di Michele Paris

Il terzo giorno della nuova offensiva criminale delle forze armate israeliane nella striscia di Gaza si è aperto giovedì con un altro ingiustificabile massacro nel quale hanno perso la vita otto membri di una singola famiglia, di cui cinque bambini, quando la loro abitazione è stata colpita da un bombardamento poco prima dell’alba.

Il bilancio provvisorio e destinato a crescere drammaticamente delle prime fasi dell’operazione denominata con il consueto cinismo “Margine Protettivo” è già di oltre ottanta palestinesi uccisi, quasi tutti civili innocenti, e centinaia di feriti.

Solo poche ore dopo l’inizio dei bombardamenti su Gaza, le stragi di cui il governo di Israele si è reso responsabile sono state innumerevoli, tra cui quella avvenuta nella serata di mercoledì nella località meridionale di Khan Younis, dove un gruppo di amici stava assistendo alla semifinale della coppa del mondo di calcio. Sul gruppo di palestinesi riuniti in un caffè è caduto un missile israeliano che ha fatto almeno otto morti.

Oltre a obiettivi simili, Israele considera legittima anche la distruzione delle abitazioni dei leader di Hamas e Jihad Islamica, nonostante i bombardamenti contro di esse continuino a registrare la morte dei loro famigliari innocenti, in gran parte donne e bambini.

Il sangue dei palestinesi a Gaza contrasta fortemente con la pressoché totale assenza di danni a persone o a edifici in Israele a seguito delle centinaia di razzi che Hamas e altre formazioni islamiste stanno lanciando contro il proprio vicino e che sarebbero la ragione della furia distruttiva sionista.

Se da parte palestinese l’arsenale di armi a disposizione sembrerebbe essere aumentato ed è diventato più sofisticato negli ultimi anni, la capacità di infliggere perdite o danni significativi a Israele rimane estremamente modesta, anche perché Tel Aviv, grazie agli Stati Uniti, può contare da qualche tempo sul sistema missilistico difensivo relativamente efficace “Cupola di Ferro”.

Nella giornata di giovedì, il premier israeliano Netanyahu ha affermato che l’ipotesi di una tregua non è nemmeno in agenda. Il capo del governo è esposto alle pressioni dei falchi all’interno del suo gabinetto di estrema destra per intraprendere un’azione punitiva di terra a Gaza contro Hamas. Un’iniziativa di questo genere sarebbe la prima dal 2009, quando l’operazione “Piombo Fuso” fece in tre settimane qualcosa come 1.400 morti tra i palestinesi. In preparazione di un’invasione, i vertici delle forze armate israeliane hanno annunciato di avere già richamato 20 mila riservisti.

Le minacce indirizzate dai membri del governo di Israele contro Hamas lasciano presagire un’azione ancora più dura nella striscia di Gaza, ma un eventuale intensificarsi delle operazioni militari esporrebbe Netanyahu a rischi non trascurabili. Le condanne internazionali - sia pure di circostanza - sono già arrivate numerose nelle scorse ore e un coinvolgimento ancora maggiore delle proprie forze armate, con un numero di vittime destinato a salire vertiginosamente, finirebbe per isolare ancora di più lo stato ebraico che, oltretutto, potrebbe non trovare facili vie d’uscita vista l’assenza di interlocutori con cui trattare.

Ciò è dovuto in gran parte all’atteggiamento del governo egiziano, il quale, a differenza di quanto era quasi sempre accaduto durante le precedenti incursioni israeliane nei territori palestinesi, rimane oggi colpevolmente indifferente ai fatti in corso a Gaza. Il neo-presidente, Abdel Fattah al-Sisi, non appare cioè disposto a mediare un cessate il fuoco, visto che il suo regime vedrebbe con favore l’annientamento di Hamas.

Un portavoce di Sisi, in realtà, ha sostenuto che la diplomazia egiziana è in contatto con le parti in conflitto, ma non con i vertici di Hamas, rendendo qualsiasi tentativo di mediazione del tutto inutile. Come è noto, il regime militare del Cairo nell’ultimo anno ha represso nel sangue l’organizzazione islamista dei Fratelli Musulmani, di cui Hamas è una sorta di versione palestinese.

L’Egitto, inoltre, ha tenuto sigillati i valichi di frontiera con Gaza, impedendo anche i trasferimenti umanitari, fino alla mattinata di giovedì, quando ha deciso di aprire quello di Rafah per consentire l’ingresso nel paese di centinaia di palestinesi feriti nei raid israeliani.

L’assalto israeliano a Gaza, in ogni caso, continua ad avvenire con il sostegno dei principali sponsor occidentali di Tel Aviv, a cominciare dagli Stati Uniti. Da Washington sono giunti appelli meccanici alla moderazione ma anche e soprattutto l’appoggio a una campagna assurdamente definita “difensiva” per interrompere i lanci di razzi da parte palestinese.

L’operazione in corso viene d’altra parte presentata dal governo israeliano come inevitabile per la difesa del paese e le responsabilità assegnate interamente a Hamas. Anzi, le stesse vittime civili sarebbero dovute non alla deliberata criminalità con cui opera Israele, bensì agli stessi gruppi islamisti operanti a Gaza, visto che essi devono pagare le conseguenze della rappresaglia, in realtà diretta però contro la resistenza all’occupazione e all’assedio dei territori palestinesi.

Simili interpretazioni sono assecondate da buona parte della stampa occidentale, nonostante le presunte “provocazioni” di Hamas anche in questo caso non siano altro che la conseguenza delle azioni di Israele. La tensione era infatti tornata a salire da qualche settimana in seguito al rapimento il 12 giugno scorso di tre giovani israeliani da un insediamento illegale in Cisgiordania. Il governo di Netanyahu ne aveva attribuito la responsabilità a Hamas senza presentare peraltro alcuna prova.

La vicenda aveva così permesso a Israele di iniziare in Cisgiordania una campagna militare fatta di arresti, demolizioni di abitazioni e assassini di palestinesi, ufficialmente per individuare i responsabili del rapimento e della conseguente uccisione dei tre ragazzi.

Successivamente, è emerso tuttavia che il governo era venuto a conoscenza quasi subito della morte dei tre teenager israeliani poco dopo il rapimento grazie a una registrazione audio nella quale si sentivano le voci dei giovani, seguite da colpi di arma da fuoco e da alcune frasi dei rapitori.

Ciononostante, Netanyahu ha nascosto questa informazione anche agli stessi familiari dei ragazzi rapiti, utilizzando la speranza di un loro ritrovamento come giustificazione per mettere a ferro e fuoco i territori palestinesi occupati. Uno degli obiettivi principali di Israele era quello di dividere l’Autorità Palestinese e Hamas, reduci dalla recente firma di un accordo per la formazione di un governo di unità nazionale.

Queste operazioni israeliane hanno dunque provocato la prevedibile reazione di Hamas, Jihad Islamica e altre formazioni, le quali hanno iniziato a lanciare razzi contro Israele, fornendo a Netanyahu il desiderato casus belli per scatenare la nuova offensiva attualmente in corso.

Della nuova guerra a Gaza ha parlato anche il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, descrivendo la situazione “preoccupante”. L’ex diplomatico sudcoreano non si è però discostato dalle dichiarazioni dei governi occidentali che continuano a mettere sullo stesso piano i lanci di razzi di Hamas e la campagna di morte israeliana. Ban ha anzi “condannato fermamente” i lanci di razzi da Gaza, mentre si è limitato a invitare Netanyahu alla “massima moderazione”, deprecando il “numero crescente di vittime civili” nella striscia.

Una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza si è tenuta infine giovedì, con i governi di Israele e degli Stati Uniti che hanno manovrato per evitare un’imbarazzante risoluzione di condanna dell’offensiva su Gaza. Dopo che lo stesso segretario generale ha invitato le due parti in guerra ad adoperarsi per una tregua, al Palazzo di Vetro sono circolate voci su una possibile sterile proposta della Giordania, secondo la quale il Consiglio di Sicurezza potrebbe approvare un appello non vincolante per il cessate il fuoco immediato.

di Mario Lombardo

Lo smascheramento e l’arresto di una spia tedesca, che per qualche anno avrebbe consegnato documenti segreti al governo americano, hanno innescato un nuovo scontro diplomatico tra Washington e Berlino con dure prese di posizione nei confronti degli Stati Uniti da parte di svariati esponenti di spicco del gabinetto di Angela Merkel. I toni accesi del governo della cancelliera, a fronte di una vicenda dall’importanza relativamente trascurabile, sembrano suggerire la presenza di crescenti tensioni tra i due paesi alleati, già emerse nella gestione della crisi ucraina e delle iniziative da intraprendere contro la Russia di Putin.

Come ampiamente riportato dai media nei giorni scorsi, qualche giorno fa l’ufficio del procuratore federale di Karlsruhe, in Germania, aveva rivelato il fermo di un 31enne impiegato del BND (Bundesnachrichtendienst) - il servizio segreto estero tedesco - che avrebbe confessato di avere contattato l’ambasciata americana a Berlino sul finire del 2012 per offrire la propria collaborazione.

L’uomo ricopriva un incarico di basso livello in un ufficio del BND nei pressi di Monaco e avrebbe passato alla CIA circa 200 documenti “confidenziali” e “top secret” ricevendo un compenso di 25 mila euro. A fine maggio, il sospettato aveva però preso contatti anche con il consolato russo nella città della Baviera, proponendo i suoi servizi a Mosca.

Questa mossa è stata intercettata dai servizi segreti interni che hanno messo l’uomo sotto controllo per alcune settimane per poi arrestarlo giovedì scorso. Inizialmente, i sospetti si erano concentrati su una sua possibile collaborazione con la Russia ma è stato poi egli stesso a confessare di avere lavorato soltanto per gli americani.

Ai servizi segreti USA, l’agente tedesco avrebbe fornito, tra l’altro, documenti concernenti l’attività della commissione parlamentare tedesca che sta investigando sulle operazioni di intercettazione condotte dall’intelligence a stelle e strisce sul territorio della Germania e rivelate nei mesi scorsi da Edward Snowden.

All’indomani della diffusione della notizia dell’arresto della spia tedesca al servizio degli Stati Uniti, la classe dirigente tedesca e i principali media hanno iniziare a puntare il dito contro l’amministrazione Obama e a chiedere spiegazioni sull’imbarazzante vicenda. Addirittura, il 4 luglio scorso, giorno dell’indipendenza americana, il governo di Berlino ha convocato al ministero degli Esteri l’ambasciatore USA in Germania, John Emerson, per fare luce sui fatti.

Giornali come il Süddeutsche Zeitung o la Bild, intanto, hanno pubblicato accesi editoriali - firmati anche da commentatori considerati filo-americani - nei quali è stata sottolineata la gravità dell’episodio e si è fatto appello al governo per mettere fine alla tradizionale sottomissione agli Stati Uniti.

Secondo quanto riportato dalla stessa Bild, inoltre, il ministro degli Interni tedesco, Thomas de Maizière, sarebbe intenzionato a dare indicazioni all’intelligence del suo paese per monitorare le comunicazioni di paesi alleati come Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. In precedenza, la cancelleria tedesca aveva al contrario raccomandato alle proprie agenzie spionistiche di escludere dalle loro attività di raccolta informazioni i paesi membri della NATO.

Sull’intrigo sono poi intervenuti in rapida successione quasi tutti gli esponenti più importanti dello Stato. Il presidente Joachim Gauck, ad esempio, ha affermato che l’operazione americana ai danni dell’alleato tedesco mette a rischio la stretta alleanza tra i due paesi. Il ministro degli Esteri, il socialdemocratico Franz-Walter Steinmeier, nel corso di una visita in Mongolia ha escluso che la vicenda ammonti a “una cosa da nulla”, chiedendo al governo USA di fornire al più presto chiarimenti.

Lunedì, infine, la stessa Merkel ha fatto riferimento alla storia come a un “fatto molto serio”, accusando gli Stati Uniti di avere compromesso il rapporto di fiducia con la Germania. Significativamente, la cancelliera tedesca ha rilasciato le proprie dichiarazioni dalla Cina, paese con il quale la Germania ha stabilito da tempo solidi rapporti commerciali e che è invece il bersaglio di un’escalation di provocazioni diplomatiche e militari da parte americana.

Da Washington, le reazioni sono state contenute e per lo più improntate a rassicurare che i due paesi stanno lavorando congiuntamente per chiarire la vicenda. Sempre lunedì, però, l’agenzia di stampa Reuters ha citato fonti anonime all’interno della CIA che hanno confermato come l’agenzia di Langely fosse coinvolta nell’operazione che aveva portato al reclutamento del 31enne dipendente dei servizi segreti tedeschi.

A conferma della delicatezza della situazione, la stessa Reuters ha poi scritto che il direttore della CIA, John Brennan, avrebbe chiesto di riferire ai leader del Congresso di Washington in merito alla questione.

Il polverone provocato dal doppio agente tedesco sembra apparentemente ingiustificato alla luce del numero esiguo di documenti che quest’ultimo avrebbe consegnato agli americani e dalla sua mansione tutt’altro che di rilievo nel BND, nonostante alcuni giornali abbiano scritto che l’uomo aveva contatti con il numero uno dell’intelligence esterna, Gerhard Schindler.

Soprattutto, le dure reazioni di politici e media in Germania appaiono decisamente eccessive se accostate a quelle relativamente deboli seguite alle rivelazioni ben più gravi di Edward Snowden. L’ex contractor della NSA aveva diffuso documenti nei quali emergeva come gli Stati Uniti avessero monitorato illegalmente le comunicazioni di decine di milioni di cittadini tedeschi, nonché tenuto sotto controllo il telefono personale della cancelliera Merkel.

In questo caso, di fronte all’ondata di indignazione nel paese, il governo di Berlino era stato costretto a lanciare un’indagine parlamentare ma a Snowden era stato impedito di viaggiare dalla Russia alla Germania per testimoniare di persona sulle attività della NSA. La Merkel aveva poi chiesto inutilmente all’amministrazione Obama di sottoscrivere un patto che impegnava i due paesi a non spiarsi a vicenda ma, sostanzialmente, l’impegno tedesco è stato rivolto a minimizzare l’impatto delle rivelazioni di Snowden.

Proprio queste ultime hanno d’altra parte mostrato le ragioni della prudenza di Berlino e, allo stesso tempo, sollevano ora più di un interrogativo sulle prese di posizione del governo seguite all’arresto della spia tedesca.

Rivelazioni e testimonianze nei mesi scorsi hanno infatti evidenziato la strettissima collaborazione tra la CIA e la NSA da una parte e l’intelligence tedesca dall’altra nella messa in atto di programmi illegali di sorveglianza ai danni dei cittadini in Germania. Questa partnership rende perciò estremamente improbabile che un impiegato qualunque della BND abbia potuto rivelare informazioni segrete di rilievo agli Stati Uniti.

Dietro allo scontro potrebbero esserci dunque altre motivazioni, probabilmente da ricercare nel crescente conflitto che caratterizza i rapporti bilaterali tra USA e Germania in concomitanza con l’intensificarsi della crisi economica globale e il conseguente riassetto degli obiettivi strategici di Berlino.

A questo proposito, è interessante ricordare come i giornali tedeschi da qualche tempo siano impegnati a propagandare la necessità di una più intraprendente politica estera del loro paese, resasi necessaria dal relativo disimpegno a livello internazionale degli Stati Uniti e dall’esplodere di continue crisi in varie parti del pianeta che mettono in pericolo i mercati o le fonti di approvvigionamento energetico della Germania.

Se il nuovo ruolo tedesco sulla scena globale non presuppone in nessun modo l’abbandono dell’alleanza con gli USA, è più che evidente che la difesa di alcuni interessi della Germania provochino scontri o conflitti con Washington. Ciò risulta chiaro non solo nel caso della Cina ma anche e soprattutto della Russia, con la quale Berlino vanta ugualmente rapporti commerciali molto solidi e, per questa ragione, ha finora assunto una posizione più cauta sulla crisi ucraina nonostante le pressioni di Washington per assumere una linea più dura verso il Cremlino.

Le critiche rivolte agli Stati Uniti nei giorni scorsi dalle élite tedesche sembrano in definitiva riflettere il desiderio di certe sezioni della classe dirigente indigena di prendere una qualche distanza dai tradizionali alleati, così da adottare una politica estera più equlibrata e adeguata ai propri interessi economici.

Anche solo l’ipotesi di una simile svolta strategica da parte di un paese così importante come la Germania non può essere comunque accettata pacificamente a Washington, come dimostra appunto l’attività di sorveglianza condotta dalla NSA contro i vertici dello stato tedesco.

Altri segnali, infine, vengono lanciati dal centro dell’impero agli alleati inquieti, come conferma la recentissima notizia dell’azione legale che sarebbe stata avviata negli Stati Uniti nei confronti della seconda banca tedesca, Commerzbank, di proprietà del governo di Berlino per il 17%.

Come già fatto con la francese BNP Paribas, le autorità americane hanno messo sotto accusa Commerzbank e, a breve, potrebbero fare lo stesso con Deutsche Bank con il pretesto che questi colossi finanziari hanno fatto affari con paesi sulla lista nera di Washington, sanzionati con misure punitive unilaterali del governo degli Stati Uniti.

di Michele Paris

A poche settimane dall’elezione alla presidenza dell’Egitto, l’ex generale Abdel Fattah al-Sisi ha annunciato un’iniziativa richiesta da tempo dagli ambienti finanziari internazionali e dal business indigeno. La graduale eliminazione dei sussidi statali per i prodotti energetici ha causato l’immediata impennata dei prezzi dei carburanti, colpendo duramente le fasce più povere della popolazione e provocando manifestazioni di protesta che potrebbero rapidamente allargarsi nel prossimo futuro.

Nonostante fosse nell’aria, la misura è scattata a sorpresa nella notte tra sabato e domenica e rientra nel piano del regime per ridurre il deficit pubblico di 48 miliardi di lire egiziane (4,94 miliardi di euro), in modo da portarlo al 10% del PIL. Il totale dei sussidi che saranno cancellati ammonta a 44 miliardi di lire egiziane, equivalenti a circa 4,5 miliardi di euro.

Da un giorno all’altro, così, gli egiziani hanno visto aumentare il prezzo della benzina per i mezzi di trasporto fino al 78% e il diesel del 64%. I più colpiti sono stati però i proprietari di auto con impianti a gas, poiché in questo caso gli aumenti sono stati addirittura del 175%. Tra i maggiori consumatori di gas per auto figurano i tassisti egiziani che, infatti, hanno dato vita nel fine settimana a proteste improvvisate, disperse con gas lacrimogeni dalla polizia, soprattutto al Cairo ma anche a Suez e Ismailia.

L’effetto dei sussidi va ad aggiungersi poi a un altro recentissimo decreto firmato da Sisi che aumenta le tasse su tabacco e alcolici, nonché più in generale a un’inflazione in costante aumento, soprattutto per i beni alimentari.

Per finanziare i sussidi nel settore energetico e per i beni alimentari, l’Egitto spende ogni anno circa un terzo del bilancio pubblico. Vista la loro entità, i sussidi sono tradizionalmente criticati dagli ambienti di potere nazionali ed esteri perché considerati uno spreco di denaro pubblico e una distorsione intollerabile del mercato.

I principali media, inoltre, continuano a sostenere che i prezzi artificialmente bassi di alcuni beni di prima necessità favoriscono in larga misura i cittadini più benestanti, i quali oltretutto non ne avrebbero nemmeno bisogno. I sussidi statali, in realtà, nonostante riguardino anche le aziende, consentono agli egiziani che appartengono alle classi più disagiate di sopravvivere a fronte di livelli drammatici di povertà e di disoccupazione.

Quella annunciata domenica è comunque solo la prima fase di un progetto che, nel caso dovesse andare in porto, prevede la rimozione di tutti i sussidi del settore energetico in un periodo dai tre ai cinque anni. Secondo quanto affermato in maniera improbabile dal primo ministro egiziano, Ibrahim Mehleb, le risorse così risparmiate consentiranno di liberare risorse che il governo potrebbe spendere nel settore sanitario e in quello dell’educazione.

Implementati per alleviare la povertà e contenere le tensioni sociali, i sussidi statali in Egitto non erano mai stati toccati nei tre decenni dell’era Mubarak, mentre della loro eliminazione si è iniziato a discutere dopo la rivoluzione del 2011.

Il presidente eletto tra le fila dei Fratelli Musulmani, Mohamed Mursi, aveva negoziato un prestito da 4,8 miliardi di dollari con il Fondo Monetario Internazionale (FMI), a patto che l’Egitto procedesse con un piano di austerity che comprendeva, appunto, la riduzione dei sussidi.

Con l’economia in caduta libera e il malumore crescente tra la popolazione, la questione del taglio dei sussidi non è stata però affrontata in maniera concreta e il prestito del FMI è rimasto congelato. La decisione presa settimana scorsa dal regime non è ufficialmente legata ai negoziati col Fondo, anche se il ministro delle Finanze, Hany Kadri, ha affermato che l’Egitto avrebbe ora diritto ad accedere al prestito perché sta adottando “riforme più dure” di quelle richieste dal FMI.

La decisione di Sisi ricorda invece quella presa nel gennaio 1977 dall’allora presidente egiziano Anwar al-Sadat. In quell’occasione, l’eliminazione dei sussidi per i beni alimentari di prima necessità - su richiesta del FMI e della Banca Mondiale - fece scoppiare la protesta di centinaia di migliaia di egiziani delle classi più povere, ai quali il regime rispose con l’intervento dell’esercito. Dopo giorni di scontri e un’ottantina di morti, fu solo il ripristino dei sussidi a riportare l’ordine nel paese nordafricano.

I timori per una nuova esplosione di rabbia tra la popolazione pervadono anche oggi la classe dirigente egiziana. La recente elezione a presidente con una percentuale schiacciante, nonostante l’astensionismo di massa, deve avere però convinto Sisi di essere sufficientemente forte da far digerire a decine di milioni di persone un drastico aumento del costo della vita.

Meno sicuri sono apparsi al contrario quasi tutti i partiti politici egiziani. Se quelli di ispirazione liberista hanno tiepidamente applaudito l’iniziativa, pur criticando le modalità con cui la soppressione di alcuni sussidi è stata frettolosamente implementata, altre formazioni di sinistra hanno bocciato la decisione del governo.

L’atteggiamento critico di questi ultimi partiti appare tuttavia poco più di una manovra politica, dal momento che essi avevano in gran parte appoggiato il colpo di stato militare guidato da Sisi nel luglio dello scorso anno, contribuendo a promuovere l’immagine “democratica” dell’ex generale nonostante fosse più che evidente la natura contro-rivoluzionaria del colpo di mano ai danni del presidente eletto Mursi.

L’offensiva del nuovo regime contro i lavoratori e i poveri egiziani, d’altra parte, conferma ancora una volta come il golpe portato a termine poco più di un anno fa non abbia rappresentato in nessun modo un’azione volta a difendere le conquiste rivoluzionarie del 2011.

Al contrario, la manovra dei militari - appoggiata dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Occidente - si era resa necessaria per bloccare sul nascere una nuova mobilitazione popolare e riportare una qualche stabilità nel paese, così da procedere con le richieste del capitalismo domestico e internazionale. In questa prospettiva, la soppressione dei sussidi statali è solo la prima delle “riforme” che il nuovo governo ha in serbo per la popolazione egiziana.

di Michele Paris

Questa settimana, un tribunale cileno ha ufficialmente riconosciuto la responsabilità dei servizi segreti degli Stati Uniti nella morte nell’autunno del 1973, per mano del neo-installato regime golpista di Augusto Pinochet, di due giornalisti americani. Secondo il giudice Jorge Zepeda, “l’intelligence statunitense ha avuto un ruolo fondamentale nell’omicidio dei due cittadini americani… fornendo ai vertici militari del Cile le informazioni che hanno portato alla loro morte”.

Lo stesso giudice ha individuato nel capitano americano Ray Davis la persona che passò le informazioni sui due sostenitori del governo socialista di Salvador Allende - il 31enne Charles Horman e il 24enne Frank Teruggi - al suo contatto all’interno del regime cileno, Raúl Monsalve.

Grazie a queste informazioni, Horman e Teruggi furono arrestati pochi giorni dopo il colpo di stato contro Allende dell’11 settembre 1973, portati allo stadio Nazionale di Santiago, trasformato dai militari in centro di detenzione, e successivamente torturati e uccisi.

Il giudice Zepeda ha anche confermato una precedente sentenza che ordinava l’incriminazione del colonnello cileno in pensione Pedro Espinoza per i due omicidi e dell’ex agente del controspionaggio Rafael Gonzalez per complicità nell’omicidio di Charles Horman.

I due giovani giornalisti americani erano giunti in Cile dopo l’elezione di Allende e lavoravano per una pubblicazione di sinistra nella capitale, Santiago. Horman, inoltre, stava indagando sul ruolo svolto dal governo americano nel golpe e, con ogni probabilità, era entrato in possesso di informazioni sensibili visto che alla vigilia dell’azione dei militari cileni si trovava a Vina del Mar, di fatto quartier generale dei golpisti e degli agenti degli Stati Uniti con cui stavano organizzando il rovesciamento del governo legittimo.

Un’amica di Horman che si trovava in vacanza a Vina del Mar - Terry Simon - avrebbe in seguito rivelato che lei e il giornalista avevano visto navi da guerra degli Stati Uniti nella località vicina a Valparaiso e parlato con ufficiali americani, chiaramente euforici per gli eventi in corso a Santiago.

Horman e Terry Simon ottennero poi un passaggio in auto per la capitale dal capitano Davis, all’epoca capo del cosiddetto “Gruppo Militare” presso l’ambasciata americana, il quale aveva ultimato la sua visita settimanale al porto di Valparaiso. Due giorni più tardi, nel pieno dell’ondata di arresti di militanti di sinistra e sostenitori del governo Allende scatenata da Pinochet, i militari cileni rapirono Charles Horman.

Quasi contemporaneamente, la stessa sorte toccò anche a Frank Teruggi e al suo coabitante, David Hathaway. Teruggi scomparve dopo il secondo interrogatorio sostenuto all’interno dello stadio di Santiago, mentre Hathaway venne rilasciato e potè rientrare negli Stati Uniti.

Il cadavere di Teruggi - con la gola tagliata e i segni di due colpi di arma da fuoco alla testa - venne identificato da un amico in un obitorio, mentre quello di Horman - murato in una struttura dello stadio – sarebbe stato ritrovato solo un mese più tardi.

Dopo la sparizione, il padre di Horman si recò in Cile per cercare il figlio e, formalmente, l’ambasciata USA gli fornì una qualche assistenza. Edmund Horman e Joyce, la moglie di Charles, dubitavano però dei diplomatici americani, tanto che declinarono la richiesta di questi ultimi di fornire all’ambasciata un elenco con i nomi degli amici del giornalista scomparso.

La vicenda di Horman e Teruggi e, soprattutto, le ricerche del padre e della moglie del primo in Cile sono state raccontate nel famoso film Missing del 1982 di Costa-Gavras.

Come era risaputo, la sentenza di questa settimana ha confermato che gli Stati Uniti all’epoca del golpe in Cile erano impegnati in un’operazione di intelligence per raccogliere informazioni sulle attività politiche dei cittadini americani presenti nel paese sudamericano. Il lavoro di uomini come il capitano Ray Davis veniva svolto con la piena consapevolezza che la denuncia ai militari cileni dei loro connazionali sarebbe equivalsa ad una condanna a morte.

Inoltre, come ha spiegato in questi giorni un avvocato della famiglia Horman, “i militari cileni non avrebbero mai agito di propria iniziativa”, dal momento che “non avevano particolare interesse in Horman o Teruggi, né disponevano di prove di attività politiche compromettenti che facessero dei due americani un obiettivo dell’intelligence domestica”.

Per quanto riguarda Ray Davis, la giustizia cilena aveva richiesto già in passato l’estradizione agli Stati Uniti, credendo che l’ex ufficiale vivesse in Florida. Invece, il capitano americano viveva segretamente proprio in Cile, dove sarebbe deceduto lo scorso anno in una struttura di ricovero di Santiago.

Sulla vicenda di Horman e Teruggi, il governo americano era stato costretto a pubblicare alcuni documenti già nel 1980 in seguito ad una richiesta sottoposta in base al "Freedom of Information Act". Le carte erano però censurate in maniera pesante, coerentemente con i tentativi di Washington e Santiago di nascondere le proprie responsabilità negli omicidi.

Nel 1999, in seguito all’arresto dell’anno precedente a Londra di Pinochet, l’amministrazione Clinton decise di rivelare il contenuto degli omissis, portando alla luce per la prima volta le ammissioni del Dipartimento di Stato che il regime cileno non avrebbe agito nei confronti dei due cittadini americani senza il via libera di Washington.

Già nel 1976, le dichiarazioni dell’ex agente dell’intelligence di Pinochet, Rafael Gonzalez, avevano peraltro costretto il Dipartimento di Stato USA ad avviare due indagini interne sulla morte di Horman e Teruggi. Gonzalez aveva tra l’altro rivelato che i suoi superiori avevano in un’occasione comunicato a “un americano” che Horman “doveva sparire perché sapeva troppo”.

Lo stesso Gonzalez aveva anche descritto la stretta collaborazione tra i servizi segreti cileni e quelli americani nella destabilizzazione del governo Allende. Gli USA, inoltre, avevano fornito ai militari una lista di militanti di sinistra da arrestare nei giorni successivi al colpo di stato.

Entrambe le indagini sarebbero giunte alla conclusione che il regime di Pinochet era responsabile dell’assassinio dei due americani, citando allo stesso tempo l’assenso di Washington, sia pure in termini molto cauti. La seconda indagine, soprattutto, sollecitava il coinvolgimento della CIA per fare chiarezza sulla vicenda ma, com’è ovvio, non venne presa nessuna iniziativa in questo senso.

Il risultato ottenuto con la sentenza di questa settimana è arrivato soltanto grazie alla perseveranza delle famiglie Horman e Teruggi. In particolare, di fronte all’ostilità del governo americano, la vedova di Charles Horman nel 2000 aveva denunciato in Cile Pinochet e i suoi subordinati, citando come testimoni l’ex consigliere per la sicurezza nazionale ed ex segretario di Stato, Henry Kissinger, e i membri del Dipartimento di Stato durante l’amministrazione Nixon.

A seguito del pronunciamento del giudice cileno, Joyce Horman ha dichiarato: “dopo più di 40 anni dall’uccisione di mio marito e dopo 14 anni dall’inizio del procedimento giudiziario in Cile, sono lieta che i casi di Charles Horman e Frank Teruggi stiano avanzando nei tribunali di questo paese. Allo stesso tempo, resto sconvolta dal fatto che… un ufficiale americano indagato, il capitano Ray Davis, sia potuto sfuggire alla giustizia”.

Ciononostante, ha concluso la vedova del giornalista, “la sentenza del giudice Zepeda ha implicato e incriminato agenti dell’intelligence degli Stati Uniti per il ruolo oscuro che hanno svolto nell’assassinio di mio marito”.

di Michele Paris

Un’accesa polemica scoppiata negli Stati Uniti sta coinvolgendo la probabile favorita nella corsa alla Casa Bianca per il Partito Democratico in vista delle elezioni presidenziali del 2016. L’ex segretario di Stato, Hillary Clinton, è infatti da qualche tempo bersaglio di critiche a causa della situazione finanziaria della sua famiglia, la quale ha messo assieme un’autentica fortuna al termine della presidenza del marito Bill nel gennaio del 2001.

Le entrate dei Clinton erano finite al centro del dibattito politico dopo che, in un’intervista televisiva, Hillary aveva sostenuto che lei e il marito erano “usciti dalla Casa Bianca non solo al verde ma anche indebitati”. L’ex presidente e la ex first lady erano “senza denaro” e costretti “a mettere assieme le risorse per i mutui, per le case, per l’educazione [della figlia] Chelsea”, ritrovandosi perciò in una situazione definita “non facile”.

Successivamente, nel corso di un’intervista al britannico Guardian, Hillary è arrivata a negare che la sua famiglia faccia parte della cerchia di americani “veramente ricchi”, essendo piuttosto tra coloro che pagano tasse sul reddito “normali”. In ogni caso, ha aggiunto Hillary, i suoi introiti e quelli del marito non costituiscono un problema, poiché i due sarebbero diventati ricchi sfondati “lavorando duro”.

A definire il livello di ricchezza raggiunto dai Clinton e il genere di “duro lavoro” che i coniugi hanno dovuto sostenere è stata qualche giorno fa un’indagine del Washington Post basata sulle dichiarazioni dei redditi presentate fino al 2013, quando Hillary ha lasciato l’amministrazione Obama.

Se anche nell’improbabile eventualità che i due leader democratici fossero effettivamente usciti in condizioni economiche precarie dall’esperienza alla Casa Bianca, gli stenti per loro non sono durati troppo a lungo e, soprattutto, sono stati ripagati in maniera sostanziosa.

Infatti, dal gennaio 2001 fino allo scorso anno, Bill Clinton ha incassato ben 104,9 milioni di dollari in compensi per discorsi tenuti durante conferenze pubbliche e private. Questa cifra è il risultato di 542 apparizioni dell’ex presidente, con una media di oltre 190 mila dollari per un singolo discorso, vale a dire circa quattro volte il reddito annuo di una famiglia americana media.

Scorrendo l’elenco di enti e compagnie che hanno ingaggiato Bill Clinton è facile comprendere quale genere di “duro lavoro” sia stato compensato così profumatamente. Secondo il Post, cioè, gli sponsor maggiormente interessati a garantirsi l’apparizione dell’ex presidente sono da ricercare nell’industria finanziaria di Wall Street. Soltanto le grandi banche e gli istituti finanziari hanno pagato Bill Clinton quasi 20 milioni di dollari per 102 conferenze.

Questo denaro è di fatto il compenso assicurato dai banchieri e dagli speculatori d’oltreoceano al loro uomo alla Casa Bianca, il quale soprattutto negli ultimi anni della sua presidenza è stato protagonista della più grande operazione di deregulation finanziaria della storia americana. Tra le leggi che hanno concesso mano libera alle compagnie finanziarie di Wall Street, portando direttamente al tracollo del 2008, ci sono almeno il Financial Services Modernization Act del 1999 e il Commodity Futures Modernization Act del 2000.

La firma su questi provvedimenti ha assicurato a Bill Clinton la riconoscenza dei colossi bancari USA e dei loro dirigenti che hanno di fatto cooptato l’ex presidente nell’élite dei super-ricchi d’America.

Tra gli sponsor più generosi spicca Goldman Sachs che, nonostante la sua agenda affollata, ha ingaggiato Bill Clinton in otto occasioni, pagandolo un totale di 1,35 milioni di dollari. Ancora di più ha fatto però la canadese TD Bank, per la quale Clinton ha parlato dieci volte incassando 1,8 milioni di dollari. Questa banca, fa notare il Washington Post, possiede una quota di TD Ameritrade, il cui fondatore, Joe Ricketts, è uno dei più importanti finanziatori del Partito Repubblicano.

La necessità forse di superare le difficoltà economiche della famiglia ha però spinto Bill Clinton ad accettare ingaggi praticamente in qualsiasi ambito. Dagli interventi di fronte a platee di imprenditori per discutere di commercio estero o della crisi finanziaria alla somministrazione di consigli a investitori desiderosi di ascoltare una celebrità nazionale, Clinton ha invariabilmente richiesto parcelle super-salate.

Una delle prestazioni in assoluto più pagate per Bill Clinton risale al maggio di due anni fa, quando una trasferta “frenetica” di sette giorni tra Svizzera, Danimarca, Svezia, Austria e Repubblica Ceca gli valse qualcosa come 1,4 milioni di dollari. Proprio il 2012 è stato l’anno finora più impegnativo e proficuo per l’ex presidente, durante il quale ha tenuto 72 discorsi retribuiti per un totale di 16,3 milioni di dollari.

Parte del denaro raccolto in questo modo, tengono a precisare i portavoce dei Clinton, viene indirizzato talvolta verso la loro fondazione privata. Bill, inoltre, negli ultimi anni ha visto aumentare la concorrenza di Hillary, sempre più richiesta - e pagata - per i suoi interventi dopo l’esperienza al Dipartimento di Stato.

In seguito all’uscita dall’amministrazione Obama, Hillary Clinton ha anche iniziato un tour per la promozione del suo libro, “Hard Choices”, grazie al quale le entrate della famiglia sono lievitate ulteriormente. Per l’anno 2013, in ogni caso, non ci sono dati sulla situazione finanziaria dei Clinton, essendo cessato l’obbligo di rendere pubblici i redditi una volta abbandonate da entrambi le cariche pubbliche ricoperte.

Oltre a compensare i servizi di Bill Clinton durante i suoi otto anni alla Casa Bianca, il denaro erogato dall’universo delle banche e delle corporation degli Stati Uniti servirà a garantire la difesa dei grandi interessi economico-finanziari anche nel caso di un’eventuale futura presidenza di Hillary.

I due leader democratici hanno d’altra parte mostrato una grande abilità non solo nell’intercettare dollari per il proprio interesse privato ma anche a favore delle loro campagne elettorali e delle casse del partito.

Bill e Hillary, secondo quanto riportato questa settimana dal Wall Street Journal, hanno contribuito alla raccolta di più di 1 miliardo di dollari in finanziamenti elettorali in due decenni di impegno politico. La rete di donatori a cui i Clinton possono attingere, secondo il quotidiano newyorchese, rappresenta un indubbio vantaggio per Hillary sui repubblicani, nel caso quest’ultima decidesse di correre per la Casa Bianca nel 2016.

Secondo i dati presentati, almeno i tre quarti dei finanziamenti elettorali raccolti grazie allo sforzo dei Clinton provengono da compagnie private. Per dare l’idea della vastità dei legami dei Clinton con il mondo “corporate” americano, basti citare la quota di donazioni raccolte dai due presidenti Bush nell’ambito del business USA, non superiore cioè al 60% del totale.

Anche in questo caso, l’ex presidente e l’ex segretario di Stato si sono affidati in buona parte alla magnanimità dell’industria finanziaria, con Goldman Sachs che si è mostrata il singolo donatore più generoso tra quelli di Wall Street (5 milioni di dollari).

Come ipotizza il Journal, perciò, una candidatura alla Casa Bianca di Hillary Clinton potrebbe convincere le grandi banche USA a “tornare nel campo democratico”, dopo che nelle ultime elezioni avevano favorito il Partito Repubblicano, soprattutto nel 2012 con Mitt Romney.

Gli scenari descritti confermano dunque ancora una volta l’avanzato deterioramento delle condizioni democratiche negli Stati Uniti, dove l’intero sistema resta nelle mani di una ristretta cerchia di politici multi-milionari sostenuti e finanziati da interessi multi-miliardari, a cui qualsiasi presidente o membro del Congresso finisce per rispondere una volta eletto.

La situazione economica dei Clinton non è comunque un’eccezione ma, anzi, sempre più la regola in un sistema come quello americano e non solo. A partire dal 2012, infatti, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti oltre la metà dei componenti del Congresso di Washington ha dichiarato redditi superiori al milione di dollari.


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