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di Michele Paris
Il direttore dell’FBI, James Comey, ha confermato martedì che la sua agenzia non chiederà al Dipartimento di Giustizia di procedere con l’incriminazione di Hillary Clinton per l’uso di un server di posta elettronica privato durante il suo incarico alla guida della diplomazia americana tra il 2009 e il 2013. La decisione spazza dunque via una vicenda legale che aveva creato parecchie preoccupazioni alla candidata alla Casa Bianca per il Partito Democratico, anche se critiche e accuse da parte Repubblicana continueranno con ogni probabilità fino alle elezioni di novembre.
Sulla questione, il Partito Repubblicano aveva costruito un’accesa polemica politica allo scopo di colpire l’ex Segretario di Stato, senza ottenere però risultati significativi e, anzi, finendo per occultare le vere responsabilità connesse alla natura criminale della politica estera di Washington.
Hillary era stata sentita sabato dall’FBI, nell’ambito dell’indagine su una pratica proibita da anni dalle regole del Dipartimento di Stato, le quali impongono che tutta la corrispondenza del Segretario e del suo staff transiti su server governativi, sia per questioni di sicurezza sia per garantire la conservazione di quelli che vengono considerati come documenti pubblici.
Sul contenuto dell’interrogatorio della favorita nella corsa alla presidenza non era trapelato nulla sulla stampa americana, ma molti esperti legali negli USA ritenevano improbabile una sua incriminazione da parte dell’FBI. Più che una violazione della legge, la creazione di un server privato andava infatti contro una norma interna fissata dal Dipartimento di Stato
L’intervento pubblico del numero uno dell’FBI non ha comunque assolto la Clinton da un comportamento censurabile. L’ex Segretario di Stato potrebbe aver violato “statuti relativi alla gestione di materiale classificato”, ma, alla luce dei risultati dell’indagine, “nessun procuratore avvierebbe ragionevolmente un procedimento” nei suoi confronti.
Un’incriminazione federale avrebbe potuto avere luogo principalmente in due casi, se Hillary avesse mentito agli investigatori o, in maniera più grave, se informazioni riservate fossero finite nelle mani di terzi deliberatamente o per negligenza. Quest’ultima accusa è tuttavia molto difficile da dimostrare.
Le reazioni dei leader Repubblicani non si sono fatte attendere. Il candidato alla Casa Bianca, Donald Trump, su Twitter ha scritto che “il sistema è truccato”, chiedendosi la ragione per cui l’FBI non abbia raccomandato l’incriminazione di Hillary nonostante il comportamento illegale ammesso da Comey. Il presidente della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan, ha anch’egli ribadito questo concetto, definendo un “precedente inquietante” lo scagionamento dell’ex Segretario di Stato.
Sul caso hanno pesato ovviamente anche considerazioni di natura politica. Il direttore dell’FBI è un Repubblicano e ha servito nell’amministrazione di George W. Bush, ma ampie sezioni dell’apparato della sicurezza nazionale americana vedono con favore l’ipotesi di una vittoria di Hillary Clinton nelle elezioni di novembre, viste le sue credenziali da “falco”, mentre temono l’imprevedibilità e le posizioni isolazioniste di Donald Trump.
Sulla raccomandazione dell’FBI per l’eventuale incriminazione di Hillary avrà l’ultima parola il ministro della Giustizia (“Attorney General”), Loretta Lynch, nominata da Obama e strettamente legata al clan Clinton, a cui deve il lancio della sua carriera legale e politica. La Lynch aveva però già fatto sapere che era sua intenzione rispettare la decisione dell’FBI, rispondendo così alle polemiche seguite a un suo incontro privato settimana scorsa con l’ex presidente Bill Clinton all’aeroporto di Phoenix, in Arizona.
Se anche Hillary e i suoi sostenitori hanno assicurato che la decisione di ricorrere a un server di posta privato era stata un errore, le notizie emerse sulla vicenda in questi mesi hanno gettato molte ombre su una candidata che già non si distingue per onestà e integrità.
Un rapporto interno al Dipartimento di Stato, pubblicato qualche settimana fa, aveva accusato duramente l’ex senatrice di New York. Hillary aveva ad esempio affermato di avere chiesto al Dipartimento di Stato l’autorizzazione all’uso di un proprio dominio per la posta elettronica, mentre in realtà tale richiesta non sarebbe mai avvenuta, poiché in tal caso sarebbe stata fermamente respinta.
Da ricordare c’è anche il fatto che Hillary ha messo a disposizione delle indagini circa 30 mila e-mail, ma quasi altrettante sono state eliminate, ufficialmente perché di natura privata. In molti dubitano legittimamente della parola della Clinton e, a conferma di ciò, la settimana scorsa la sua più stretta collaboratrice, Huma Abedin, ha ammesso in un’aula di tribunale che, “in più di un’occasione”, erano state eliminate insolitamente anche copie dell’agenda giornaliera del Segretario di Stato, da considerarsi evidentemente come documenti pubblici.
Hillary è riuscita dunque a evitare una clamorosa incriminazione in seguito all’indagine dell’FBI, ma rimarranno comunque aperti vari procedimenti civili intentati da organizzazioni conservatrici che, prevalentemente per ragioni politiche, hanno chiesto la pubblicazione della corrispondenza tenuta negli anni al Dipartimento di Stato.
Queste grane legali hanno senza dubbio contribuito a peggiorare la percezione della Clinton tra gli americani. Un recente sondaggio ha mostrato infatti che la candidata Democratica alla Casa Bianca è considerata ancora più disonesta e inaffidabile di Donald Trump.
Il dato più rilevante delle vicende che stanno interessando Hillary Clinton ha comunque a che fare con responsabilità ben più gravi di quelle emerse e utilizzate per calcoli politici dal Partito Repubblicano. Dalle e-mail del Dipartimento di Stato è ad esempio risultato che Hillary Clinton ha avuto un ruolo diretto nell’approvazione di assassini mirati condotti con i droni in Pakistan, così come sono state confermate le sue responsabilità nell’intervento militare in Libia nel 2011 per rovesciare il regime di Gheddafi.
In entrambi i casi vi sarebbe ampio spazio per perseguire per crimini di guerra l’ex Segretario di Stato, assieme a molti altri esponenti delle amministrazioni Bush e Obama, i vertici militari e dell’intelligence USA. Com’è ovvio, né le indagini dell’FBI e della maggioranza Repubblicana al Congresso, né le denunce dei vari gruppi conservatori sono interessate a questo aspetto cruciale dei casi in questione.
La ragione di ciò è da ricercare nelle responsabilità per i crimini dell’imperialismo americano dell’intera classe politica USA, tutt’al più interessata a perseguire eventuali violazioni dei vincoli di segretezza posti sui documenti che testimoniano di questi stessi crimini piuttosto che le azioni e le responsabilità a essi collegate.Identica evoluzione ha avuto così anche un’altra vicenda che ha visto coinvolta Hillary Clinton negli ultimi anni, quella cioè legata all’assalto alla rappresentanza diplomatica USA di Bengasi che l’11 settembre del 2012 si concluse con la morte dell’ambasciatore americano in Libia, Christopher Stevens, e di altri tre cittadini statunitensi incaricati del servizio di sicurezza.
Sull’attentato era stata creata una speciale commissione d’indagine della Camera dei Rappresentanti di Washington, dotata di fondi straordinari. Anni di ricerche e interviste hanno dato alla luce un rapporto finale di oltre 800 pagine.
Anche in questo caso, l’obiettivo della maggioranza Repubblicana era quello di indebolire politicamente Hillary Clinton, facendo emergere particolari responsabilità dell’allora Segretario di Stato nell’implementazione di misure di sicurezza insufficienti per la protezione del consolato USA nella città libica. Come previsto, nulla di tutto ciò è stato però evidenziato dall’indagine, mentre alcune questioni di fondamentale importanza emerse sulla natura criminale dell’operazione militare in Libia sono state puntualmente ignorate.
In primo luogo vi è l’utilizzo da parte americana di milizie fondamentaliste, alcune con legami diretti ad al-Qaeda, per la rimozione di Gheddafi. Queste stesse forze hanno condotto l’attacco al consolato di Bengasi, uccidendo l’ambasciatore Stevens, ovvero uno dei principali responsabili della gestione dei rapporti con i guerriglieri jihadisti.
Dal rapporto del Congresso risulta poi chiara la creazione di una rotta tra la Libia e la Siria da cui la CIA, che operava da una struttura annessa al consolato di Bengasi, facilitava il transito di armi e combattenti fondamentalisti per replicare a Damasco le stesse operazioni volte al cambio di regime messe in atto a Tripoli.
Niente di tutto questo è finito al centro di un qualche dibattito negli ambienti ufficiali di Washington, dove le azioni dei militari, del Dipartimento di Stato e della CIA sono considerate interamente legittime.
Oltre a tralasciare volutamente questi aspetti di gran lunga più importanti rispetto alla trascurabile questione delle responsabilità sulle misure adottate dal Dipartimento di Stato per la sicurezza delle rappresentanze diplomatiche USA all’estero, le iniziative dei Repubblicani non sono nemmeno riuscite a far naufragare la campagna elettorale di Hillary Clinton.
Anzi, se anche la già modesta popolarità della contendente Democratica alla Casa Bianca ne ha in qualche modo risentito, l’esito delle indagini ha offerto a quest’ultima un facile bersaglio per le sue contro-accuse circa l’esistenza di una cospirazione ai suoi danni negli ambienti della destra americana.
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di Mario Lombardo
La scommessa del primo ministro australiano, Malcolm Turnbull, di cercare di rompere lo stallo che da tempo paralizza il quadro politico del suo paese con nuove elezioni anticipate sembra essere destinata a un più o meno pesante fallimento dopo i risultati non ancora definitivi seguiti alla chiusura delle urne nella serata di sabato. La “coalizione” conservatrice di governo, formata dal partito Liberale e da quello Nazionale, ha infatti segnato una setta flessione, attestandosi su numeri simili a quelli del Partito Laburista di opposizione. Nessuno dei due principali soggetti politici australiani avrà così probabilmente i seggi sufficienti a dar vita a un nuovo esecutivo senza il sostegno di partiti minori o di parlamentari indipendenti.
Turnbull aveva deciso un insolito “doppio scioglimento” dei due rami del Parlamento di Canberra nel mese di aprile dopo appena sette mesi dal suo approdo alla guida del governo. La sua installazione a capo dei Liberali e del governo era avvenuta in seguito a una rivolta interna al partito per rimuovere il suo predecessore, Tony Abbott, da entrambe le cariche. Quest’ultimo stava presiedendo a un vero e proprio crollo dei consensi per la maggioranza, mentre l’impazienza degli ambienti del business australiano per la lentezza nell’implementazione delle “riforme” di libero mercato a lungo promesse ha fatto il resto.
L’auspicio del primo ministro Turnbull era dunque quello di conquistare un nuovo mandato elettorale per creare un governo più forte, puntando sul suo presunto carisma, le sue posizioni progressiste sulle questioni ambientali e sui diritti dei gay e sulla presentazione di un bilancio federale che intendeva dare l’impressione di contribuire alla “modernizzazione” del paese.
Dopo il voto di sabato, invece, Turnbull si è trovato di fronte a prospettive tutt’altro che rosee. Lo spoglio di circa i tre quarti delle schede ultimato finora assegna all’incirca lo stesso numero di seggi alla camera bassa (Camera dei Rappresentanti) al Partito Laburista e alla coalizione “Liberal-National”. Al momento, entrambi sembrano destinati a fallire l’obiettivo di raggiungere la maggioranza assoluta di 76 seggi.
Nella serata di lunedì, le proiezioni pubblicate da alcuni giornali australiani attribuivano alla Camera 70 o 71 seggi al centro-destra, 67 al Labor, uno ai Verdi, 5 a candidati indipendenti e partiti minori. In sette collegi elettorali la situazione era invece ancora troppo equilibrata per prevedere i vincitori dei rispettivi seggi. I dati provvisori della Commissione Elettorale Australiana ne davano invece 71 ai Laburisti, contro i 55 del 2013, e 67 alla Coalizione di governo, contro i 90 del Parlamento uscente.
Da conteggiare restano ancora alcuni milioni di voti espressi per posta che, secondo la stampa australiana, in genere tendono a favorire il Partito Liberale. Per questa ragione, un Turnbull già sotto assedio nelle ore successive alla chiusura delle urne ha provato a rassicurare i suoi sostenitori, affermando che alla fine la “Coalizione” avrà i numeri per mettere assieme un governo sufficientemente solido.
Le autorità elettorali hanno comunque fatto sapere che i dati definitivi non si conosceranno almeno fino alla fine della settimana. Nei prossimi giorni, perciò, potrebbero moltiplicarsi sia le pressioni su Turnbull sia i tentativi delle prime due formazioni politiche di garantirsi l’appoggio di quelle minori per raggiungere la maggioranza in Parlamento.
Anche nel migliore degli scenari - un governo di minoranza o sostenuto da una maggioranza risicata - il primo ministro rischia di andare incontro a un voto di sfiducia interno al suo partito, vista la debolezza di un eventuale nuovo gabinetto da lui guidato e la tendenza ai colpi di mano contro i propri leader dei partiti australiani in periodi di crisi.
Inevitabilmente, l’attenzione in questi giorni è puntata sulle formazioni minori e sui candidati indipendenti che hanno ottenuto un numero relativamente importante di seggi. Significativo appare soprattutto il ritorno in Parlamento dopo due decenni di Pauline Hanson, leader del partito xenofobo “One Nation”. Nello stato nord-orientale del Queensland, ad esempio, questo partito ha raccolto circa il 10% dei consensi, a conferma del fatto che il voto di protesta contro i tradizionali partiti di governo finisce spesso per beneficiare i movimenti di estrema destra in assenza di un’alternativa realmente progressista.Il voto del fine settimana registra in ogni caso anche in Australia una tendenza già osservata ampiamente altrove in questi anni, tra cui più di recente in Spagna, cioè il collasso di un sistema fondamentalmente bipartitico a causa della crescente ostilità della maggioranza degli elettori per politiche di austerity e di impoverimento di massa implementate sia dalle destre che dalle sinistre.
La precarietà del panorama politico australiano è un altro sintomo inequivocabile della crisi delle democrazie rappresentative occidentali, visto che questo paese non entra tecnicamente in recessione da 25 anni e, almeno fino a qualche anno fa, era sinonimo di stabilità politica. I segnali del progressivo sconvolgimento degli equilibri erano comunque evidenti, tra l’altro dall’avvicendamento di ben cinque primi ministri a partire dal 2010.
Le perdite più sensibili la maggioranza di governo le ha incassate nelle periferie delle principali città australiane, dove la “working-class” nutre un forte risentimento nei confronti delle politiche di rigore che hanno segnato il peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone. I modesti progressi dei Laburisti in queste elezioni sono infatti dovuti principalmente all’opposizione ai tagli al sistema sanitario pubblico proposti da Turnbull, nonostante essi stessi si fossero mossi in una direzione simile quando erano al governo.
Lunedì, intanto, il leader del Partito Laburista, Bill Shorten, ha invitato il primo ministro Turnbull a dimettersi dopo averlo paragonato al suo omologo britannico, David Cameron, anch’egli sconfitto in un’iniziativa elettorale lanciata per i propri calcoli politici. Lo stesso Shorten potrebbe però fronteggiare problemi sul fronte interno. Uno degli esponenti più autorevoli del suo partito, Anthony Albanese, ha escluso una resa dei conti nel Labor per il momento, lasciando però la porta aperta a un possibile voto sulla leadership nel prossimo futuro.
Al di là dei risultati finali del voto in Australia, la prestazione dei due principali partiti e, soprattutto, di quello Liberale di governo, ha suscitato profonda irritazione tra i commentatori dei giornali ufficiali. Ciò è dovuto al timore che il perpetuarsi dell’instabilità politica a Canberra in parallelo al deteriorarsi dell’economia australiana, dovuto dal crollo delle esportazioni derivanti dall’industria estrattiva, renda sempre più difficile l’applicazione di misure di “ristrutturazione” dell’economia in senso liberista.
Le agenzie di rating hanno d’altra parte già minacciato di privare l’Australia dell’ambita tripla A se non verranno adottate al più presto le “riforme” necessarie a ridare fiducia agli investitori. La classe politica australiana si ritrova così a vivere lo stesso dilemma di quelle di molti altri paesi occidentali, pressati cioè dagli ambienti economico-finanziari a procedere con misure di devastazione sociale a fronte della resistenza e l’aperta ostilità di elettori che, attraverso le urne e non solo, continuano a lanciare messaggi in senso contrario fin troppo chiari, anche se puntualmente ignorati.Il caos post-elettorale in Australia, infine, deve avere messo in allarme anche il principale alleato strategico e militare di Canberra, gli Stati Uniti. L’Australia è uno dei paesi-chiave della strategia americana in Asia orientale, fondamentalmente rivolta al contenimento della Cina. A Washington è risaputo che all’interno dei due principali partiti australiani persistono posizioni che, pur non opponendosi all’alleanza con gli USA, vedrebbero con favore un clima più disteso tra le prime due potenze economiche del pianeta, visto che Pechino è il principale partner commerciale di Canberra.
Le possibilità che gli Stati Uniti intendano allentare le pressioni sulla Cina sono però vicine allo zero e, coerentemente con il ruolo giocato da sempre nella politica australiana, gli sforzi di Washington nelle prossime settimane saranno diretti perciò a garantire che gli sviluppi del dopo-voto producano scenari compatibili con i propri interessi strategici in quest’area del pianeta.
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di Michele Paris
Nonostante l’insediamento ufficiale del discusso nuovo presidente delle Filippine, Rodrigo “Rody” Duterte, sia avvenuto soltanto giovedì, le settimane trascorse tra questo evento e le elezioni nel mese di maggio sono già state segnate in maniera drammatica da una peculiarità che ha contraddistinto la sua carriera politica a livello locale. Da oltre un mese, cioè, l’arcipelago-paese del sud-est asiatico è attraversato da un’ondata di omicidi sommari di criminali per lo più di bassa lega per mano delle forze di polizia o di killer appositamente assoldati dalle autorità.
Duterte è stato a lungo sindaco della città di Davao, sull’isola meridionale di Mindanao, e come tale ha presieduto in maniera nemmeno troppo segreta all’attività di squadre della morte che, secondo alcune stime, hanno ucciso più di mille criminali o presunti tali, tra cui un numero consistente di minori.
A questi stessi metodi Duterte aveva fatto riferimento nel corso della campagna elettorale per le presidenziali, durante la quale non si era fatto troppi scrupoli nel promettere un assalto frontale al crimine nel paese, prevedendo la liquidazione fisica di 100 mila malviventi nei primi sei mesi del suo mandato.
Le promesse raccapriccianti di Duterte non sono sparite nemmeno dopo il successo alle urne. Anzi, il presidente-eletto aveva ad esempio annunciato la distribuzione di premi in denaro per ogni criminale assassinato, con importi a scalare a seconda dell’importanza della vittima.
Se anche le dichiarazioni di Duterte fossero da considerare semplici sparate elettorali per fare leva sui sentimenti di frustrazione della popolazione per l’altissimo livello di violenza nelle Filippine, l’impatto sul paese è stato drammatico, visto che dopo la sua vittoria le esecuzioni per mano della polizia hanno fatto registrare una netta impennata.
Il capo della Polizia scelto da Duterte, l’ex capo del dipartimento di Davao, Ronald De la Rosa, qualche settimana fa aveva esortato pubblicamente i suoi uomini a “sparare per uccidere” se i criminali dovessero opporre resistenza o essere armati. Nei giorni scorsi, invece, in una conferenza stampa De la Rosa ha affermato che ai sospettati di crimini legati al narcotraffico sarà garantito “il diritto di rimanere in silenzio – per sempre”.
Secondo i dati della Polizia filippina, quindi con ogni probabilità sottostimati, nelle sei settimane successive alle elezioni presidenziali gli agenti hanno ucciso in maniera sommaria 54 presunti spacciatori o trafficanti di droga, cioè un numero di gran lunga superiore alla media. Ufficialmente, in tutti i casi sarebbero state rispettate le direttive sull’uso della forza, ma un portavoce della Polizia ha ammesso in un’intervista al Wall Street Journal che l’elezione di Duterte “ha rinvigorito gli sforzi nel contrastare il narcotraffico”.
I giornali filippini e la stampa internazionale hanno riportato a partire dal mese di maggio numerosi casi di assassini extra-giudiziari di presunti criminali, i cui cadaveri sono stati spesso contrassegnati da cartelli con frasi che identificavano la vittima come “spacciatore” o invitavano a non seguirne l’esempio.
Varie municipalità hanno inoltre messo taglie in denaro sulla testa dei criminali, dal trafficante di alto livello fino al semplice ladro. Infine, dal mese di maggio si è moltiplicato il numero di vittime causate da sparatorie tra la Polizia e criminali armati.Anche altre politiche repressive per combattere il crimine proposte dal neo-presidente delle Filippine sono già state messe in atto in varie città del paese, come ad esempio il coprifuoco nelle ore notturne, che ha portato all’arresto di centinaia di minori che vivono per strada.
Comprensibilmente, le associazioni a difesa dei diritti civili nelle Filippine hanno sollevato l’allarme sulle conseguenze delle iniziative promesse da Duterte, le quali rischiano appunto di scatenare un’ondata di violenze per mano delle forze dell’ordine e di garantire a queste ultime l’impunità per crimini che non vengono evidentemente considerati come tali dai vertici politici dello stato.
A livello internazionale sono state allo stesso modo organizzazioni come Human Rights Watch a denunciare il fenomeno delle squadre della morte già quando Duterte era sindaco di Davao. Recentemente, il Segretario-Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, si è detto anch’egli “estremamente preoccupato” dalla “apparente approvazione degli assassini extra-giudiziari” da parte del neo-presidente filippino.
Tra i governi occidentali e della regione, invece, è prevalso finora il silenzio. Gli Stati Uniti, ovvero il principale alleato strategico delle Filippine, hanno indirizzato qualche timida critica all’amministrazione entrante a Manila. L’atteggiamento dell’amministrazione Obama appare però particolarmente cauto, in attesa di capire quali saranno gli orientamenti economici e, soprattutto, in politica estera che adotterà Duterte.
Da Washington il problema delle esecuzioni sommarie da parte della Polizia filippina è sentito solo nella misura in cui esso può screditare agli occhi della comunità internazionale il capo di un governo che rappresenta un punto fermo nelle manovre strategiche americane in Estremo Oriente, indirizzate fondamentalmente all’accerchiamento della Cina.
Se apprensioni esistono negli USA per Duterte, esse sono legate alla possibilità che il sostituto del fedelissimo Benigno Aquino, cioè il presidente uscente, opti per scelte di politica estera più indipendenti e promuova quindi un riavvicinamento verso Pechino. Infatti, in campagna elettorale Duterte aveva talvolta prospettato proprio una svolta simile, pur assicurando in molte occasioni il sostanziale allineamento delle Filippine alle esigenze strategiche degli Stati Uniti.
Duterte, ad ogni modo, giovedì nel suo discorso d’insediamento ha mantenuto un tono tutto sommato prudente, evitando le uscite imbarazzanti che avevano caratterizzato la campagna elettorale. A un certo punto ha anche affrontato la questione della “lotta al crimine” e le critiche sollevate dal suo approccio non esattamente democratico. Per confortare i suoi accusatori, il presidente filippino ha ricordato il suo passato da avvocato e procuratore che lo rende consapevole quindi dei limiti legali imposti ai poteri dello stato.
Queste rassicurazioni sono apparse simili a quelle pronunciate dallo stesso Duterte e dai suoi portavoce nelle scorse settimane. Le sue indicazioni sarebbero state cioè di uccidere i criminali non in maniera sommaria, ma “soltanto” se essi rappresentano una minaccia per gli agenti o se fanno resistenza all’arresto.Al di là del prevedibile, anche se relativo, ammorbidimento di Duterte al momento dell’assunzione ufficiale dell’incarico di presidente, la sua ascesa al potere rappresenta l’inquietante avanzamento di forze contrassegnate da tratti apertamente fascisti, nelle Filippine come altrove, in risposta all’aumento delle tensioni sociali e al deteriorarsi della situazione economica.
La presenza di Rodrigo Duterte alla guida di un paese come le Filippine, caratterizzato tradizionalmente da un clima politico e da un sistema legale tutt’altro che estranei alla violenza, nonché al centro della crescente rivalità tra USA e Cina, rischia quindi di produrre una miscela esplosiva e di vanificare i sia pure modesti passi avanti fatti segnare da questo paese sul fronte democratico negli ultimi decenni.
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di Mario Lombardo
Il leader dei Laburisti britannici, Jeremy Corbyn, è diventato il bersaglio di una prevedibile rivolta interna al partito dopo il risultato del referendum di settimana scorsa sull’uscita di Londra dall’Unione Europea. La sua colpa sarebbe quella di non essersi impegnato a sufficienza durante la campagna elettorale a sostegno della permanenza nell’UE. In realtà, il tentativo di golpe nei suoi confronti è stato preparato da tempo e, in definitiva, non fa che confermare tristemente la deriva reazionaria di quello che dovrebbe essere il principale partito della sinistra in Gran Bretagna.
Gli sviluppi interni al Labour erano stati previsti con una certa esattezza ad esempio da un’analisi del giornale filo-Conservatore Daily Telegraph più di una settimana prima del voto sulla Brexit. L’articolo avvertiva che la maggioranza dei parlamentari Laburisti, in caso di sconfitta nel referendum, avrebbe operato un “blitz” mediatico nelle ore successive alla chiusura delle urne al fine di rimuovere Corbyn dalla leadership del partito.
Subito dopo sarebbero partite le dimissioni di massa dei membri del governo-ombra Laburista e un’ondata di critiche pubbliche al numero uno del partito, mentre in pochi giorni avrebbe preso il via la corsa alla sua successione.
In effetti, per chi ha seguito anche in maniera approssimativa le vicende del Labour britannico negli ultimi dieci mesi questi sviluppi non erano così difficili da prevedere. La presunta incapacità di Corbyn di battersi efficacemente per il successo del “Remain” nel referendum è infatti una giustificazione patetica esibita dalla maggioranza di destra del partito per portare a termine un colpo di mano che essa aveva in serbo fin dall’elezione del nuovo leader nel settembre del 2015.
Corbyn era stato eletto con quasi il 60% dei consensi degli iscritti al partito e dei suoi simpatizzanti, i quali avevano potuto scegliere direttamente il leader Laburista grazie alle modifiche al sistema di voto decise nel febbraio del 2014 dall’allora segretario, Ed Miliband, per cercare di avvicinare gli elettori britannici al Labour.
Il suo successo a sorpresa era stato nettissimo, soprattutto grazie alla popolarità della sua agenda progressista dopo decenni di spostamento a destra del partito. Il voto per Corbyn era stato anche una testimonianza dell’ostilità popolare nei confronti dei parlamentari e leader Laburisti vicini agli ex premier Tony Blair e Gordon Brown, come avevano confermato appunto i miseri 19% e 17% raccolti dagli altri due principali candidati alla guida del partito, rispettivamente Andy Burnham e Yvette Cooper.
Il sostegno a Corbyn è stato così garantito dai sostenitori del Labour nel paese e dai principali sindacati, mentre la direzione del partito e la gran parte dei membri del Parlamento si sono rivelati feroci oppositori e hanno cercato costantemente di manovrare per la sua estromissione dalla leadership.
Dopo avere sfruttato una serie di polemiche nei mesi scorsi per esercitare pressioni su Corbyn, i golpisti Laburisti hanno fatto scattare un piano ben congegnato immediatamente dopo il referendum sulla Brexit. Già venerdì, le deputate Margaret Hodge e Ann Coffey avevano presentato una mozione di sfiducia contro Corbyn. Domenica, poi, il ministro-ombra degli Esteri, Hilary Benn, aveva comunicato a quest’ultimo di avere perso ogni fiducia nella sua leadership, venendo quindi subito sollevato dal suo incarico.Il doveroso licenziamento di Benn ha innescato a partire da lunedì una valanga di dimissioni tra i membri del governo-ombra, tanto che Corbyn ha faticato a scegliere tutti i sostituti da nominare ai posti rimasti vacanti. A questa clamorosa manifestazione di dissenso si sono aggiunti numerosi commenti sui principali giornali che hanno diligentemente invitato Corbyn a farsi da parte o i suoi oppositori a portare a termine il cambio alla guida del partito, quasi sempre in nome del bene del Labour e della Gran Bretagna.
Martedì, infine, l’assemblea dei parlamentari Laburisti ha votato a larga maggioranza una mozione di sfiducia contro il proprio leader (172 a 40), ma la mossa non costituisce affatto l’epilogo della vicenda. Infatti, come ha risposto correttamente Corbyn, la mozione non è vincolante e lo statuto del Labour non prevede l’avvicendamento della leadership tramite un voto di questo genere.
Corbyn si è così rifiutato di dimettersi, almeno per il momento, e ha invitato i suoi oppositori a sfidarlo in una nuova elezione a cui dovranno partecipare, come lo scorso anno, gli iscritti e i sostenitori del partito. I fedelissimi di Corbyn in questi giorni stanno facendo appello al rispetto delle norme previste dal partito, essendo ben consapevoli della determinazione della destra del Labour nel raggiungere il proprio obiettivo al di là delle regole e della volontà degli elettori.
Se, normalmente, un candidato alla segreteria ha bisogno di una cinquantina di membri del Parlamento che lo sponsorizzino, numero difficile da raggiungere al momento per Corbyn, il leader in carica del partito può automaticamente prendere parte alla competizione. Corbyn e i suoi puntano precisamente su quest’ultima norma, certi che una nuova consultazione darà un esito simile a quello dello scorso anno.
Mentre in Parlamento e negli uffici del Labour andava in scena la rivolta contro Corbyn, a Londra si sono mobilitati decine di migliaia di suoi sostenitori e una petizione on-line a favore del segretario del partito ha raccolto ben 230 mila firme, cioè circa la metà del numero dei votanti nell’ultima elezione per la leadership Laburista.
Se la destra del partito rispetterà le regole di voto attuali, Corbyn sembra avere buone probabilità di essere confermato alla guida del Labour, sia pure a costo di una possibile spaccatura o scissione del partito. I suoi oppositori stanno cercando invece di coalizzarsi attorno a un unico candidato, in modo da non disperdere il voto di coloro che non sono intenzionati a scegliere Corbyn.
Secondo le notizie che arrivano da Londra, sarebbero due i contendenti rimasti, l’ex ministro-ombra delle Attività Produttive, Angela Eagle, e il numero due del Labour, Tom Watson. La prima venne promossa a incarichi di rilievo nel partito da Tony Blair e ha fatto parte del governo Brown, così come Watson. Quest’ultimo, però, ha invitato a rallentare sulla questione del voto per la leadership, preferendo attendere che Corbyn si faccia da parte volontariamente.
Watson comprende perfettamente che un voto popolare nel breve periodo riconsegnerebbe con ogni probabilità a Corbyn la leadership del partito. Per questa ragione invita ad attendere che le pressioni, gli attacchi e le denunce facciano il loro corso fino a spingere alle dimissioni un leader che non si è certo distinto finora per risolutezza e decisione.
La Brexit ha dunque offerto l’occasione alla destra Laburista di provare a dare la spallata definitiva alla leadership di Jeremy Corbyn, nonostante la sconfitta nel referendum costituisca senza dubbio un motivo di imbarazzo soprattutto per il primo ministro Conservatore, David Cameron. Anzi, secondo una strategia sensata, il colpo subito dal capo del governo avrebbe dovuto suggerire al Labour di unirsi attorno al proprio leader e accelerare la crisi dei “Tories”, così da giungere a elezioni anticipate con realistiche chances di successo.Il Labour ha al contrario optato per una strategia suicida su iniziativa dell’accozzaglia di parlamentari della galassia “Blairita”, già responsabili della trasformazione del partito in un baluardo delle politiche guerrafondaie e di libero mercato. L’impressione, osservando le vicende di questi giorni, è che la destra Laburista veda con orrore un successo del proprio partito alle elezioni sotto la leadership di Corbyn.
Un governo guidato da quest’ultimo potrebbe d’altronde mobilitare, almeno potenzialmente, milioni di giovani, lavoratori e appartenenti alle classi medie contro guerre e austerity, complicando l’implementazione dell’agenda reazionaria imposta dai grandi interessi economici e finanziari, a cui gli oppositori di Corbyn nel Labour fanno appunto riferimento.
In ultima analisi, comunque, le responsabilità di Corbyn nella situazione di crisi in cui si trova il suo partito e la sua leadership non sono da trascurare. Dopo l’elezione a settembre, infatti, la sua gestione è stata improntata alla ricerca dell’unità e del compromesso con i suoi oppositori interni, coltivando l’illusione - oggettivamente fuori dalla realtà - di poter cambiare il Labour e farlo diventare un partito al servizio delle classi più disagiate.
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di Michele Paris
L’inaspettata decisione degli elettori britannici di trascinare il proprio paese fuori dall’Unione Europea sta avendo ripercussioni tutt’altro che indifferenti sugli Stati Uniti, alla luce dell’importanza di Londra nell’assicurare che gli orientamenti strategici ed economici del vecchio continente rimangano indirizzati verso Washington.
Il voto della settimana scorsa è arrivato oltretutto in un frangente storico segnato da una particolare aggressività americana nel promuovere i propri interessi in Europa, come confermano ad esempio i progetti legati al trattato transatlantico di libero scambio (TTIP) e all’accerchiamento della Russia, entrambi in pericolo senza la presenza della Gran Bretagna nell’Unione.
Il sintomo dei malumori e delle apprensioni che circolano negli ambienti di potere a Washington si può dedurre forse proprio dalle insistenti rassicurazioni di vari membri dell’amministrazione Obama sul fatto che le relazioni con Londra e Bruxelles rimarranno sostanzialmente immutate.
Già domenica scorsa, il consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente, Susan Rice, aveva detto di attendersi dalla Brexit “relativamente poche” implicazioni immediate sulla sicurezza degli USA. Lunedì a Londra, il segretario di Stato, John Kerry, nel corso di una conferenza stampa con il suo omologo britannico, Philip Hammond, ha a sua volta ribadito la “relazione speciale” che lega i due alleati, sia pure sentendosi in dovere di chiedere agli altri paesi UE di evitare sentimenti di “rabbia” o “ritorsioni” nelle trattative con il governo di Londra.
Come già aveva fatto il giorno prima a Roma incontrando il ministro degli Esteri Gentiloni, l’ex senatore Democratico ha invitato entrambe le parti a mostrare “saggezza” e “responsabilità” nelle scelte che dovranno essere prese, facendo trasparire il desiderio di Washington di conservare gli equilibri attuali in larga misura favorevoli agli Stati Uniti.
I toni accomodanti mantenuti a livello ufficiale dall’amministrazione Obama in questi giorni si accompagnano però probabilmente all’espressione privata di un netto disappunto per l’esito del referendum e delle prospettive future sull’asse Washington-Londra-Bruxelles.
Un assaggio della reale disposizione del governo USA nei confronti della Brexit si era avuto lo scorso mese di aprile durante la visita del presidente Obama in Gran Bretagna. In quell’occasione, discutendo dei negoziati sul TTIP, con toni insolitamente duri l’inquilino della Casa Bianca aveva avvertito i cittadini e soprattutto il governo britannico che l’uscita dall’UE avrebbe potuto mettere il loro paese “in fondo alla coda” per quanto riguarda la stipula di simili trattati con Washington, lasciando intendere possibili conseguenze negative sulle relazioni bilaterali.A dare sfogo alle preoccupazioni che circolano negli USA dopo la Brexit sono stati allora alcuni organi di stampa ufficiali, come il New York Times, spesso vero e proprio portavoce dell’amministrazione Obama. In un’analisi apparsa questa settimana, il giornale di New York ha descritto la Gran Bretagna come l’alleato americano meglio disposto sul fronte della sicurezza, ma anche “il “più efficiente nell’ambito dell’intelligence” e il più “entusiasta” nell’abbracciare i principi del libero mercato tradizionalmente promossi dagli Stati Uniti.
Soprattutto, prosegue il Times, “pochi paesi erano pronti”, come la Gran Bretagna, “a intervenire nel dibattito europeo per orientarlo verso le direzioni preferite dagli Stati Uniti”. L’influenza di Londra a favore degli USA, ora “improvvisamente ridimensionata”, si faceva sentire in particolare nel “porre un limite alle richieste europee in ambito commerciale” e nel “convincere gli altri paesi a contribuire maggiormente alle missioni militari della NATO”.
Le recriminazioni di Washington in merito alla Brexit appaiono dunque evidenti. Il timore principale è quello di perdere lo strumento privilegiato con cui gli Stati Uniti avevano la possibilità di influenzare, almeno in parte, le scelte dell’Unione Europea. Il ruolo di Londra all’interno dell’UE, secondo gli USA, era cioè di garantire l’accoglimento delle posizioni americane nel vecchio continente e, assieme, di evitare un eccessivo allontanamento da esse.
L’eventuale perdita della Gran Bretagna come trait d’union tra le due sponde dell’Atlantico è tanto più dolorosa per Washington in quanto giunge in un momento in cui il lavoro di Londra sarebbe risultato cruciale nel portare a compimento una serie di iniziative ritenute fondamentali per gli interessi americani.
Queste ultime, come già anticipato, sono principalmente l’approvazione della travagliata Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti (TTIP), strumento di penetrazione del capitale USA in Europa e osteggiato da molti governi, e l’espansione verso est della Nato attraverso la militarizzazione dei confini con la Russia.
L’ansia trapelata dalle parole pronunciate da Kerry a Roma, Londra e Bruxelles in questi giorni è d’altra parte comprensibile, visto che su queste e altre questioni sono emersi da tempo disaccordi e divisioni anche profonde all’interno dell’UE. L’incubo di Washington è legato così all’esplosione delle forze centrifughe che erano state in parte contenute anche dalla Gran Bretagna e che ora rischiano invece di mettere in discussione l’idea stessa di un’Europea ancorata strategicamente ed economicamente agli Stati Uniti.
In sostanza, gli scenari post-Brexit potrebbero riservare il crollo del regime delle sanzioni contro Mosca, l’attenuarsi della spinta verso est dell’Alleanza Atlantica e lo svincolo, da parte di svariati paesi europei, a cominciare dalla Germania, dal rigore dettato da Washington nei confronti della Russia.Proprio il ruolo tedesco è stato valutato con attenzione nel già citato articolo del New York Times. Nell’escludere di fatto la possibilità che Berlino possa ricoprire in futuro i compiti svolti da Londra a beneficio degli USA, il Times prefigura chiaramente l’emergere di possibili conflitti tra Stati Uniti e Germania, pur mancando di spiegarne la ragione principale, ovvero che anche quest’ultimo paese nutre sempre più ambizioni da grande potenza e i suoi interessi tendono a divergere da quelli americani.
Nella peggiore delle ipotesi per gli USA, infine, l’uscita della Gran Bretagna dall’UE potrebbe ridurre sensibilmente le pressioni sulla Russia, ma anche sulla Cina, favorendo nel medio e lungo periodo il processo d’integrazione economico-strategica dell’immensa regione euro-asiatica. Un’evoluzione, quest’ultima, peraltro già in atto e che rappresenta un’autentica minaccia per gli Stati Uniti e per il miraggio di un mondo unipolare sotto la guida di un’unica grande potenza.