di Michele Paris

L’amministrazione americana di Donald Trump rischia di precipitare in una pericolosa spirale di crisi dopo il polverone politico scatenato dall’improvvisa decisione di martedì del presidente di rimuovere dall’incarico il direttore dell’FBI, James Comey. L’iniziativa della Casa Bianca è virtualmente senza precedenti e potrebbe innescare una vera e propria crisi costituzionale, sovrapponendosi alla campagna già in atto sui presunti legami tra l’amministrazione e il governo russo.

I contorni del licenziamento di Comey sono sembrati subito poco chiari. Le ricostruzioni dei giornali americani hanno assicurato che la decisione era nell’aria alla Casa Bianca da almeno una settimana e sarebbe stata presa dopo una serie di consultazioni tra pochissimi esponenti dell’amministrazione Trump.

La ragione che ha convinto il presidente a sollevare dall’incarico il numero uno della polizia federale USA con sette anni di anticipo rispetto alla scadenza decennale del suo mandato è in ogni caso da collegare all’indagine che l’FBI sta conducendo sui possibili collegamenti tra politici e membri dell’intelligence di Mosca con Trump e uomini a lui vicini al fine di favorire quest’ultimo nelle elezioni presidenziali dello scorso novembre.

Il licenziamento è arrivato infatti dopo settimane di audizioni al Congresso sul cosiddetto “Russiagate”, tra cui quella dello stesso Comey, ma anche in seguito a misure legate alle indagini che prospettano una stretta sulla vicenda che potrebbe mettere in serio imbarazzo l’amministrazione Repubblicana.

Sempre i giornali USA hanno rivelato in questi giorni come siano stati preparati dei mandati di comparizione destinati a individui a conoscenza dei fatti che avevano portato alla rimozione del primo Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, l’ex generale Michael Flynn. Quest’ultimo aveva perso il posto pochi giorni dopo la nomina in seguito alla diffusione della notizia dei suoi contatti con l’ambasciatore russo a Washington, tenuti in parte nascosti al vice-presidente, Mike Pence.

In seguito, Flynn è stato sottoposto a indagine per legami finanziari con il governo russo e proprio nei giorni scorsi è esplosa una nuova polemica dopo che era emerso come la Casa Bianca avesse atteso 18 giorni per liquidarlo, nonostante il ministro della Giustizia ad interim, Sally Yates, avesse rivelato alla nuova amministrazione che l’ex generale aveva promesso segretamente all’ambasciatore russo l’allentamento delle sanzioni contro Mosca applicate da Obama.

Mercoledì, è circolata inoltre la notizia che nei giorni scorsi Comey aveva fatto sapere ad alcuni membri del Congresso impegnati nelle indagini sul “Russiagate”di avere chiesto al dipartimento di Giustizia, da cui l’FBI dipende, maggiori “risorse” per il caso delle interferenze di Mosca nel processo elettorale americano.

La giustificazione ufficiale per il benservito a Comey è stata però di altra natura ed è collegata invece alla gestione da parte dell’FBI dell’indagine su Hillary Clinton, accusata di avere utilizzato un server privato di posta elettronica durante la sua permanenza al dipartimento di Stato.

La Casa Bianca e il dipartimento di Giustizia hanno commissionato al vice-ministro della Giustizia, Rod Rosenstein, una lettera di licenziamento che sembra un concentrato di contraddizioni e incongruenze. Comey viene accusato di avere commesso gravi errori nel condurre le operazioni relative al caso Clinton, dapprima scagionando l’ex candidata Democratica alla Casa Bianca nel mese di luglio e a ottobre, a soli 11 giorni dal voto, con una clamorosa dichiarazione pubblica per annunciare la riapertura delle indagini.

Le conclusioni che Trump avrebbe tratto per arrivare al licenziamento di Comey, almeno secondo la lettera di Rosenstein, sono però contraddette dai fatti e da molte dichiarazioni, spesso rilasciate tramite “tweet”, dello stesso presidente.

Quando, ad esempio, il capo dell’FBI aveva deciso di non procedere contro Hillary, Trump si era espresso in termini molto critici, mentre a ottobre aveva elogiato Comey per il coraggio mostrato nel riaprire l’indagine ai danni della sua rivale alla vigilia delle presidenziali.

Che oggi Trump siluri Comey per la conduzione della vicenda Clinton è dunque assurdo. La conclusione più logica è piuttosto che si tratti di un’azione per cercare di ostacolare l’indagine sui legami della sua amministrazione con la Russia, guidata appunto dal direttore dell’FBI.

L’evento cruciale che può avere convinto Trump a prendere provvedimenti nei confronti di Comey potrebbe essere stata la testimonianza di quest’ultimo il 20 marzo scorso alla commissione Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti del Congresso. In quell’occasione, Comey aveva per la prima volta confermato ufficialmente l’esistenza di un’indagine dell’FBI sulla presunta interferenza russa nelle presidenziali del 2016, possibilmente in collaborazione con uomini dello staff di Trump.

Anche considerando il dilettantismo e l’irresponsabilità che hanno spesso caratterizzato l’azione dell’amministrazione Trump in questi primi mesi, è difficile credere che non fossero state previste le conseguenze politiche della rimozione del responsabile di un’agenzia federale che sta indagando sulla Casa Bianca.

Il fatto che Trump abbia deciso comunque di muoversi in questo senso sembra dimostrare perciò il livello di disperazione che pervade una nuova amministrazione sotto assedio da parte di forze all’interno dello stato preoccupate sia per il discredito in cui la Casa Bianca sta gettando gli Stati Uniti sia, ancor più, per un’attitudine strategica ritenuta non sufficientemente anti-russa.

La decisione di Trump è poi da mettere in relazione forse anche alle divisioni e ai malumori esistenti all’interno dello stesso “Bureau”. Comey ne aveva accennato settimana scorsa durante un’audizione al Senato in riferimento alla reazione negativa di molti nell’FBI all’archiviazione del caso Clinton.

Questo fermento aveva probabilmente incoraggiato alcune fughe di notizie relative alla vicenda Clinton a favore di politici Repubblicani, tra cui l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, e può ragionevolmente essere stato preso in considerazione dalla Casa Bianca nella speranza di limitare il contraccolpo del licenziamento di Comey, quanto meno all’interno dell’FBI.

Vista la gravità del quadro in cui si trova a operare l’amministrazione Trump, è evidente che la decisione di martedì potrà comunque fare ben poco per risolvere la crisi politica attuale. Anzi, la cacciata di Comey ha immediatamente moltiplicato le richieste di creare una commissione d’indagine indipendente sul “Russiagate”. A chiederla con maggiore insistenza sono stati i membri Democratici del Congresso, ma a essi si sono allineati anche numerosi esponenti del partito di Trump, alcuni dei quali hanno criticato apertamente la rimozione di Comey.

L’addio forzato del numero uno dell’FBI ha aperto anche un’ulteriore linea d’attacco per i nemici di Trump, accostato da molti a Richard Nixon e alle vicende dello scandalo “Watergate”. Il riferimento è andato in particolare al cosiddetto “Massacro del sabato sera” del 20 ottobre 1973, quando l’allora presidente costrinse alle dimissioni il proprio ministro della Giustizia, Elliot Richardson, e il suo vice, William Ruckelshaus, per essersi rifiutati di licenziare il procuratore speciale Archibald Cox, incaricato di indagare sul “Watergate”.

Storicamente, il parallelo sembra essere appropriato, vista anche la tendenza che accomuna Trump e Nixon a disinteressarsi delle regole democratiche. Tuttavia, dietro agli attuali attacchi contro la Casa Bianca non ci sono forze genuinamente interessate alla difesa dei principi della democrazia, bensì una campagna reazionaria basata sulla promozione di interessi politici e strategici ben precisi.

Le forze che operano contro Trump intendono cioè neutralizzare del tutto i propositi di quest’ultimo di intraprendere un percorso distensivo con Mosca, ad esempio attraverso una qualche collaborazione sulla guerra in Siria.

I timori di quanti ritengono la Russia il principale ostacolo al dispiegamento dell’influenza americana nelle aree strategicamente più importanti del pianeta non sono stati infatti fugati da alcune iniziative recenti di Trump che avevano fatto pensare a un ripiegamento da parte del presidente, prima fra tutte il bombardamento ai primi di aprile di una base aerea siriana.

Anzi, le apprensioni della fazione anti-russa dell’establishment americano sembrano essere tornate al di sopra dei livelli di guardia dopo gli sviluppi delle ultime settimane, segnate, tra l’altro, da una telefonata “cordiale” tra Trump e Putin, dal sostanziale via libera della Casa Bianca al piano russo sulla creazione di “zone di de-escalation” in Siria, dall’invio di un diplomatico americano di alto rango ai colloqui di pace in Kazakistan promossi da Mosca e dalla visita di mercoledì a Washington del ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov.

di Mario Lombardo

Le elezioni presidenziali di martedì in Corea del Sud hanno segnato un importante passaggio di consegne tra i due principali partiti che animano la scena politica del paese asiatico, con possibili ripercussioni sugli equilibri strategici di una penisola tuttora esposta al rischio di una guerra rovinosa tra Washington e il regime stalinista di Pyongyang.

Il favorito dei sondaggi, il leader del Partito Democratico di centro-sinistra, Moon Jae-in, ha riportato i “liberal” sudcoreani al potere dopo i due mandati dei conservatori Lee Myung-bak e Park Geun-hye. Proprio l’impeachment, la rimozione dal proprio incarico e il successivo arresto di quest’ultima avevano portato a elezioni anticipate, precipitando in una profonda crisi il Partito della Libertà (ex Saenuri) di centro-destra.

Moon ha superato il 40% dei consensi e, grazie al sistema elettorale sudcoreano a turno unico, si è subito assicurato la vittoria. Il margine di vantaggio sul suo più immediato rivale è stato molto ampio, anche se il candidato del Partito della Libertà, Hong Joon-pyo, ha registrato un’impennata rispetto alle rilevazioni precedenti il voto.

Hong ha ottenuto il 25%, confermando un recupero ipotizzato da molti nei giorni scorsi e dovuto probabilmente ai toni aggressivi utilizzati per dipingere Moon come una sorta di alleato della Corea del Nord. Il leader del partito della deposta presidente Park ha preceduto a sorpresa un altro candidato considerato di centro sinistra, l’imprenditore Ahn Cheol-soo del Partito Popolare, fermatosi a poco meno del 22%.

Nelle presidenziali del 2012, Ahn aveva ritirato la propria candidatura in extremis per appoggiare Moon, alla fine sconfitto di misura dalla Park. In questa occasione ha invece cercato di marcare la propria differenza dal numero uno del Partito Democratico, mantenendosi su posizioni più vicine a quelle dei conservatori sul fronte dell’economia e, soprattutto, dei rapporti con la Corea del Nord.

Più indietro sono finiti poi i candidati dei partiti minori, tra cui Yoo Seong-min del partito di centro-destra Bareun (7%), fondato solo nel mese di dicembre da una fazione di parlamentari del Partito della Libertà, allora Saenuri, contrario all’impeachment della presidente Park. Poco meno del 6% dei consensi sono andati infine a Sim Sang-jung del Partito della Giustizia di sinistra.

Dopo avere governato per un decennio, nel 2008 il centro-sinistra sudcoreano era stato punito dagli elettori soprattutto per le politiche di deregolamentazione dell’economia e del mercato del lavoro implementate dai presidenti Kim Dae-jung e Roh Moo-hyun. Solo il peggioramento del clima economico nel paese, l’ingigantirsi delle disuguaglianze sociali e i ripetuti episodi di corruzione, che hanno coinvolto in particolare esponenti del partito di maggioranza e i vertici dei colossi del business (“chaebol”), come Samsung e Hyundai, hanno alla fine favorito la riabilitazione del Partito Democratico e la riconquista della presidenza da parte di quest’ultimo.

Il neo-presidente Moon è riuscito poi a dare l’impressione alla maggioranza relativa degli elettori sudcoreani di poter cambiare rotta rispetto all’amministrazione uscente in ambito economico, nella lotta alla corruzione e, in misura minore, nell’approccio alla “minaccia” rappresentata dalla Corea del Nord.

La sorte del centro-destra sudcoreano era stata d’altra parte segnata dalla vicenda della presidente Park. La Corte Costituzionale di Seoul aveva ratificato la sua destituzione il 10 marzo scorso dopo il voto favorevole all’impeachment del parlamento a maggioranza conservatrice. Park era accusata, ed è ora formalmente incriminata, per avere favorito una stretta collaboratrice e la sua famiglia nell’ottenere lucrosi contratti d’affari con alcune grandi aziende sudcoreane.

L’ascesa al potere di Moon sta suscitando interrogativi soprattutto riguardo le decisioni di politica estera che sarà chiamato a prendere, con la questione nordcoreana e i rapporti con gli Stati Uniti al primo posto. Moon viene tuttora identificato con la cosiddetta “Sunshine Policy”, cioè la politica che predilige apertura e dialogo nei confronti di Pyongyang rispetto a sanzioni e minacce militari.

Promotore di queste iniziative era stato l’ex presidente Roh Moo-hyun, di cui Moon fu capo di gabinetto e consigliere, protagonista nell’ottobre del 2007 dello storico incontro nella capitale nordcoreana con Kim Jong-il. Il vertice aveva seguito il primo faccia a faccia in assoluto tra i leader dei due paesi divisi dal 38esimo parallelo, avvenuto nel giugno del 2000 tra l’allora dittatore nordcoreano e il presidente sudcoreano Kim Dae-jung.

Il giorno prima delle presidenziali di martedì, tramite il proprio organo ufficiale di stampa, il regime nordcoreano aveva invitato gli elettori della Corea del Sud a scaricare i conservatori, accusati di essere i responsabili dell’involuzione dei rapporti bilaterali nell’ultimo decennio.

Più che un intervento per cercare di condizionare l’esito del voto, vista la tardività dell’appello e la scarsissima capacità di esercitare la propria influenza sulle dinamiche politiche sudcoreane da parte del regime, la mossa di Pyongyang è apparsa come un messaggio di disponibilità al dialogo verso il presidente entrante.

Moon è considerato decisamente meglio disposto ad aprire un percorso distensivo con la Corea del Nord rispetto ai suoi due predecessori, ma ha fatto intravedere nelle settimane di campagna elettorale un evidente irrigidimento delle sue posizioni in merito al nodo centrale della politica estera di Seoul.

Un editoriale pubblicato martedì dalla testata in lingua inglese Korea Times ha spiegato come Moon sia in realtà molto più “pragmatico” del suo ex superiore, il defunto Roh Moo-hyun, mentre lo stesso quadro internazionale appaia oggi cambiato rispetto ai primi anni duemila.

In altre parole, il timore, manifestato da molti soprattutto negli Stati Uniti, che Moon possa assumere un atteggiamento meno accomodante verso Washington, proprio mentre l’amministrazione Trump sta alimentando lo scontro con Pyongyang, potrebbe essere cioè infondato o, quanto meno, eccessivo.

Se la predisposizione di una buona parte della popolazione della Corea del Sud per l’alleato americano continua a non essere esattamente positiva, come confermano le proteste contro la recente installazione del sistema antimissilistico THAAD, è l’inclinazione della classe politica di questo paese a essere in parte cambiata rispetto a più di un decennio fa. L’aggravamento delle relazioni internazionali sulla spinta della crisi economica globale e il conseguente riposizionamento americano in Asia, in funzione di contenimento della Cina, hanno costretto cioè le élites di paesi come la Sudcorea a ridurre eventuali differenze di vedute con gli USA.

Questo aggiustamento appare ancora più necessario alla luce del crescente interventismo americano nelle vicende interne dei paesi alleati quando i leader di turno mostrano esitazioni nell’abbracciare la “svolta” asiatica a stelle e strisce o un’eccessiva apertura nei confronti della Cina.

Washington, infatti, ha senza dubbio svolto un ruolo importante nella rimozione, ad esempio, del primo ministro Laburista australiano, Kevin Rudd, nel 2010, così come di quello giapponese, Yukio Hatoyama, nello stesso anno. Per alcuni, inoltre, la stessa presidente sudcoreana Park non avrebbe beneficiato dell’appoggio americano durante la procedura di impeachment nei suoi confronti proprio a causa della sua condotta che, in questi anni, ha favorito il consolidamento della partnership economico-commerciale tra Seoul e Pechino.

Queste dinamiche deve averle ben presenti anche il neo-presidente Moon, visto che già prima del voto si era dato da fare per rassicurare l’amministrazione Trump circa la sua intenzione di non destabilizzare l’alleanza tra i due paesi.

Significativa e rivelatrice a questo proposito è stata un’intervista concessa da Moon al Washington Post e pubblicata una settimana esatta prima del voto in Corea del Sud. Alla domanda se la sua futura amministrazione avrebbe preso in considerazione un possibile “riequilibrio” dell’alleanza con gli USA, la risposta di Moon è stata un secco “no”.

Il candidato del Partito Democratico sudcoreano aveva poi spiegato che l’alleanza con Washington è per lui il “fondamento della politica estera e della sicurezza nazionale” del suo paese. Per questa ragione, proseguiva Moon, Stati Uniti e Corea del Sud “lavoreranno di comune accordo sulla questione del nucleare” di Pyongyang, mentre Seoul non prenderà alcuna iniziativa indipendente.

La disponibilità teorica a discutere direttamente con Kim Jong-un, sia pure ribadita da Moon, dipende poi dall’esistenza di determinate condizioni, ovvero quelle dettate dagli USA e che consistono sostanzialmente nell’improbabile rinuncia preventiva al proprio programma nucleare da parte nordcoreana.

Molto più morbide rispetto al recente passato sono state infine anche le posizioni delineate da Moon sul già ricordato THAAD. Il leader del Partito Democratico sudcoreano ha confermato le sue riserve per la decisione americana di accelerarne l’installazione, ma si è alla fine limitato a chiedere un processo decisionale condiviso tra Washington e Seoul, necessario in definitiva solo a far digerire alla popolazione l’impopolare sistema anti-missile ormai in fase di attivazione.

di Michele Paris

La prevista vittoria di Emmanuel Macron nel secondo turno delle presidenziali francesi è stata salutata con un enorme sospiro di sollievo da parte di praticamente tutte le istituzioni politiche, economiche e mediatiche che vengono identificate con l’establishment ufficiale, sia all’interno della Francia sia a livello europeo.

Il successo con un ampio margine di vantaggio (66% a 34%) sulla candidata neo-fascista del Fronte Nazionale (FN), Marine Le Pen, ha spinto molti, tra coloro che hanno criticato Macron da sinistra, a rilevare come raramente, nella storia occidentale recente, un prodotto politico costruito a tavolino dalle élite economico-finanziarie, nonché dai principali media, sia riuscito in un così breve tempo a proporre un’immagine innovativa vincente.

Se la questione dell’immagine ha senza dubbio avuto una parte non indifferente nell’ascesa dell’ex banchiere Rothschild ai vertici dello stato francese, sono state in realtà soprattutto le condizioni di gravissima crisi politica e sociale in cui versa il paese a spianare la strada al suo trionfo.

Infatti, le numerose manifestazioni di protesta seguite al voto del primo turno e la stessa analisi dei numeri dietro alle elezioni del fine settimana testimoniano come milioni di francesi fossero ugualmente disgustati dal candidato-banchiere e dalla sua sfidante di estrema destra.

L’astensionismo ha riguardato un quarto dell’elettorato, vale a dire il livello più alto dal 1969, mentre circa il 12% ha votato scheda bianca o ha deciso di annullare il proprio voto. La diserzione delle urne ha poi superato abbondantemente il 30% tra gli elettori al di sotto dei 35 anni, così come tra quelli impiegati in lavori manuali.

A ciò va aggiunto un altro dato che attenua di molto il presunto “appeal” di Macron tra i francesi, cioè che per moltissimi la decisione di votarlo non è stata dettata dall’adesione ai contenuti del suo programma, bensì dall’orrore nell’immaginare il possibile ingresso di Marine Le Pen all’Eliseo.

L’elezione di Macron è in definitiva il risultato dell’implosione del sistema sostanzialmente bipartitico che ha caratterizzato il panorama politico francese negli ultimi decenni. La sua vittoria non prospetta perciò nessun rilancio dei valori repubblicani o europei, soprattutto se considerati nella loro inclinazione egalitaria e inclusiva. Anzi, il prossimo futuro si annuncia caratterizzato da un’intensificazione delle misure anti-sociali che hanno segnato gli ultimi cinque anni di governo del Partito Socialista (PS), di cui Macron è stato appunto un cardine fino alla scorsa estate.

La presidenza Macron, al di là degli aggiustamenti che richiederà il voto legislativo di giugno, sarà necessariamente all’insegna di un ulteriore assalto alla stabilità del lavoro, alla spesa sociale, all’occupazione nel settore pubblico e agli stessi principi democratici.

Sul fronte estero e della “sicurezza nazionale”, inoltre, Macron da un lato proseguirà sulla linea atlantista del suo predecessore, continuando a demonizzare la Russia e intensificando l’impegno militare in Africa e in Medio Oriente, e dall’altro manterrà in vigore lo stato di emergenza per utilizzarlo essenzialmente come strumento di contenimento delle tensioni sociali.

Una prospettiva, cioè, che non promette alcuna risoluzione della crisi in atto, ma che rischia seriamente di rafforzare ancor più l’opposizione di estrema destra, come ha già annusato Marine Le Pen alla chiusura delle urne nella serata di domenica.

La numero uno del FN ha nuovamente cercato di proporre il suo partito come l’unica vera alternativa alla dittatura liberista, sapendo di poter contare sul processo di legittimazione neo-fascista che continuerà a essere favorito da una classe politica in costante spostamento verso destra.

Se il voto di domenica ha confermato che in Francia come altrove non vi è una base particolarmente ampia di consenso per l’estrema destra populista, è altrettanto vero che il Fronte Nazionale ha quasi raddoppiato i consensi rispetto al ballottaggio del 2002. In quell’occasione, Jean-Marie Le Pen ricevette appena il 18% dei voti contro Jacques Chirac al termine di una campagna elettorale segnata da una mobilitazione di massa contro il neo-fascismo, di fatto assente o decisamente limitata nelle ultime due settimane.

Assieme all’entusiasmo per l’elezione di Macron e la sconfitta del FN, i commenti di molti analisti e osservatori subito dopo il voto hanno insistito anche sulla necessità del neo-presidente di legittimare un successo fondato su una base di consenso estremamente fragile.

Soprattutto, la classe dirigente francese ed europea, che oggi festeggia l’esito del voto per l’Eliseo, è ben cosciente di come Macron rappresenti un elemento di assoluta continuità con i suoi due predecessori – Sarkozy e Hollande – entrambi puniti pesantemente dagli elettori, sia pure con modalità differenti, a causa delle politiche reazionarie perseguite sul fronte domestico e su quello internazionale.

Per il momento, l’incertezza sulla presidenza Macron risiede in ogni caso nell’evanescenza del suo movimento politico (“En Marche !”) e nel risultato che esso riuscirà a ottenere nelle elezioni legislative di giugno. I giornali francesi in queste ore hanno però citato sondaggi che indicano come il nuovo partito di Macron abbia la possibilità anche di assicurarsi la maggioranza assoluta dei seggi, sfruttando la consueta spinta prodotta dal risultato delle presidenziali.

Un’altra ipotesi probabile sembra essere anche quella di una maggioranza relativa per il presidente eletto, il quale sarebbe così costretto a pescare consensi tra la destra gollista (“Les Républicaines”), apparsa sull’orlo della spaccatura in merito alla questione del candidato da appoggiare nel ballottaggio, e ciò che rimarrà della delegazione parlamentare Socialista.

Da tenere in considerazione sarà infine anche il risultato della sinistra raccolta attorno alla candidatura del leader del “Parti de Gauche” (PG) e del movimento “France insoumise” (“Francia ribelle”), Jean-Luc Mélenchon, in grado di sfiorare il 20% dei consensi nel primo turno delle presidenziali.

Mélenchon non aveva indicato nessuna preferenza ufficiale per il ballottaggio, pur invitando i suoi elettori a non votare per l’estrema destra. Visto lo sfacelo in cui i cinque anni di presidenza Hollande hanno gettato il Partito Socialista, è probabile che il partito di Mélenchon possa diventare la prima forza di sinistra all’Assemblea Nazionale, influenzando in qualche modo l’agenda liberista e strenuamente europeista del presidente eletto.

di Mario Lombardo

Alla ripresa dei colloqui di pace sulla Siria ad Astana, in Kazakistan, promossi da Russia, Iran e Turchia, il governo di Mosca ha presentato relativamente a sorpresa una proposta per creare quattro “zone di sicurezza” nel paese mediorientale in guerra, in modo da cercare di ridurre i livelli di violenza che si continuano a registrare.

A prima vista, il piano sembra più o meno corrispondere a quanto chiedono da tempo i “falchi” di Washington e i loro alleati turchi e nel mondo arabo, impegnati nell’alimentare il conflitto per rovesciare il regime di Damasco. Alla proposta del Cremlino hanno infatti già dato un’approvazione preliminare alcuni di questi paesi, anche se gli obiettivi opposti delle parti impegnate nella guerra siriana rendono decisamente meno semplice di quanto appaia anche solo la definizione della mossa di questi giorni del presidente Putin.

Delle “zone di de-escalation” in Siria, come sono state presentate da Mosca, avevano già parlato lo stesso Putin e il presidente americano Trump nel corso di un colloquio telefonico avvenuto martedì. La conversazione era stata la prima tra i due leader a partire dal bombardamento americano del 7 aprile scorso contro una base aerea siriana in seguito al presunto attacco con armi chimiche contro i “ribelli” che Washington aveva sommariamente attribuito alle forze di Assad.

Secondo la ricostruzione americana, il colloquio telefonico era stato molto cordiale e aveva generato una certa convergenza tra Putin e Trump sulla necessità di risolvere diplomaticamente la crisi in Siria.

Dopo la telefonata, la Casa Bianca aveva deciso l’invio in Kazakistan dell’assistente al segretario di Stato per gli Affari Mediorientali, Stuart Jones, il quale questa settimana ha appunto partecipato al nuovo round di colloqui di pace. In precedenza, Washington aveva virtualmente ignorato l’evento sponsorizzato da Mosca e Teheran, garantendo solo la presenza dell’ambasciatore USA in Kazakistan in qualità di osservatore.

La proposta resa nota pubblicamente mercoledì dalla Russia ha così ratificato l’attivismo di questo paese sulla questione siriana negli ultimi giorni. Oltre alle discussioni tra il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, e il segretario di Stato americano, Rex Tillerson, Putin aveva trattato la crisi già con la cancelliera tedesca Merkel a Sochi, sul Mar Nero, e poco dopo con il presidente turco Erdogan, al quale era stato chiesto di garantire l’impiego di truppe del suo paese per monitorare un’eventuale tregua in territorio siriano.

Secondo la bozza russa circolata ad Astana, le quattro “zone di sicurezza” dovrebbero essere create nella provincia di Idlib, in un’area a nord della città di Homs, a Ghouta est, appena fuori Damasco, e a sud lungo il confine con la Giordania.

In queste zone dovrebbero “cessare immediatamente le violenze”, così da consentire il “ritorno volontario e in sicurezza dei rifugiati”. Inoltre, nelle quattro aree indicate da Mosca verrebbero istituiti dei check-point e “centri di monitoraggio” gestiti sia dalle forze governative siriane sia dai “ribelli”. Come già anticipato, la presenza di contingenti militari di altri paesi dovrebbe poi provvedere alla sicurezza di queste zone, mentre Russia, Iran e Turchia si farebbero garanti della tregua creando un apposito “gruppo di coordinamento” con il consenso delle parti in conflitto.

La complessità degli scenari nelle aree scelte da Mosca e i recenti scontri all’interno del fronte dell’opposizione armata anti-Assad in alcune di esse rendono comunque complicati i piani per una possibile de-escalation del conflitto. Ancor più, il successo di una simile operazione dovrebbe derivare da una collaborazione effettiva tra Russia e Stati Uniti sul campo, cosa molto difficile alla luce degli obiettivi divergenti delle due potenze in merito alla Siria.

Gli Stati Uniti vedrebbero cioè le “zone di sicurezza” proposte dal Cremlino come uno strumento per aumentare la propria presenza in Siria e non certo per fare un passo indietro sul perseguimento dei propri interessi strategici.

Di questo, Putin ne è evidentemente consapevole, tanto da far pensare a un intento parzialmente diverso dietro l’iniziativa di Astana. A fornire la chiave di lettura forse più vicina alla realtà è stato il blog Moon of Alabama, dedicato quasi interamente all’analisi degli scenari siriani.

Secondo quanto scritto in un post pubblicato mercoledì, il problema principale della proposta russa è rappresentato dalla fazione qaedista dei “ribelli” che controlla Idlib e costituisce una forza tutt’altro che trascurabile anche nelle altre aree oggetto del piano in discussione.

Dal momento che l’offerta russa sarebbe la base di partenza per ulteriori futuri negoziati per una risoluzione pacifica della crisi solo se le forze di opposizione al regime di natura jihadista venissero eliminate, è evidente che la proposta rischia da subito di trovare lo stesso ostacolo che aveva fatto naufragare le precedenti fragili tregue negoziate da Mosca e Washington.

La richiesta di Mosca agli USA e ai loro alleati di favorire la separazione tra i “ribelli” moderati e quelli fondamentalisti è legittimamente un requisito fondamentale di qualsiasi ipotesi di tregua. Tuttavia, essendo le forze “ribelli” legate in varia misura ad al-Qaeda una componente cruciale dell’opposizione anti-Assad, e di fatto tollerate se non sostenute dagli Stati Uniti, è altamente improbabile che Washington accetti integralmente il piano russo.

Secondo il blog Moon of Alabama, dunque, la bozza di proposta di Putin sarebbe “un altro tentativo per provare a costringere gli USA e la Turchia ad ammettere l’esistenza di un problema al-Qaeda”, ovvero che un’organizzazione terroristica svolge un ruolo decisivo in queste aree della Siria e che “nessuna pace è possibile se non verranno eliminate” le componenti dell’opposizione associate a questa organizzazione fondamentalista.

Se anche a Mosca domina probabilmente lo scetticismo circa la riuscita del piano, lo scopo della proposta potrebbe essere quanto meno quello di ricavare un vantaggio strategico e di immagine nel “portare allo scoperto quanto più possibile” il problema dei legami tra l’opposizione appoggiata dai governi occidentali e dai loro alleati mediorientali con le forze qaediste.

La proposta russa è stata comunque sottoscritta da Turchia e Iran nella giornata di giovedì ad Astana, anche se i media presenti in Kazakistan hanno raccontato di alcuni delegati dell’opposizione anti-Assad che hanno abbandonato i lavori, vista la loro contrarietà ad accettare la Repubblica Islamica come uno dei garanti del piano destinato a creare le quattro “zone di sicurezza” in Siria.

In precedenza, dopo versioni contrastanti sulla posizione ufficiale del governo di Damasco, l’agenzia di stampa ufficiale siriana SANA aveva citato un comunicato ufficiale del ministro degli Esteri, nel quale veniva confermata l’accettazione da parte del regime della creazione delle “zone di de-escalation”, sia pure ribadendo l’impegno a combattere i “gruppi terroristi” attivi nel paese.

Da parte russa, infine, sembra esserci una certa disponibilità a fare concessioni importanti pur di fermare l’escalation del conflitto e gettare le basi per una soluzione politica. A questo scopo, necessario anche e soprattutto alla luce del gravoso impegno di Mosca a sostegno di Assad, Putin potrebbe essere pronto a cedere il controllo su alcune parti della Siria all’opposizione armata o ai paesi che sostengono i gruppi che ne fanno parte.

La palla, ora, passa perciò agli Stati Uniti e ai loro alleati, le cui intenzioni saranno messe ancora una volta alla prova dall’iniziativa del Cremlino. Le prossime tappe del complicatissimo negoziato sulla Siria prevedono invece un nuovo round di discussioni a Ginevra alla fine di maggio, mentre le parti dovrebbero ritrovarsi nuovamente in Kazakistan alla metà di luglio.

di Michele Paris

Il secondo tentativo in poche settimane dell’amministrazione Trump e della leadership Repubblicana al Congresso americano di sostituire la riforma sanitaria di Obama con una nuova legge continua ad avere prospettive estremamente incerte a causa delle profonde divisioni interne al partito di governo su alcuni punti cruciali della proposta in discussione.

Nonostante il naufragio nel mese di marzo del cosiddetto “American Health Care Act” (AHCA), sempre per l’impossibilità di trovare un accordo tra i deputati Repubblicani, il presidente e i vertici del suo partito avevano provato a rilanciare sulla riforma sanitaria per consegnare alla Casa Bianca almeno un successo legislativo dopo i primi 100 giorni di governo Trump segnati da confusione e polemiche.

Le modifiche apportate all’AHCA hanno però confermato come la coperta resti molto corta sulla questione sanitaria. Il pacchetto che dovrebbe prendere il posto di “Obamacare” è stato infatti modellato per venire incontro alle perplessità dell’ala ultra-conservatrice del Partito Repubblicano, la quale aveva fatto saltare l’intesa sulla versione precedente, ma ha inevitabilmente provocato numerose defezioni tra i deputati “centristi”.

La sorte dell’AHCA dipende ora dalla possibilità di ottenere un compromesso tra le due anime del partito di maggioranza. La prima è intenzionata a dare la massima libertà alle compagnie assicurative private e a ridurre al minimo l’impegno finanziario pubblico per l’assistenza sanitaria, mentre la seconda appare preoccupata dalle reazioni negative dei propri elettori per l’eventuale perdita della copertura o per il possibile aumento dei costi necessari per riceverla.

La questione cruciale è rappresentata dall’obbligo per le compagnie di assicurazione private di garantire la copertura sanitaria a individui con “condizioni preesistenti” di malattia senza incrementi dei premi da pagare. Questa imposizione, prevista da “Obamacare”, è stata di fatto eliminata dalla nuova versione dell’AHCA, anche se lo stesso Trump e i leader Repubblicani alla Camera dei Rappresentanti continuano in sostanza a negarlo.

Le nuove norme prevedono che le amministrazioni dei singoli stati americani possano concedere alle compagnie di assicurazione la possibilità di richiedere a clienti con una storia di malattia pregressa premi esorbitanti, cioè fino a cinque volte superiori a quelli applicati a individui sani e di giovane età.

I sostenitori della legge affermano che quanti presentano “condizioni preesistenti” non sarebbero penalizzati da costi maggiori per due ragioni. La prima perché i premi possono essere maggiorati solo se un individuo che ha avuto malattie in passato non è stato coperto da un’assicurazione sanitaria per un periodo di almeno 63 giorni nell’anno precedente la stipula della polizza.

La seconda perché gli stati che permettono il lievitare dei premi dovranno creare dei piani alternativi “ad alto rischio” destinati agli individui con “condizioni preesistenti”. A questo scopo, il governo federale stanzierà tuttavia appena 13 miliardi di dollari l’anno, cioè una cifra insufficiente a garantire una copertura decente a tutti coloro che vedranno moltiplicare i costi delle loro polizze private.

Che quest’ultima misura avrà un impatto trascurabile è confermato dal fatto che essa ha fatto poco o nulla per convincere i deputati Repubblicani indecisi ad appoggiare la nuova versione dell’AHCA o per far cambiare idea a quelli contrari. Secondo i media americani, lo “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan, starebbe perciò preparando un’ulteriore modifica alla legge per persuadere i colleghi “moderati”, anche se ciò potrebbe nuovamente far perdere qualche voto tra i conservatori.

Vista l’umiliazione seguita al fallimento del primo tentativo di abrogare “Obamacare”, risoltosi senza nemmeno un voto dell’aula, è singolare come la questione sia stata riportata all’ordine del giorno da parte di Trump e dei vertici Repubblicani senza la certezza di un accordo all’interno del partito sulla nuova versione dell’AHCA. Una nuova sconfitta su questo fronte potrebbe oltretutto ripercuotersi negativamente sul resto dell’agenda della nuova amministrazione.

I numeri alla Camera sembrano per il momento tutt’altro che favorevoli per i promotori della legge sul sistema sanitario, senza parlare degli ostacoli ancora maggiori che essa incontrerebbe poi al Senato.

I 193 deputati Democratici voteranno compatti contro la nuova legge, così che la leadership Repubblicana potrà permettersi al massimo 22 defezioni tra la propria delegazione. Gli ultimi conteggi dei giornali USA davano 21 deputati Repubblicani decisi a votare “no” e 24 indecisi. Nelle ultime ore, le pressioni di Trump e del suo vice, Mike Pence, si sono però moltiplicate per convincere gli scettici, ricevuti dallo stesso presidente mercoledì alla Casa Bianca.

I tempi sono in ogni caso molto stretti. Giovedì la Camera dei Rappresentanti sospenderà i lavori fino al 16 maggio e senza un voto dell’aula l’AHCA potrebbe perdere definitivamente il già modesto slancio degli ultimi giorni.

La tendenza alla vigilia di un possibile voto non promette comunque nulla di buono per i Repubblicani. Due defezioni di spicco hanno gettato un’ombra sulla nuova legge a inizio settimana, quando i deputati Billy Long e Fred Upton, rispettivamente di Missouri e Michigan, hanno fatto sapere ufficialmente di non poter votare a favore dell’AHCA nella versione attuale.

Long è considerato uno dei membri del Congresso più vicini a Trump, mentre Upton era stato il promotore di svariati disegni di legge Repubblicani approdati senza successo alla Camera a partire dal 2010 per cercare di revocare la riforma sanitaria di Obama. Dopo l’incontro con Trump, però, Upton è apparso più ottimista, poiché il presidente avrebbe appoggiato la sua proposta di aggiungere altri 8 miliardi di dollari allo stanziamento federale per i piani sanitari “ad alto rischio” nei singoli stati.

L’AHCA di Donald Trump rappresenta ad ogni modo un passo indietro rispetto a “Obamacare”, della quale aggrava gli aspetti più reazionari, come la prevalenza dell’offerta privata, il “focus” sul taglio dei costi sanitari e la promozione di un sistema di assistenza a due velocità, uno costoso e di prima qualità per chi può permetterselo e un altro con servizi razionati per i più poveri.

Oltre poi alla già ricordata questione dell’aumento dei premi assicurativi per quanti presentano “condizioni preesistenti”, l’AHCA consente ai singoli stati americani di non applicare la norma, anch’essa prevista da “Obamacare”, che impone ai piani di copertura sanitari offerti di includere una serie di servizi fondamentali, tra cui visite di emergenza, ricoveri ospedalieri, esami di laboratorio e vaccinazioni.

La gran parte degli elementi regressivi inclusi nella prima versione dell’AHCA è rimasta invariata dopo le modifiche alla legge oggetto di discussione in questi giorni. Per dare un’idea dell’impatto che essa avrebbe in caso di approvazione, basti ricordare che l’analisi di un ufficio indipendente del Congresso nel mese di marzo aveva stimato in 14 milioni il numero di americani che con l’AHCA perderebbe la copertura sanitaria già nel 2018 e 24 milioni entro il 2026.

Inoltre, la nuova legge cambierebbe i criteri di assegnazione dei sussidi per l’acquisto di polizze private, determinando un aumento complessivo dei premi per singoli e famiglie. L’AHCA, infine, ridurrebbe i fondi federali di Medicaid per centinaia di miliardi di dollari, con il risultato che, nel prossimo decennio, altri 14 milioni di americani sarebbero privati della copertura sanitaria ottenuta grazie al popolare programma di assistenza pubblico destinato ai redditi più bassi.


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