle sue discussioni private con l’ambasciatore russo a Washington.

La scelta di McMaster ha fondamentalmente due implicazioni. La prima e più ovvia è legata all’intenzione di Trump di continuare ad assegnare un ruolo prioritario ai militari all’interno della sua amministrazione, mentre la seconda indica un possibile precoce cambiamento di rotta sugli orientamenti strategici USA che riguardano i rapporti con la Russia.

McMaster, per cominciare, è almeno il quarto alto ufficiale – in servizio o a riposo – a occupare un incarico cruciale nella formulazione delle politiche relative agli affari esteri e alla “sicurezza nazionale” del nuovo governo. Gli altri sono il segretario alla Difesa, James Mattis, quello per la Sicurezza Interna, John Kelly, e il capo di gabinetto del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Keith Kellogg.

Dopo le dimissioni di Flynn, quest’ultimo aveva svolto le funzioni di direttore ad interim del Consiglio, mentre ora tornerà a occupare la posizione che gli era stata assegnata in precedenza, diventando di fatto il numero due di McMaster.

La stampa ufficiale americana ha accolto largamente con favore la nomina del nuovo consigliere del presidente, evitando del tutto i commenti critici che avevano accompagnato la scelta di Michael Flynn, ritenuto da subito troppo accomodante nei confronti del Cremlino.

Le doti attribuite spesso con entusiasmo a McMaster si riferiscono soprattutto alle sue doti di comando, ma anche a quelle “intellettuali” che gli hanno consentito di distinguersi nell’analisi delle strategie militari e delle minacce alla sicurezza americana, ma anche alla capacità di sapersi confrontare con i propri superiori o con le autorità civili per la difesa delle proprie idee.

Quest’ultima caratteristica, assieme al fatto di non avere ricoperto incarichi ai vertici della NATO né di avere legami apparenti con gli ambienti “neo-con”, ha convinto alcuni commentatori filo-russi a intravedere nella nomina di McMaster una certa coerenza con quella di Michael Flynn o, quanto meno, l’intenzione di Trump di provare a resistere alle pressioni di quella parte della classe dirigente USA che chiede continuità con le politiche di confronto verso Mosca adottate dall’amministrazione Obama.

Trump avrebbe infatti messo da parte altri candidati alla carica di consigliere per la Sicurezza Nazionale facilmente riconducibili alla fazione dei “falchi” anti-russi, come l’ex sottosegretario di Stato ed ex ambasciatore USA all’ONU, John Bolton, e l’ex direttore della CIA, generale David Petraeus, in modo da avere al proprio fianco una personalità disposta ad assecondare la propria visione strategica.

In realtà, più che la semplice considerazione riservata a Bolton o a Petraeus, è proprio la nomina stessa di McMaster ad apparire come una concessione agli oppositori interni di Trump che, nella comunità dell’intelligence, nel Partito Democratico e in una parte di quello Repubblicano stanno alimentando la caccia alle streghe anti-russa negli Stati Uniti.

Anche se McMaster non è direttamente legato a questi ambienti, i suoi precedenti lasciano pochi dubbi sulle posizioni relative alla Russia. Già distintosi come capitano durante la prima Guerra del Golfo, il nuovo consigliere di Trump aveva attirato l’attenzione proprio di Petraeus per essere stato il primo comandante a reclutare con successo milizie tribali sunnite in Iraq che avrebbero in seguito aiutato le forze di invasione americane a combattere i cosiddetti “insorti” nel paese mediorientale.

A fianco di Petraeus, il quale ha recentemente definito quella russa una minaccia “senza precedenti” per gli Stati Uniti, McMaster ha scalato le gerarchie dell’esercito, mentre più recentemente è stato coinvolto nella “pianificazione strategica” del ruolo delle forze armate USA per il futuro a fronte delle crescenti sfide planetarie.

Quasi tutti i commenti di questi giorni sulla sua nomina hanno poi citato un suo libro del 1997 sulla guerra in Vietnam, ampiamente diffuso tra i vertici militari americani. In esso, McMaster criticava gli alti ufficiali del suo paese e l’allora segretario alla Difesa, Robert McNamara, per non avere offerto maggiore resistenza ai fallimentari piani militari del presidente Johnson, definiti in sostanza troppo prudenti.

L’insistenza su questo particolare, che rifletterebbe una qualche attitudine anti-establishment del generale McMaster, sembra quasi un avvertimento a Trump della capacità del suo nuovo consigliere a resistere eventuali tentazioni filo-russe della Casa Bianca.

A definire ancora meglio gli orientamenti di McMaster è stata però la soddisfazione espressa per la sua nomina da parte di molti politici e commentatori che hanno attaccato Trump per il suo approccio troppo tenero nei confronti della Russia.

Tra i più entusiasti va segnalato il senatore Repubblicano dell’Arizona, John McCain, finora probabilmente il più feroce accusatore delle presunte interferenze di Mosca negli affari americani, ma anche protagonista di accese critiche verso il neo-presidente. L’ex candidato alla Casa Bianca ha elogiato Trump per una scelta che non avrebbe potuto immaginare migliore.

Anche dagli ambienti Democratici sono giunte parole di stima sia per McMaster che per la decisione di Trump. Il deputato Adam Smith, della commissione Forze Armate della Camera dei Rappresentanti, ha ad esempio definito la nomina un chiaro miglioramento rispetto a Michael Flynn.

McMaster, d’altra parte, negli ultimi anni è stato impegnato in prima persona nell’elaborazione dei piani militari che hanno come obiettivo la Russia, considerata da coloro che attaccano Trump come il principale ostacolo al dispiegarsi dell’egemonia di Washington in aree cruciali del globo, a cominciare dall’Europa, dal Medio Oriente e dall’Asia centrale.

Alcuni giornali americani lo hanno definito “tutt’altro che amico della Russia”. La pubblicazione Roll Call, dedicata all’attività del Congresso USA, ha ricordato come lo scorso mese di maggio McMaster avesse discusso presso l’influente think tank Center for Strategic and International Studies (CSIS) della minaccia di Mosca e dell’annessione della Crimea in termini assimilabili alla retorica anti-russa dilagata in America in questi ultimi anni.

Nello stesso intervento era rilevabile infine un vero e proprio compendio del pensiero “neo-con”, così come delle apprensioni che animano la classe dirigente americana per il declino del proprio paese.

Nel definire di natura “offensiva” gli obiettivi e le attività della Russia, McMaster aveva accusato il Cremlino di volere il “tracollo dell’ordine seguito alla Seconda Guerra Mondiale”, assieme allo stravolgimento degli equilibri economici, politici e relativi alla sicurezza del dopo Guerra Fredda, in modo da costruire nuovi scenari “più favorevoli ai propri interessi”.

Se i rapporti di forza all’interno dell’amministrazione Trump appaiono ancora in fase di assestamento e il conflitto interno ai vari organi dello stato americano tutt’altro che risolto, gli sviluppi più recenti suggeriscono un progressivo avanzamento delle posizioni della fazione anti-russa. Le dimissioni di Michael Flynn e la nomina a nuovo consigliere per la Sicurezza Nazionale del generale McMaster non fanno altro che confermare questa tendenza in atto.


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