di Michele Paris

Per la prima volta dal 1966, un presidente in carica della ex Birmania (Myanmar) è stato ricevuto nel corso di una visita di stato alla Casa Bianca dal proprio omologo statunitense. L’arrivo a Washington del generale Thein Sein ha suggellato un percorso diplomatico durato due anni, durante i quali la giunta militare al potere nel paese del sud-est asiatico ha portato avanti una serie di “riforme” in gran parte cosmetiche per sganciarsi dalla dipendenza dalla Cina e offrirsi come strumento degli interessi strategici ed economici occidentali.

Lunedì scorso, dunque, il presidente Obama ha riservato un’accoglienza calorosa a Thein Sein, elogiato senza riserve per avere mostrato la sua leadership nell’indirizzare “il Myanmar su un cammino di riforme politiche ed economiche”. Inoltre, ha aggiunto l’inquilino della Casa Bianca, a convincere gli Stati Uniti sarebbero state anche “elezioni credibili” e la formazione di un Parlamento che procede verso un processo di “inclusione e maggiore rappresentanza dei vari gruppi etnici” del paese.

Lo stesso impiego da parte di Obama del nome “Myanmar” - assegnato ufficialmente al paese dal regime militare nel 1989 - è apparso altamente significativo, dal momento che gli Stati Uniti negli affari ufficiali continuano ad utilizzare la precedente definizione di “Birmania”.

Dietro le pressioni delle organizzazioni a difesa dei diritti umani e di alcuni gruppi di manifestanti di fronte alla Casa Bianca, Obama allo stesso tempo è stato costretto a sollevare pubblicamente la questione della repressione delle minoranze etniche e dei numerosi episodi di violenza ai danni soprattutto della popolazione birmana di fede musulmana, nelle quali le forze di sicurezza del regime sono ampiamente coinvolte.

“Lo sradicamento e le violenze dirette contro le minoranze devono cessare” ha affermato il presidente americano, aggiungendo, non senza una certa dose di cinismo, che per prosperare “gli stati devono trarre beneficio dal talento di tutta la popolazione e garantire il rispetto dei diritti umani”.

Da parte sua, Thein Sein ha promesso una maggiore attenzione a questi problemi, ricordando però che il suo paese è guidato da “un governo democratico da soli due anni” e che servirà quindi “maggiore esperienza” per superare “gli ostacoli e le sfide che si presenteranno nel corso del processo di democratizzazione” del Myanmar.

A rappresentare un gravissimo motivo di imbarazzo per gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali che negli ultimi due anni hanno ristabilito i rapporti con la ex Birmania sono state in primo luogo le violenze che in due occasioni nel corso del 2012 hanno visto frange estremiste buddiste perseguitare la minoranza musulmana (Rohingya) nello stato occidentale di Rakhine.

Questi episodi hanno fatto più di 250 vittime e costretto decine di migliaia di persone ad abbandonare le proprie abitazioni e i propri villaggi. Come hanno confermato svariate indagini indipendenti, le forze di polizia hanno spesso mancato di intervenire per mettere fine alle violenze, mentre in altre occasioni hanno partecipato direttamente alle persecuzioni. I musulmani Rohingya, oltretutto, sono tradizionalmente soggetti a discriminazioni e, essendo originari del Bangladesh, non vengono nemmeno considerati cittadini del Myanmar pur risiedendovi da varie generazioni.

Altre violenze che hanno preso di mira i musulmani sono state registrate più recentemente anche nel mese di marzo in una regione centrale del paese, mentre proseguono tuttora le campagne militari del governo centrale contro svariate minoranze etniche, in particolare i ribelli Kachin al confine settentrionale con la Cina.

La ONG americana “US Campaign for Burma”, poi, in concomitanza con la visita di Thein Sein a Washington ha ricordato come nell’ultimo anno il regime abbia aggiunto ai detenuti politici già nelle carceri del paese oltre 1.100 birmani di etnia Rohingya e 250 Kachin. Lo stesso Dipartimento di Stato USA, sempre nella giornata di lunedì, ha infine pubblicato il proprio rapporto annuale sulle violazioni del diritto alla libertà di religione nel mondo, indicando il Myanmar come uno degli otto paesi più repressivi in questo ambito.

I presunti scrupoli per i diritti democratici manifestati da Obama - il quale era stato anch’egli protagonista di una storica visita in Myanmar lo scorso novembre - nascondono in ogni caso soltanto il timore di vedere smascherate le vere ragioni che hanno portato allo sdoganamento di un regime ancora dominato dai vertici militari.

Dopo il soffocamento da parte dei militari del movimento democratico esploso nel 1988, il Myanmar aveva visto interrompersi ogni contatto con gli Stati Uniti e l’Occidente, nonché l’imposizione di sanzioni punitive. Gli anni successivi sarebbero stati segnati perciò da un inesorabile avvicinamento alla Cina, diventata di gran lunga il principale partner economico e strategico della ex Birmania nonostante i sospetti dei decenni precedenti.

Proprio la necessità di liberarsi da questo rapporto esclusivo con Pechino, assieme probabilmente ai timori per le crescenti tensioni sociali in un paese piagato da una povertà diffusa e alla lezione appresa dalla sorte di paesi - come la Libia - coinvolti in “rivoluzioni” orchestrate dall’Occidente, un paio di anni fa il regime ha intrapreso una storica svolta diplomatico-strategica.

Una volta assicuratosi il dominio politico con una nuova costituzione e con le elezioni del novembre 2010, i militari hanno così lanciato segnali inequivocabili agli Stati Uniti e ai loro alleati, come quello del settembre dell’anno successivo, quando è stato improvvisamente cancellato un progetto cinese per la costruzione della mega centrale idroelettrica di Myitsone, nello stato di Kachin, citando come motivo ufficiale della decisione la diffusa ostilità della popolazione locale verso l’impianto.

Punto centrale nel processo di distensione con l’Occidente è stata poi la fine degli arresti domiciliari della cosiddetta icona del movimento democratico birmano, Aung San Suu Kyi, e il via libera garantito alla sua Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) all’ingresso in Parlamento di una manciata di deputati in seguito ad un’elezione speciale tenuta nell’aprile dello scorso anno.

Il ruolo di San Suu Kyi in questi mesi è stato quello di dare legittimità al regime, così da giustificare l’allentamento delle sanzioni internazionali e favorire una serie di “riforme” nel paese che facilitino l’apertura del mercato interno al capitale occidentale e giapponese. Come corollario, inoltre, il presidente Thein Sein e il governo birmano hanno accettato di liberare un certo numero di detenuti politici, ma anche di attenuare o cancellare alcune leggi repressive, ad esempio sulla libertà di stampa e sulla formazione di organizzazioni sindacali indipendenti.

La limitata apertura alla società civile si è però accompagnata all’intensificarsi dello scontro con quelle sezioni della popolazione tradizionalmente emarginate, mentre le divisioni e le contraddizioni irrisolte della storia del Myanmar sono riesplose proprio mentre il regime sta cercando di unificare il paese in una delicata fase di transizione, rivelando clamorosamente la persistente natura repressiva della cerchia di potere birmana.

Per gli Stati Uniti e gli altri governi occidentali, comunque, il nuovo rapporto con il Myanmar ha poco o nulla a che fare con il presunto percorso democratico che il regime avrebbe intrapreso, bensì esclusivamente con la possibilità, da un lato, di trasformare questo paese in una fonte di manodopera a basso costo e, dall’altro, di indebolire l’influenza cinese in un’area strategicamente fondamentale per gli interessi di Pechino.

Quello che, prima di lasciare il Dipartimento di Stato, l’ex segretario Hillary Clinton aveva definito come il principale successo diplomatico dell’amministrazione Obama - vale a dire la riconciliazione con il Myanmar - per stessa ammissione del presidente rappresenta anche una sorta di esempio per quei paesi, come ad esempio la Corea del Nord o l’Iran, che sono tuttora sulla lista nera di Washington.

Per questi regimi come per la ex Birmania, infatti, gli Stati Uniti saranno prontissimi a chiudere un occhio sulla violazione dei diritti democratici e a stendere il tappeto rosso alla Casa Bianca per i loro leader in cambio di “riforme” di facciata e, soprattutto, di un allineamento agli interessi strategici dell’imperialismo americano.

di Michele Paris

La prima visita all’estero del neo primo ministro cinese, Li Keqiang, è stata inaugurata domenica in India a pochi giorni da un accordo provvisorio raggiunto tra gli eserciti dei due paesi vicini in seguito al più recente scontro legato all’annosa disputa di confine nella regione himalayana. La contesa rappresenta uno dei principali ostacoli all’incremento dei già consistenti scambi commerciali tra Delhi e Pechino, i cui rapporti sono ulteriormente complicati dalle trame statunitensi nel continente asiatico.

La quattro giorni di Li in India era stata preparata un paio di settimane fa dalla visita a Pechino del ministro degli Esteri di Delhi, Salman Khurshid, visita a sua volta a rischio proprio a causa delle più recenti schermaglie registrate in una zona di confine del distretto di Ladakh, nello stato indiano Jammu e Kashmir.

A metà aprile, infatti, i vertici militari indiani avevano accusato i militari cinesi di avere costruito una postazione provvisoria una ventina di chilometri all’interno dei propri confini. Per tutta risposta, gli indiani avevano mobilitato alcune truppe nell’area in questione minacciando azioni concrete, mentre Pechino aveva negato ogni responsabilità.

Solo il 5 maggio, infine, le due parti hanno concordato il ritiro delle rispettive truppe, consentendo agli incontri diplomatici bilaterali di procedere come precedentemente programmato. Cina e India condividono una linea di confine lunga 4 mila chilometri, oggetto di una disputa spesso accesa nella regione himalayana, attorno alla quale è stata combattuta anche una breve guerra nel 1962.

Le prime fasi della visita di Li Keqiang in India, in ogni caso, sono state caratterizzate da toni distesi e amichevoli, visto il timore condiviso da entrambe le parti per un conflitto che potrebbe facilmente sfuggire di mano.

Appena atterrato a Delhi nella giornata di domenica, il premier cinese si è detto fiducioso di potere contribuire a dare un impulso alla cooperazione e alla fiducia tra i due paesi più popolosi del pianeta. Lunedì, poi, Li ha annunciato un’intensificazione degli sforzi bilaterali per risolvere la questione del confine, offrendo a Delhi “una stretta di mano attraverso l’Himalaya”, così da facilitare la trasformazione dei due paesi nel “nuovo motore dell’economia globale”.

I rapporti economici tra Pechino e Delhi, anche se in declino rispetto al 2011, hanno toccato i 66 miliardi di dollari nel 2012 e l’auspicio di entrambe le parti è di sfondare quota 100 miliardi già nel 2015. Secondo gli osservatori e gli stessi membri dei due governi, tuttavia, le potenzialità degli scambi sono frenate da contese come quella attorno alla linea di confine himalayana.

Le questioni economiche sono al centro dei colloqui di questi giorni e stanno particolarmente a cuore all’India, visto il deficit di quasi 30 miliardi a proprio sfavore a causa delle ingenti esportazioni cinesi dirette verso questo mercato, ormai superiori anche a quelle americane, tedesche e giapponesi.

La controversia legata alla definizione del confine ha però inevitabilmente occupato le prime pagine dei giornali dei due paesi fin dalla vigilia della partenza di Li Keqiang per Delhi. Gli organi di stampa cinesi, soprattutto, hanno lanciato segnali distensivi all’India, facendo intravedere una possibile accelerazione delle trattative per risolvere lo scontro. A partire dagli anni Ottanta, Cina e India hanno tenuto quindici round di negoziati senza raggiungere alcun risultato significativo.

L’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, così, nella giornata di sabato ha aperto un editoriale sulla visita del premier cinese in India affermando che “rapporti ostili tra i due paesi vicini penalizzano gli interessi di entrambi”. Lo stesso articolo, inoltre, ha affrontato indirettamente il ruolo degli Stati Uniti nell’alimentare, o quanto meno sfruttare, le tensioni tra Cina e India, così da isolare Pechino nel quadro della cosiddetta “svolta” asiatica decisa fin dal 2009 dall’amministrazione Obama.

“Coloro che in Occidente tendono a definire le relazioni tra Cina e India attraverso le dispute territoriali”, ha scritto Yang Qingchuan su Xinhua, “dimenticano il fatto che il loro problema legato ai confini è in larga misura un’eredità del colonialismo occidentale”, dal momento che “per migliaia di anni queste due antiche civiltà raramente si sono scontrate per questioni territoriali”.

Il tentativo statunitense di sfruttare i propri solidi rapporti con Delhi per rafforzare il fronte anti-cinese in Asia, poi, viene denunciato ancora più chiaramente quando l’autore sostiene che la Cina “non ha mai cercato di irrobustire i legami con un qualsiasi paese a spese delle proprie relazioni con l’India” e che quest’ultima “perseguirà la sua politica nei confronti della Cina secondo il proprio volere, senza essere parte dei progetti di altre potenze”.

Il velato riferimento al ruolo di Washington nell’evoluzione dei rapporti sino-indiani dell’editoriale pubblicato qualche giorno fa da Xinhua conferma come l’aumento delle tensioni in questi ultimi anni attorno al confine himalayano sia da collegare almeno in parte alla già ricordata nuova strategia americana nel continente.

Per gli Stati Uniti, cioè, l’India rappresenta un partner fondamentale nell’implementazione della propria agenda in Asia mirata a contenere l’espansionismo cinese e per questa ragione l’amministrazione Obama continua ad incoraggiare le ambizioni da grande potenza di Delhi, producendo un inevitabile confronto con Pechino, nonostante i solidi rapporti commerciali tra i due giganti del continente.

Assieme alla contesa sul confine - ma anche all’ospitalità garantita dall’India al Dalai Lama e al suo governo tibetano in esilio e alla competizione per allargare le rispettive influenze nel sud-est asiatico - un altro motivo di scontro tra Delhi e Pechino è rappresentato poi dal Pakistan, tradizionale alleato della Cina e nemico storico dell’India, nonché anch’esso oggetto delle manovre di Washington.

Dopo avere incontrato il premier indiano, Manmohan Singh, il ministro degli Esteri Khurshid, la leader del Partito del Congresso al potere, Sonia Gandhi, ed esponenti della comunità finanziaria di Mumbai, il primo ministro cinese si recherà proprio in Pakistan nella giornata di mercoledì.

A Islamabad, Li Keqiang troverà una situazione politica in evoluzione anche sul fronte dei rapporti con il vicino orientale dopo le recenti elezioni che hanno segnato la netta sconfitta del Partito Popolare Pakistano e il trionfo dell’ex premier conservatore Nawaz Sharif, le cui aperture verso l’India sono state in passato motivo di scontro con i vertici militari del suo paese.

di Mario Lombardo

Nonostante una serie di nuove proteste popolari, questa settimana il governo israeliano ha approvato quasi all’unanimità una bozza di bilancio all’insegna dell’austerity per gli anni 2013 e 2014 che dovrà essere approvata dalla Knesset (Parlamento) entro l’estate. Autore principale del pacchetto da oltre 106 miliardi di dollari, che contiene pesanti tagli di spesa e aumenti del carico fiscale, è il neo-ministro delle Finanze Yair Lapid, recentemente catapultato al centro della scena politica di Israele dopo una campagna elettorale condotta in nome del rilancio di una classe media sempre più in affanno.

Il punto più controverso del nuovo bilancio dello stato di Israele, contro il quale si è espresso un solo membro del gabinetto Netanyahu, è stato il taglio agli stanziamenti destinati alle forze armate che continuano a rappresentare il più importante capitolo di spesa del governo con 14,5 miliardi di dollari per il 2013 e 14,8 miliardi per il 2014.

Dopo un acceso confronto tra il ministro della Difesa, Moshe Ya’alon, e il ministro delle Finanze Lapid, a trovare un compromesso è stato il primo ministro con una proposta che ha fissato i tagli a poco più di 820 milioni di dollari invece dei quasi 1,1 miliardi inizialmente previsti. Oltretutto, ha promesso Netanyahu, il bilancio militare tornerà a crescere significativamente tra il 2015 e il 2018.

Per il resto, invece, quella che spicca è una serie di misure di rigore che il governo, di fronte alla massiccia opposizione popolare, ha affermato essere necessarie per fronteggiare un deficit più consistente di quanto si credeva. L’implementazione delle misure appena approvate dal gabinetto Netanyahu dovrebbe ridurre il deficit al 3% del PIL nel 2014 dopo aver toccato il 4,65% nel 2012.

I tagli complessivi alla spesa pubblica dovrebbero ammontare a quasi 2 miliardi di dollari nel 2013 e a 5 miliardi il prossimo anno. In particolare, ad essere pesantemente colpiti saranno i benefit erogati per i minori, quelli per i progetti legati ai trasporti pubblici, i sussidi destinati ai programmi dopo-scuola, ma anche i fondi previsti per le scuole religiose. Sul fronte delle tasse, l’IVA salirà dal 17% al 18%, l’imposta sui redditi personali e sugli immobili aumenterà dell’1,5%, mentre quella sulle aziende dell’1%.

Secondo i calcoli di alcuni analisti, l’intera manovra costerà ad ogni famiglia israeliana circa un mese di stipendio medio all’anno. La bozza approvata dal governo questa settimana dovrà ora confluire in un disegno di legge da presentare alla Knesset non oltre il 10 giugno. Il Parlamento avrà tempo fino al 30 dello stesso mese per approvarla ed entrerà in vigore a partire dal primo agosto prossimo.

Già le indiscrezioni sul contenuto del nuovo bilancio avevano portato nelle piazze delle principali città di Israele oltre 15 mila manifestanti nello scorso fine settimana. Sui social media, inoltre, la rabbia di lavoratori e classe media è stata rivolta soprattutto al ministro delle Finanze, Yair Lapid, ex giornalista televisivo e leader della formazione centrista Yesh Atid (“Esiste un Futuro”).

Quest’ultimo, infatti, aveva ampiamente beneficiato delle proteste senza precedenti che nell’estate del 2011 intendevano chiedere misure concrete per porre un freno al crescente costo della vita e alle disuguaglianze sociali dilaganti. Lapid aveva raccolto le richieste avanzate in particolare dalle sezioni della classe media urbana colpite dalla crisi economica e sociale, promettendo di invertire il loro declino e di riaprire i cordoni della borsa colpendo i redditi più elevati.

Nelle elezioni anticipate dello scorso gennaio, così, il movimento di Lapid aveva ottenuto un risultato sorprendente, piazzandosi secondo per numero di consensi e seggi parlamentari, dietro alla lista unitaria di estrema destra formata dal Likud di Netanyahu e dal partito Israel Beiteinu dell’ex ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman.

L’evoluzione di Lapid e di Yesh Atid dopo il voto, oltre ad avere mostrato l’opportunismo politico del nuovo ministro delle Finanze, è risultata esemplare dei limiti stessi della democrazia parlamentare israeliana e non solo, totalmente incapace di interpretare le necessità e le aspirazioni della grandissima maggioranza della popolazione in un sistema monopolizzato dai grandi interessi economici e finanziari.

Assieme all’altra sorpresa uscita dalle elezioni - il partito di estrema destra “Focolare Ebraico” guidato dall’ex capo di gabinetto di Netanyahu, Naftali Bennett - Lapid è entrato infatti in una coalizione di governo con Netanyahu nonostante le evidenti differenze emerse in campagna elettorale sia in ambito economico sia relativamente alla questione palestinese.

Netanyahu, quindi, dopo avere provocato una crisi di governo pilotata nell’ottobre del 2012 a causa dell’impossibilità di fare approvare durissime misure di austerity all’interno della propria coalizione, all’indomani del voto anticipato di gennaio, pur vedendo indebolito il proprio partito, è riuscito a far passare quelle stesse misure grazie alla personalità politica che le aveva maggiormente criticate in campagna elettorale.

In altre parole, dopo avere costruito la sua rapida ascesa politica sulla ferma opposizione alle misure di rigore proposte e implementate da Netanyahu, Yair Lapid è diventato in sostanza lo strumento principale per l’adozione di nuovi tagli alla spesa e aumenti delle tasse che penalizzeranno soprattutto la sua stessa base elettorale.

Secondo molti osservatori, tutto ciò sarebbe una mossa astuta di Netanyahu, il quale è riuscito a utilizzare una quasi sconfitta elettorale per avanzare la propria agenda reazionaria, cooptando il suo principale rivale in un nuovo governo di coalizione e determinando per quest’ultimo un prevedibile, e tutt’altro che sgradito, crollo nel gradimento popolare.

Le manifestazioni di piazza degli ultimi giorni, infine, se pure consistenti per gli standard israeliani, sono risultate decisamente più contenute rispetto al movimento di protesta scoppiato due anni fa. Lo sconforto di buona parte dei manifestanti del 2011 è dovuto senza dubbio proprio alla delusione prodotta dal voltafaccia di Yair Lapid, il quale da parte sua ha indicato come necessari i tagli al bilancio decisi in questi giorni, primo passo indispensabile verso illusorie “riforme” future che dovrebbero migliorare le condizioni di vita della classe media israeliana.

di Michele Paris

La scadenza dei termini previsti per la presentazione delle candidature preliminari alla presidenza dell’Iran è stata segnata sabato scorso da un’importante sorpresa dell’ultimo minuto che ha immediatamente scatenato una valanga di commenti e congetture sia a Teheran che in Occidente. La candidatura alla guida del paese del 78enne ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, se confermata, oltre a rianimare una campagna elettorale che sembrava essere dominata quasi esclusivamente dagli uomini espressione dell’establishment conservatore iraniano, solleva infatti una serie di interessanti interrogativi sulla direzione che potrebbe intraprendere la Repubblica Islamica nel prossimo futuro.

Importante figura della Rivoluzione Islamica del 1979 e già presidente per due mandati tra il 1989 e il 1997, Rafsanjani viene universalmente considerato come un politico pragmatico e moderato, relativamente disponibile ad accogliere alcune delle istanze del movimento riformista iraniano, pur rimanendo una personalità di primo piano della gerarchia religiosa sciita.

La candidatura di Rafsanjani e quelle di altri 685 aspiranti alla presidenza saranno esaminate dal Consiglio dei Guardiani, il quale valuterà una serie di requisiti dei candidati stessi - tra cui il rispetto dei principi della fede musulmana e degli elementi fondanti la Repubblica Islamica - per poi autorizzare entro il 23 maggio l’apparizione del nome di una parte di essi sulle schede elettorali il prossimo 14 giugno.

La riapparizione di Rafsanjani sulla scena politica iraniana, in ogni caso, rappresenta già di per se un dato significativo, vista la pesante sconfitta che aveva patito da Mahmoud Ahmadinejad nel ballottaggio delle presidenziali del 2005, nonché, soprattutto, la sua sostanziale emarginazione dopo il voto contestato del 2009 e il sostegno fornito al cosiddetto “Movimento Verde” guidato dai candidati sconfitti Mehdi Karroubi e Mir-Hossein Mousavi.

Con questi ultimi due leader ancora agli arresti domiciliari, proprio Rafsanjani viene indicato come l’unica speranza per i riformisti, tanto più che il loro tradizionale beniamino, l’ex presidente Sayyed Mohammad Khatami, dopo avere alimentato qualche illusione nei mesi scorsi ha deciso anche questa volta di declinare gli inviti a correre per la guida del paese.

In particolare, il candidato Rafsanjani potrebbe facilmente intercettare una parte del voto della borghesia urbana che condivide il suo desiderio di stabilire rapporti più distesi con l’Occidente, in funzione di un’apertura dell’economia iraniana al capitale internazionale.

Per l’Occidente, inoltre, una eventuale nuova presidenza Rafsanjani rappresenterebbe un’occasione per allentare le tensioni con l’Iran, così come accadde in parte durante i suoi due mandati negli anni Novanta, caratterizzati da sforzi diplomatici che sarebbero poi stati raccolti dal suo successore, Khatami.

La collocazione ideologica di Rafsanjani e la sua candidatura direttamente in competizione con varie personalità conservatrici rende dunque piuttosto enigmatica una sua dichiarazione rilasciata qualche tempo fa, cioè che avrebbe preso parte alla corsa alla presidenza solo con il via libera della Guida Suprema della Repubblica Islamica, ayatollah Ali Khamenei.

Come ha ipotizzato qualche giorno fa un articolo apparso sulla testata on-line Al-Monitor, questa affermazione da parte di un politico senza una vera e propria base di potere nel paese potrebbe essere stata rilasciata semplicemente per prevenire i prevedibili attacchi dei suoi rivali conservatori e per cercare di impedire l’annullamento della sua candidatura da parte del Consiglio dei Guardiani.

Allo stesso tempo, tuttavia, una qualche approvazione da parte di Khamenei per la candidatura di Rafsanjani sembra essere più che probabile. Anche se la Guida Suprema, pur non sostenendo apertamente alcun candidato, continua a mandare segnali per invitare gli elettori a scegliere un presidente dalle qualità ben differenti da quelle attribuibili a Rafsanjani, è possibile che la sua approvazione all’apparizione di quest’ultimo sulle schede elettorali risponda alla necessità di acconsentire alle richieste di una parte dell’élite iraniana che condivide la visione pragmatica dell’ex presidente in ambito economico e diplomatico.

Il via libera alla candidatura di Rafsanjani potrebbe anche rappresentare un segnale all’Occidente, in vista forse di concreti passi avanti verso un accordo sull’annosa questione del nucleare dopo le elezioni presidenziali. Per altri osservatori, infine, Khamenei avrebbe consentito a Rafsanjani di partecipare alla corsa per la successione ad Ahmadinejad solo per alzare il livello di partecipazione al voto, così da legittimare l’evento elettorale stesso di fronte all’opinione pubblica domestica e internazionale dopo il caos del 2009.

Le reali possibilità di Rafsanjani di conquistare la presidenza o quanto meno di accedere al secondo turno - nel caso riesca a conquistare l’approvazione del Consiglio dei Guardiani - sono comunque tutte da verificare. Oltre a quello che potrebbe eventualmente ricevere da Khamenei, sarà da valutare anche l’entità dell’appoggio che riuscirà ad ottenere dai riformisti e dai conservatori più moderati.

Soprattutto, bisognerà poi attendere la risposta dei cosiddetti “principalisti” - la fazione più fedele all’ayatollah Khamenei - e la loro capacità di coalizzarsi attorno ad un candidato forte che partirebbe senza dubbio da favorito nella corsa alla presidenza.

Tra i nomi più probabili spiccano quelli del capo dei negoziatori sul nucleare, Saeed Jalili, considerato da molti il favorito di Khamenei; l’ex ministro degli Esteri e consigliere dell’ayatollah, Ali Akbar Velayati; l’ex presidente del Parlamento, Gholam Haddad Adel, e il carismatico sindaco di Teheran, Mohammed Baqer Qalibaf.

Gli schieramenti che dovrebbero fare capo approssimativamente a Rafsanjani e al blocco conservatore potrebbero infine dover fare i conti con il candidato di Ahmadinejad, il suo controverso capo di gabinetto Esfandiar Rahim Mashaei. Esaurito il limite dei due mandati consecutivi previsto dalla Costituzione, Ahmadinejad da tempo sostiene Mashaei apertamente e in violazione di quanto previsto dalla legge iraniana, indicandolo come il suo più qualificato successore, in grado di proseguire le politiche di sostegno alle classi più disagiate che hanno in parte caratterizzato i primi anni della sua presidenza.

Su Mashaei pesa però la profonda ostilità nutrita dalla classe dirigente conservatrice, nonché dai riformatori, per Ahmadinejad e per le sue politiche populiste, tanto che sono in pochi a scommettere su un’approvazione della sua candidatura da parte del Consiglio dei Guardiani. Mashaei viene infatti accusato di far parte di una sorta di setta “deviazionista”, poiché incoraggerebbe, tra l’altro, un’esperienza religiosa diretta a discapito della gerarchia clericale sciita e sarebbe responsabile di privilegiare un nazionalismo che fa riferimento al periodo pre-islamico.

L’ostilità dei conservatori verso Mashaei e, in buon parte, Rafsanjani è apparsa evidente nella giornata di martedì, quando, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa iraniana Mehr, un centinaio di parlamentari ha consegnato una petizione al Consiglio dei Guardiani per escludere entrambi i candidati dalla competizione elettorale di giugno, citando il “deviazionismo” del primo e il ruolo giocato dal secondo nella “sedizione” del 2009.

I timori nutriti nei confronti di Mashaei dall’establishment conservatore, in realtà, riguardano più che altro le scelte in ambito economico, dal momento che esso e la borghesia imprenditoriale iraniana intendono liquidare definitivamente le politiche promosse da Ahmadinejad e fatte di limitati sussidi per l’acquisto di beni di prima necessità, prestiti a tassi accessibili e sovvenzioni in denaro destinate agli iraniani più poveri.

Nonostante gli attacchi subiti dalle fazioni politiche antagoniste nell’ultima fase della sua presidenza, Ahmadinejad continua con ogni probabilità a godere di una certa popolarità tra le fasce più povere della popolazione, così che l’eventuale partecipazione alle elezioni presidenziali di Mashaei costituirebbe una seria minaccia per i candidati conservatori o per lo stesso Rafsanjani.

La sua esclusione, perciò, appare a molti scontata, anche se una decisione in questo senso del Consiglio dei Guardiani difficilmente farebbe desistere il sempre più combattivo Ahmadinejad, il quale infatti ha più volte lasciato intendere di essere pronto a rivelare prove esplosive su episodi di corruzione che coinvolgono i vertici della Repubblica Islamica o, addirittura, a far scendere i propri sostenitori nelle piazze delle città iraniane.

di Michele Paris

Il sistematico disprezzo per i più basilari principi costituzionali da parte dell’amministrazione Obama è stato confermato in questi giorni dalla diffusione della notizia che il Dipartimento di Giustizia americano ha intercettato e monitorato segretamente e illegalmente per un periodo di due mesi le conversazioni telefoniche di redattori e giornalisti della Associated Press, la più importante agenzia di stampa del paese.

A rendere pubblico l’ennesimo abuso del governo di Washington è stata una lettera inviata dal presidente della stessa agenzia, Gary Pruitt, al ministro della Giustizia, Eric Holder, nella quale lamenta una “intrusione massiccia e senza precedenti” nella propria attività di raccolta delle notizie.

Secondo quanto riferito dalla Associated Press, venerdì scorso il Dipartimento di Giustizia ha informato i vertici dell’agenzia di stampa che oltre venti linee telefoniche dei propri uffici, ma anche delle abitazioni e i cellulari di alcuni giornalisti, erano state sottoposte ad intercettazione tra il mese aprile e maggio del 2012 in maniera del tutto segreta e senza rispetto per le norme legali previste.

I reporter interessati sarebbero un centinaio e gli uffici monitorati dagli investigatori federali quelli della sede centrale di New York e delle redazioni di Washington e Hartford, nel Connecticut, nonché la postazione riservata all’agenzia nella sala stampa della Camera dei Rappresentanti al Congresso.

Anche se il Dipartimento di Giustizia non ha specificato il motivo della propria operazione illegale, la Associated Press e gli altri media d’oltreoceano hanno facilmente collegato i fatti alla pubblicazione, avvenuta il 7 maggio del 2012, della notizia dello smantellamento da parte della CIA di un complotto terroristico ideato da un affiliato ad Al-Qaeda in Yemen per fare esplodere un aereo di linea diretto negli Stati Uniti.

L’agenzia di stampa, in realtà, aveva inizialmente evitato di pubblicare la notizia dietro richiesta della Casa Bianca e della CIA, poiché l’operazione dell’intelligenze americana era ancora in corso. Una volta conclusasi, grazie al coinvolgimento di un doppio agente della CIA, la Associated Press decise di procedere alla pubblicazione della rivelazione con un giorno di anticipo rispetto a quanto chiesto dall’amministrazione Obama, la quale voleva invece attendere che venisse emesso un comunicato ufficiale da parte delle autorità governative.

Perciò, il Dipartimento di Giustizia ha subito aperto un’indagine per individuare la fonte della rivelazione, coerentemente con la politica messa in atto dall’attuale inquilino della Casa Bianca, volta a punire i responsabili di qualsiasi fuga di notizie all’interno del governo federale e a scoraggiare eventuali futuri comportamenti di questo genere.

L’atteggiamento vendicativo dell’amministrazione Obama è confermato dal numero di procedimenti legali aperti fin dal 2009 ai danni dei cosiddetti “whistleblowers”, cioè dipendenti federali che decidono di fornire informazioni riservate alla stampa, spesso riguardanti crimini o malefatte del governo. I sei procedimenti finora avviati - il più celebre dei quali è quello contro l’ex analista dell’esercito, Bradley Manning, tenuto in carcere per oltre mille giorni senza condanna e attualmente sotto corte marziale per avere passato documenti riservati a WikiLeaks - risultano infatti essere il doppio di quelli intentati da tutte le precedenti amministrazioni combinate.

Il metodo utilizzato contro la Associated Press segna inoltre un’escalation dell’aggressività del governo americano, il quale ha in questo caso deciso deliberatamente di bypassare la “normale” pratica utilizzata per entrare in possesso di materiale informativo appartenente ad un organo di stampa.

Solitamente, infatti, le autorità federali notificano anticipatamente ad una testata la necessità di ottenere registrazioni telefoniche o e-mail per motivi quasi sempre legati alle necessità dell’anti-terrorismo, così che su tale richiesta possano svolgersi negoziati tra le due parti oppure per consentire un ricorso in tribunale.

Come hanno ipotizzato alcuni giornali americani nei giorni scorsi, appare estremamente probabile che questo metodo arbitrario di intercettazione delle comunicazioni dei media da parte del governo venga utilizzato in maniera più o meno diffusa. Il New York Times, ad esempio, ha provato a chiedere senza successo al Dipartimento di Giustizia se a essere finiti sotto il controllo federale siano anche i propri uffici, dal momento che un’indagine dovrebbe essere in corso sulle rivelazioni contenute in un articolo e in un libro del reporter David Sanger su un’operazione dell’intelligence americana e israeliana per sabotare le centrifughe nucleari dell’Iran.

In seguito alla diffusione della notizia relativa alla Associated Press, in ogni caso, il Dipartimento di Giustizia è stato costretto ad ammettere l’appropriazione delle comunicazioni telefoniche dell’agenzia, rilasciando, come di consueto per l’amministrazione Obama, una dichiarazione dai risvolti orwelliani.

Parlando di una palese e gravissima violazione della legge e dei diritti garantiti dal Primo e dal Quarto Emendamento alla Costituzione (liberta di parola; difesa da perquisizioni e confische ingiustificate), il Dipartimento guidato da Eric Holder ha cioè difeso il proprio operato, affermando che, “poiché abbiamo a cuore la libertà della stampa, siamo attenti a cercare sempre di trovare il giusto compromesso tra il libero flusso delle informazioni e la corretta ed efficace amministrazione della giustizia”.

La notizia delle intercettazioni ai danni della Associated Press non deve comunque sorprendere, visto il controllo sistematico delle comunicazioni elettroniche virtualmente di tutti i cittadini americani messo in atto dal governo americano con l’espansione delle prerogative attribuite all’esecutivo nell’ambito della “guerra al terrore”.

Sulla questione dell’ostacolo alla pubblicazione di notizie riservate, invece, gli stessi media più importanti negli Stati Uniti spesso sono tutt’altro che vittime innocenti, come dimostrano i rapporti da molti di essi regolarmente intrattenuti con la Casa Bianca ed altre agenzie governative per trattare l’eventuale pubblicazione di materiale sensibile.

La stessa Associated Press che denuncia il Dipartimento di Giustizia per l’inopportuna intromissione nella propria attività, come anticipato in precedenza aveva in realtà accettato la “richiesta” del governo e della CIA di ritardare la pubblicazione delle notizie in suo possesso sul presunto attentato progettato in Yemen, negando la tempestiva diffusione di informazioni di estrema rilevanza.

Ancora più sconcertante è poi l’atteggiamento tenuto dal New York Times, teoricamente il baluardo del pensiero liberal americano. Per sua stessa ammissione, il quotidiano newyorchese aveva ad esempio preso accordi con l’amministrazione Obama circa i documenti riservati ottenuti da WikiLeaks da pubblicare od occultare, ufficialmente per proteggere agenti dell’intelligence e funzionari di un governo i cui crimini stavano per essere resi pubblici.

In quell’occasione, l’allora direttore Bill Keller, giunse ad affermare, in un editoriale scritto per giustificare l’inaccettabile comportamento del suo giornale, che “la libertà di stampa comporta la libertà di NON pubblicare determinate informazioni”, ovviamente quando ciò venga richiesto dal governo.

Qualche anno prima, d’altra parte, lo stesso Keller aveva già dimostrato come il New York Times si era ormai avviato verso la sua trasformazione in poco più che un organo della propaganda del governo, proprio in concomitanza con l’adozione da parte di quest’ultimo di metodi sempre più autoritari e anti-democratici.

Nel 2004, infatti, il New York Times aveva deciso di non pubblicare le informazioni in proprio possesso sull’esistenza di un programma segreto e illegale di intercettazione delle comunicazioni telefoniche ed elettroniche di qualsiasi cittadino americano. Il programma era condotto senza alcuna garanzia legale dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) ed era stato autorizzato da un ordine esecutivo emanato dall’amministrazione Bush.

Pur consapevole della grave minaccia ai diritti democratici rappresentato dal programma, il Times si piegò alle richieste della Casa Bianca, evitando di pubblicare la notizia alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2004, consentendo con ogni probabilità la rielezione del presidente repubblicano. La notizia delle intercettazioni sarebbe infine uscita solo nel dicembre dell’anno successivo, quando l’amministrazione Bush, di fatto protetta dal principale giornale di orientamento “progressista” degli Stati Uniti, stava per chiedere ad un tribunale di bloccarne definitivamente la pubblicazione.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy