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di Michele Paris
Pochi giorni dopo le esplosioni alla maratona di Boston e la cattura e l’uccisione dei due giovani di origine cecena accusati dell’attentato, il governo canadese ha annunciato l’arresto di due presunti affiliati ad Al-Qaeda che stavano progettando un altro atto terroristico contro un treno che collega New York e Toronto. Le scarsissime prove presentate dalla polizia del Canada e il tempismo dell’operazione autorizzano però più di un sospetto, visto che essa è stata condotta proprio alla vigilia della discussione in Parlamento di una nuova legge che dovrebbe assegnare poteri eccezionali alle forze di sicurezza in materia di anti-terrorismo.
In una conferenza stampa ben propagandata, la cosiddetta Royal Canadian Mounted Police lunedì ha dunque rivelato l’arresto del 30enne Chiheb Esseghaier e del 35enne Raed Jaser, i quali il giorno successivo sono apparsi per la prima volta di fronte ad un giudice per ascoltare le gravi accuse mosse nei loro confronti.
I due sospettati avrebbero sorvegliato per mesi la rete ferroviaria che serve la città di Toronto con l’intento di progettare l’esplosione o il deragliamento di un convoglio. A guidare le loro azioni sarebbero stati “elementi di Al-Qaeda localizzabili in Iran”. Ricalcando le dichiarazioni frequentemente rilasciate dagli agenti dell’FBI negli Stati Uniti dopo operazioni che si scoprono non essere altro che montature, la polizia canadese ha assicurato che i passeggeri non sono in realtà mai stati esposti ad un “pericolo imminente”, dal momento che i due sospettati erano costantemente sotto osservazione degli agenti e, inoltre, erano stati preparati piani di emergenza per evitare qualsiasi inconveniente.
I documenti del procedimento giudiziario già avviato hanno poi evidenziato un aspetto ancora più interessante in relazione al periodo durante il quale Esseghaier e Jaser avrebbero complottato per colpire la rete ferroviaria pubblica. I due, cioè, avrebbero collaborato a Toronto e a Montréal per fini terroristici a partire dal 1° aprile e fino al 25 settembre dello scorso anno. Jaser, in particolare, pare abbia cessato queste “attività illegali” a settembre, mentre Esseghaier è accusato di avere partecipato ad “azioni terroristiche” fino alla metà di febbraio.
Questo dato, assieme al fatto che i due sospettati erano sotto sorveglianza almeno fin dall’agosto scorso, conferma come le autorità canadesi abbiano con ogni probabilità deciso di procedere con gli arresti e con la rivelazione del “complotto” in concomitanza con l’arrivo in Parlamento del “Combating Terrorism Act” (Legge S-7), la legge anti-terrorismo voluta dal governo federale guidato dal premier ultra-conservatore Stephen Harper.A sollevare un dubbio più che legittimo in proposito è stato anche John Norris, il legale di uno dei due arrestati e già noto per aver difeso qualche anno fa un ex detenuto nel lager di Guantánamo. Norris ha sottolineato non solo come la polizia abbia chiarito che “non ci sono stati rischi per la sicurezza pubblica”, ma anche la “perfetta coincidenza” delle accuse con il dibattito parlamentare in corso a Ottawa e la quasi concomitanza degli arresti con i fatti di Boston.
Le circostanze dei due arresti, oltretutto, fanno pensare ad un lungo periodo nel quale i due accusati sono rimasti indisturbati prima di finire improvvisamente sotto custodia. Esseghaier, originario della Tunisia e iscritto ad un dottorato in una prestigiosa università del Quebec, è stato arrestato lunedì poco dopo l’ora di pranzo mentre si trovava in tutta tranquillità in un McDonald’s della principale stazione ferroviaria di Montréal, mentre Jaser è finito in manette sul posto di lavoro a North York, nei pressi di Toronto, in seguito ad un blitz condotto con un massiccio dispiegamento di forze di polizia.
A rendere la vicenda ancora più sospetta è anche il fatto che il governo Harper aveva annunciato proprio venerdì scorso un cambiamento nell’ordine dei lavori della Camera dei Comuni canadese, programmando per lunedì l’inizio della terza e ultima lettura della controversa Legge S-7. Questo provvedimento, che intende rispolverare alcune misure già adottate in Canada dopo l’11 settembre 2001 e cessate nel 2007, era stato introdotto per la prima volta ben cinque anni fa e la più recente discussione su di esso era iniziata nel febbraio 2012.
Tra le misure più anti-democratiche in esso contenute spicca quella che consente la detenzione preventiva e senza accuse formali per un periodo massimo di tre giorni di chiunque sia sospettato di essere coinvolto in attività terroristiche. Inoltre, chiunque sia ritenuto a conoscenza di un atto terroristico può essere costretto a rispondere alle domande della polizia e, nel caso dovesse rifiutarsi, potrebbe essere incarcerato fino a dodici mesi anche senza essere indagato di nessun crimine.
Altre misure prevedono infine l’innalzamento della pena fino a 14 anni per favoreggiamento di attività terroristiche e l’introduzione di un nuovo reato, che scatterebbe quando cittadini canadesi si recano all’estero con lo scopo di commettere atti di terrorismo o per entrare in contatto con organizzazioni terroristiche.I due sospettati arrestati lunedì, in ogni caso, hanno respinto fermamente le accuse sollevate nei loro confronti, così come amici e familiari si sono mostrati del tutto increduli. Il collegamento con Al-Qaeda in Iran appare inoltre poco credibile, dal momento che la Repubblica Islamica sciita nutre tradizionalmente ben poca simpatia per il fondamentalismo sunnita.
Anche se il governo di Ottawa ha affermato di non avere trovato prove del coinvolgimento del regime di Teheran nel piano terroristico di Esseghaier e Jaser, simili insinuazioni contribuiscono ad alimentare la campagna anti-iraniana in atto da tempo soprattutto negli Stati Uniti.
Dopo le bombe alla maratona e la messa in stato d’assedio di Boston, Washington ha subito sfruttato l’occasione per sottolineare la partnership con il Canada nella lotta al terrorismo e la necessità di tenere alta la guardia con la continua implementazione di misure anti-democratiche per garantire la “sicurezza” della popolazione.
L’ambasciatore americano in Canada, David Jacobson, in una dichiarazione ufficiale emessa lunedì scorso si è così affrettato ad affermare che l’arresto dei due presunti terroristi è stato “il risultato di una intensa collaborazione” tra i due paesi vicini, non mancando poi di ricordare “le reali e serie minacce” che essi si troverebbero a dover fronteggiare.
Non meno degli Stati Uniti, il Canada di Stephen Harper ha d’altra parte sfruttato in questi anni la minaccia terroristica – spesso fabbricata ad arte – per giustificare l’adozione di politiche imperialiste all’estero e, sul fronte domestico, di misure più appropriate ad uno stato di polizia che ad un paese autenticamente democratico.
A perseguire questa linea non è però solo il Partito Conservatore attualmente al potere, ma anche lo storico Partito Liberale Canadese di centro-sinistra, il cui governo guidato dall’allora premier, Jean Chrétien, nel 2001 partecipò all’invasione dell’Afghanistan e mise in atto misure gravemente lesive dei diritti democratici in seguito agli attentati dell’11 settembre. Il Partito Liberale, non a caso, ha già annunciato il proprio voto favorevole anche alla Legge S-7 proposta da Harper e in discussione questa settimana sull’onda emotiva creata ad arte con l’annuncio dell’ennesima quanto fantomatica minaccia “terroristica”.
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di Rosa Ana De Santis
La pratica di beatificazione di Monsignor Oscar Romero, il martire di El Salvador che aveva denunciato gli orrori della dittatura militare e aveva difeso strenuamente il popolo oppresso, era ferma dal 1997. Papa Francesco, finalmente e per primo, riapre la causa e ne invoca subito la beatificazione.
Prima di essere brutalmente assassinato dagli squadroni della morte di Roberto D’Abuisson, Monsignor Romero, aveva cercato aiuto dal Vaticano. Pur bussando alla porta di Giovanni Paolo per avere sostegno nella denuncia della barbarie che avveniva in Salvador e in tanto Sudamerica, rimase però inascoltato e ai margini della Chiesa di Roma per lungo tempo. La sua fede nella giustizia risultava troppo infarcita di “politica” ed era poco “in linea” con la mission politica del papato di Woytila, impegnato fino in fondo nella mistica anti-comunista e filo americana e molto poco sensibile all’imperialismo del Sud del Mondo.
Eppure Romero, è bene ricordarlo, era un sacerdote conservatore vicino all’Opus Dei, non era mai entrato nelle file dei sacerdoti armati della teologia della liberazione così diffusa nel continente latinoamericano. Della Teologia della Liberazione, anzi, ne era tenace oppositore, ed era rimasto sempre a fare il prete e ad onorare con coerenza i valori cristiani. Ma la realtà del dominio genocida dei militari salvadoregni aveva avuto il sopravvento sulle questioni teologiche e quanto vide lo obbligò moralmente a denunciare le violazioni dei diritti della sua gente, le diseguaglianze sociali, la barbarie della dittatura e le complicità omertose internazionali.Furono denunce gridate dal pulpito della sua chiesa come attraverso i canali stabiliti dal Vaticano, ma furono soprattutto le sue prediche nella sua chiesa gremita di fedeli che lo resero intollerabile al governo del democristiano Napoleon Duarte e dei suoi complici paramilitari, tutti agli ordini degli Stati Uniti.Romero da quel pulpito denunciava e su quel pulpito venne assassinato il 24 marzo del 1980, con un ostia in mano e sull’altare, mentre pronunciava le sue ultime parole: “In nome di Dio vi prego, vi scongiuro, vi ordino: cessi la repressione”. Il proiettile dei sicari arrivò a chiusura della frase mentre i fedeli attoniti correvano a soccorrerlo. Fu tutto inutile. Per paradosso della storia, o per ipocrisia congenita, Duarte divenne Segretario dell'Internazionale della Democrazia Cristiana.
L’annuncio dello sblocco voluto da Bergoglio arriva a Bari per bocca del postulatore, arcivescovo Vincenzo Paglia, nel momento in cui vengono celebrati i venti anni della morta di don Tonino Bello, un altro prossimo beato. Il segno del rinnovamento che ha accompagnato la nomina di Papa Francesco non è solo questione di stile, di linguaggio e di comportamenti più sobri e meno cerimoniosi. Avviene, evidentemente, con delle scelte concrete e coraggiose che segnano profonda discontinuità rispetto al passato, sia con il papato di Joseph Ratzinger che con il ventennio di Wojtyla che lo ha preceduto e che ha caratterizzato una fase marcatamente politica e temporale della storia della Chiesa.
Papa Bergoglio pone le basi non soltanto di una Chiesa più umile e vicina all’autenticità del messaggio cristiano, ma di una vera famiglia spirituale dove i martiri come Romero sono santi subito, anche quando sono scomodi negli equilibri dei poteri politici o forse soprattutto in questo caso.
L’annuncio della beatificazione di Oscar Arnulfo Romero arriva come un risarcimento spirituale per il popolo del Salvador e di tutta l’America Latina che dall’anno della sua morte celebra già nelle chiese Monsignor Romero come icona di giustizia e come martire contemporaneo. Ma la beatificazione di Romero è una benedizione più per la Chiesa e la Curia romana che ha incensato santi d’ogni sorta, guaritori e vergini, stigmate, figure controverse come Josemaría Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus dei canonizzato da Wojtyla in velocità, lasciando fuori la porta chi ha dato la sua vita per gli ultimi, chi ha denunciato i farisei, chi ha combattuto contro Erode fino a morire in croce con l’ultima omelia per la giustizia e il coraggio sulle labbra. Una di quelle denunce che in Argentina il gesuita Bergoglio avrà ascoltato mille e una volta. Papa Francesco ha deciso di riparare alle sordità del passato e ad aprire la porta a un santo degli ultimi e con lui, come in molti sperano, agli ultimi.
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di Mario Lombardo
Con la vittoria del discusso imprenditore miliardario Horacio Cartes nelle elezioni presidenziali di domenica scorsa, il Partito Colorado conservatore è tornato al potere in Paraguay dopo la sconfitta nel voto del 2008 che aveva interrotto 61 anni consecutivi di dominio assoluto nel secondo paese più povero di tutto il Sudamerica. Cartes ha ottenuto il 46% dei consensi contro il 37% andati all’altro favorito della vigilia, il senatore Efraín Alegre, candidato di un altra formazione politica di destra, il partito Radicale Liberale.
Il 56enne neo-presidente appartiene alla ristrettissima élite paraguayana ed è entrato a far parte del Partito Colorado soltanto nel 2009. Tra le sue svariate proprietà spiccano banche, fondi di investimento, aziende agricole, piantagioni di tabacco e una delle più importanti squadre di calcio del paese.
I due candidati conservatori hanno staccato nettamente gli aspiranti alla presidenza di centro-sinistra. L’ex presentatore TV Mario Ferreiro dell’alleanza Avanza País si è fermato al 5,5%, mentre il candidato del Fronte Guasú, Aníbal Carrillo, ha raccolto appena il 3,5%. Quest’ultima coalizione è guidata dall’ex presidente e neo-senatore Fernando Lugo, in grado cinque anni fa di sconfiggere per la prima volta dopo oltre sei decenni il Partito Colorado.
Proprio la vicenda dell’ex vescovo paraguayano nell’estate del 2012 aveva posto le basi per il ribaltamento degli equilibri politici ad Asunción. Alleandosi con il Partito Radicale Liberale, nel 2008 Lugo aveva conquistato la presidenza grazie all’entusiasmo suscitato dalla promessa di riforme sociali e, soprattutto, di mettere mano alla riforma agraria in un paese dove l’1% della popolazione controlla il 77% delle terre coltivabili.
La presidenza Lugo era apparsa però da subito problematica. Alla mancanza di una vera e propria maggioranza politica in Parlamento si erano aggiunti ben presto i ripetuti scandali scoppiati in seguito alle rivelazioni di alcune donne che avevano sostenuto di avere dato alla luce figli illegittimi dell’ex vescovo cattolico.Nonostante i modesti risultati concreti ottenuti dal suo governo, Lugo ha dovuto fare i conti inoltre con l’irriducibile opposizione dei poteri forti paraguayani e degli Stati Uniti, entrambi responsabili della sua rimozione dalla guida del paese lo scorso anno.
Utilizzando come pretesto i violenti scontri tra le forze di polizia e un centinaio di contadini che avevano occupato alcune terre di proprietà di un membro del Partito Colorado, nel giugno del 2012 la maggioranza di centro-destra del Parlamento aveva infatti aperto un rapido procedimento di impeachment contro Fernando Lugo, estromettendolo dal potere in quello che da molti è stato definito come un “golpe legislativo”, portato a termine con il tacito consenso di Washington.
Al posto di Lugo venne così installato il suo vice, Federico Franco, del Partito Radicale Liberale e il Paraguay, su iniziativa dei governi di sinistra al potere nei paesi vicini, è stato subito sospeso dalle organizzazioni latino-americane Mercosur (Mercato Comune del Sud), UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane) e CELAC (Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi) di cui è membro.
Dopo l’annuncio dei risultati del voto di domenica scorsa, Horacio Cartes ha però ricevuto i complimenti, tra gli altri, dei presidenti di Argentina, Brasile, Uruguay e Venezuela. Da Buenos Aires, in particolare, Cristina Kirchner ha espresso al neo-presidente paraguayano la speranza di vedere riammesso il suo paese nel Mercosur. Lo stesso Cartes, da parte sua, ha già fatto sapere di essere entrato in contatto con i vertici del Mercosur per ottenere la riammissione del Paraguay prima del suo insediamento ufficiale, previsto per il prossimo 15 agosto. Si potrebbe obiettare che l'elezione di Cartes é comunque stata la puntata finale di un film iniziato con il golpe istituzionale contro Lugo, ma va evidenziato come il processo unitario latinoamericano ha bisogno di non essere accusato di politicizzazione estrema nella scelta dei paesi che lo compongono
Il Paraguay, comunque, non rappresentando nessun peso politico particolare, all’interno dei fori della democrazia latinoamericana sarà del tutto ininfluente e si limiterà a svolgere il ruolo di ventriloquo di Washington, come già del resto già fa - e con molto maggior peso - il Messico, senza che ciò possa mettere in discussione l'impianto politico generale indipendentista del nuovo corso del subcontinente.
Per quanto attiene invece alla vicnda politica interna del Paraguay, Cartes ha un passato non esattamente immacolato, dal momento che è stato coinvolto in più di una vicenda giudiziaria ed è al centro di molti dubbi e sospetti. Come hanno rivelato alcuni documenti diplomatici pubblicati da WikiLeaks, ad esempio, Cartes venne identificato dalla DEA americana (Drug Enforcement Administration) come il vertice di un’organizzazione dedita al riciclaggio di denaro proveniente dal narcotraffico e strettamente legata ai narcotrafficanti brasiliani. Nel 2000, inoltre, la polizia paraguayana sequestrò un aereo con un carico di cocaina e marijuana che era atterrato su una delle sue proprietà. Già nel 1989, invece, Cartes era finito in carcere per quasi un anno con l’accusa, successivamente caduta, di riciclaggio.
Nel 2004, infine, era stato il governo brasiliano ad accusarlo di essere a capo di un’organizzazione dedita al contrabbando di sigarette, mentre la sua ascesa politica sarebbe dovuta al sostegno del senatore del Partito Colorado, Juan Carlos Galaverna, coinvolto secondo le polizie e i servizi di intelligence stranieri nelle attività delle reti del narcotraffico attive in Paraguay.Con queste credenziali, Horacio Cartes ha avuto il sostegno di un partito che è espressione dei grandi proprietari terrieri e del business agricolo del paese. Con quasi il 40% della popolazione che vive al di sotto della soglia ufficiale di povertà, il nuovo Presidente intende dedicarsi ora alla trasformazione dello stato in uno strumento volto a “creare le condizioni ideali perché il settore privato possa prosperare”.
Un’agenda improntata al neo-liberismo quella di Cartes che rischia di scontrarsi precocemente sia con i settori più tradizionalisti del partito che fu del dittatore Alfredo Stroessner (1954-1989) sia con la massa di contadini senza terra, alimentando uno scontro sociale già esploso in numerosi episodi di violenza. Di Stroessner, del resto, Cartes ha cantato le lodi a più riprese, a dimostrazione di come la continuità tra la dittatura e la democradura paraguayana si dispiega modificando solo la forma giuridica del suo dominio.
Il Presidente paraguayano potrà comunque contare sulla maggioranza assoluta conquistata sempre domenica dal Partito Colorado nella Camera bassa del Parlamento, mentre al Senato i seggi ottenuti dalla sua formazione politica sono stati 19 sui 45 complessivamente in palio.
Il voto di domenica è stato monitorato da delegazioni inviate dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), dall’Unione Europea e dall’UNASUR, le quali, malgrado qualche isolato episodio, non hanno rilevato significative irregolarità nell’accesso ai seggi. Ciononostante, alla vigilia delle elezioni presidenziali molti giornali avevano descritto il diffuso tentativo di comprare il voto degli elettori paraguayani da parte del Partito Colorado e di quello Radicale Liberale. Nulla che non fosse già ampiamente noto. Narcotrafficante, padrone di mezzo paese e amico di dittatori agli ordini di Washington, Cartes non poteva che vincere le elezioni.
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di Michele Paris
A più di una settimana dalle esplosioni alla maratona di Boston, l’individuazione dei due presunti responsabili dell’attentato continua a sollevare parecchi dubbi e perplessità. Svariate rivelazioni della stampa hanno infatti dimostrato come l’FBI fosse da tempo a conoscenza dei fratelli Tsarnaev, confermando come un altro atto terroristico - reale o fabbricato - messo in atto negli Stati Uniti nell’ultimo decennio sia con ogni probabilità ancora una volta da attribuire a individui le cui attività, quantomeno, erano finite all’attenzione dell’apparato della sicurezza nazionale americana.
Per cominciare, il governo russo un paio di anni fa aveva richiesto all’FBI informazioni sul fratello maggiore - Tamerlan Tsarnaev, ucciso la settimana scorsa dalle forze di polizia USA - qualche mese prima di una sua visita ai familiari in Cecenia e in Dagestan perché sospettato di essere in contatto con la rete terroristica internazionale di matrice islamica.
Secondo l’FBI, la risposta alle autorità russe era stata inoltrata nell’estate del 2011 dopo che una ricerca tra i propri archivi non aveva evidenziato “alcuna attività terroristica, né sul fronte domestico né su quello estero”. Alcuni agenti sarebbero anche stati inviati a Boston con l’incarico di fare domande allo stesso Tamerlan e ad alcuni suoi familiari. I media russi hanno però scritto in questi giorni che i servizi di sicurezza di Mosca avevano nuovamente contattato l’FBI nel novembre scorso in merito al 26enne ceceno.
Soprattutto, la versione della polizia federale statunitense contrasta con quella fornita dai genitori dei due fratelli in un’intervista pubblicata nel fine settimana appena trascorso dal network Russia Today (RT). La madre, Zubeidat Tsarnaeva, ha infatti descritto frequenti contatti tra la sua famiglia e gli agenti dell’FBI, i quali avevano definito Tamerlan un “leader estremista” di cui temevano le attività”. Per la donna, dunque, i suoi due figli sarebbero stati “incastrati”, visto che il maggiore è stato “sotto il controllo dell’FBI per un periodo compreso tra i tre e i cinque anni”.
Il padre, inoltre, ha aggiunto che l’FBI aveva visitato la loro abitazione a Cambridge, nel Massachusetts, almeno cinque volte alla ricerca di Tamerlan, così da prevenire possibili “esplosioni nelle strade di Boston”.
Altri dubbi sul fatto che l’FBI fosse stato a conoscenza di possibili minacce terroristiche durante la maratona sono emersi in seguito a dichiarazioni come quella dell’allenatore della squadra di corsa campestre dell’Università di Mobile, nell’Alabama, che ha partecipato all’evento di lunedì scorso.Quest’ultimo ha raccontato di aver visto svariati agenti con cani in grado di fiutare esplosivi sia alla partenza della maratona che sul traguardo, ma anche cecchini sui tetti degli edifici circostanti. Avendo partecipato a decine di maratone negli Stati Uniti e in Europa, l’allenatore ha definito come insolite queste misure di sicurezza, mentre gli agenti impegnati avevano cercato di rassicurare i partecipanti dicendo che si trattava soltanto di normali esercitazioni.
Questa testimonianza va considerata con la massima attenzione e potrebbe dare credito alla tesi di qualche commentatore che, soprattutto nei siti di news alternativi, ha fatto notare come negli ultimi anni l’FBI abbia condotto una lunga serie di operazioni per incastrare potenziali terroristi che, da soli, mai avrebbero rappresentato una minaccia per la sicurezza nazionale.
In quelle che vengono definite “sting operations”, gli agenti federali individuano quasi sempre giovani disadattati appartenenti ad una minoranza etnica o religiosa e che hanno manifestato opinioni relativamente estremiste, per poi coinvolgerli in un complotto terroristico fornendo loro tutti gli strumenti necessari, compresi finti esplosivi. Simili operazioni hanno già portato a numerose pesanti condanne e, secondo alcuni, non è da escludere che in più di una circostanza l’esito finale possa essere risultato tutt’altro che inoffensivo per la sicurezza degli americani.
Ancora più inquietante è infine la ricostruzione fatta dal sito DebkaFile che vanta legami con l’intelligence e gli ambienti militari israeliani. Anche se spesso dall’attendibilità non esattamente indiscutibile, DebkaFile sostiene che i fratelli Tsarnaev erano agenti che stavano facendo il doppio gioco. Assoldati dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita per penetrare la rete jihadista Wahabita che si è diffusa nella regione del Caucaso russo, Tamerlan e il 19enne Dzhokhar avrebbero finito per tradire la loro missione, offrendo i loro servizi al terrorismo islamico.
Questa versione, a sua volta, ha il merito di ricordare gli effetti indesiderati dell’utilizzo delle reti terroristiche islamiche fatto dagli Stati Uniti, i quali le indicano alternativamente come il proprio nemico giurato oppure le sfruttano più o meno apertamente per raggiungere i propri obiettivi strategici. Nel caso del terrorismo ceceno, i cui affiliati stanno partecipando con l’appoggio americano al conflitto in Siria per rovesciare il regime di Assad, è ampiamente documentato il sostegno di Washington alle forze separatiste che negli anni Novanta hanno combattuto contro l’esercito russo.
Coloro che si aspettano qualche risposta ai dubbi sui fatti di Boston del 15 aprile scorso dall’interrogatorio di Dzhokhar Tsarnaev resteranno con ogni probabilità delusi. Il giovane accusato dell’attentato è tuttora ricoverato in condizioni critiche in un ospedale di Boston, dove agenti della sicurezza degli Stati Uniti gli starebbero però già ponendo domande sull’accaduto. Se il sindaco della metropoli del Massachusetts, Tom Menino, ha sostenuto che il giovane, viste le sue condizioni, potrebbe non essere mai più in grado di sostenere un interrogatorio, la ABC lunedì ha rivelato che Dzhokhar sarebbe “cosciente” e starebbe “rispondendo sporadicamente e per iscritto alle domande” postegli.Al di là della sua capacità di esprimersi dopo le ferite riportate nello scontro a fuoco con la polizia prima della cattura, le risposte più significative di Dzhokhar Tsarnaev sono destinate a rimanere segrete. Infatti, l’amministrazione Obama ha deciso di negargli i cosiddetti “Miranda rights”, vale a dire i diritti garantiti dalla Costituzione di ottenere l’assistenza di un legale, il quale potrebbe rivelare pubblicamente il contenuto delle domande poste al sospettato, e di rimanere in silenzio, come stabilito da una sentenza della Corte Suprema del 1966 (“Miranda contro Arizona”).
Questa misura profondamente antidemocratica adottata dal presidente Obama poggia su un’altra sentenza del supremo tribunale americano emessa nel 1984 (“New York contro Quarles”) e viene giustificata dalle necessità di sicurezza nazionale in presenza di accuse legate ad attività terroristiche. Quella che dovrebbe rappresentare un’eccezione, si è però di fatto trasformata in un mezzo per svuotare la Costituzione stessa, dal momento che l’FBI è ormai autorizzato a continuare i propri interrogatori senza leggere ai detenuti i propri diritti anche per ottenere informazioni non collegate ad una minaccia imminente.
Dal Congresso americano, poi, stanno giungendo appelli di senatori e deputati repubblicani per definire Dzhokhar Tsarnaev come “nemico in armi”, così da consegnarlo alle autorità militari e, privato di tutti i diritti costituzionali, sottoporlo a detenzione indefinita. La Casa Bianca, tuttavia, ha fatto sapere di voler processare il giovane di origine cecena in un tribunale civile, dal momento che, come ha fatto notare lunedì il New York Times, “gli Stati Uniti sono impegnati in un conflitto armato con Al-Qaeda e non con ogni musulmano estremista” e “non ci sono prove che suggeriscano una sua affiliazione ad Al-Qaeda”.
Il trattamento dell’unico sospettato per i fatti di Boston non è che l’ennesima conferma del preoccupante deterioramento dei diritti democratici negli Stati Uniti in questi anni. Una situazione resa ancora più evidente dall’incredibile stato di assedio a cui è stata sottoposta la città di Boston e alcuni sui sobborghi la scorsa settimana durante l’operazione che ha portato all’uccisione di Tamerlan Tsarnaev e all’arresto del fratello.Con la pressoché totale approvazione dei media ufficiali, più di un milione di persone sono state costrette a rimanere nelle loro case, mentre svariate abitazioni nella località di Watertown sono state sottoposte a perquisizioni arbitrarie senza alcun mandato di un giudice. Inoltre, nelle strade deserte il dispiegamento di forze di polizia, elicotteri, armi e mezzi pesanti per la cattura di un 19enne sembrava più adatto ad un teatro di guerra come Kabul o Baghdad che ad una città della East Coast statunitense.
Il senso di panico alimentato nella popolazione dalle autorità e dai media ha finito comunque per produrre un consenso diffuso per l’operato delle forze di polizia, tanto che, una volta conclusa l’operazione, per le strade di Boston in molti hanno festeggiato l’arresto di Dzhokhar Tsarnaev sventolando bandiere americane.
Una risposta all’attentato, quella messa in atto dal governo americano, che è sembrata in ogni caso assumere quasi i contorni di una prova generale di un’operazione su vasta scala in un contesto urbano volta a reprimere una rivolta popolare che, come è ben consapevole la classe dirigente di Washington, potrebbe esplodere in un futuro non troppo lontano a causa delle politiche anti-sociali messe in atto in questi anni per salvare il sistema capitalistico dalla crisi strutturale in atto.
Il pretesto della “guerra al terrore” e i metodi pseudo-legali adottati per combatterla da oltre un decennio, d’altra parte, hanno prodotto la militarizzazione della società americana e gettato le basi per la creazione di uno stato di polizia, assegnando al governo poteri senza precedenti per affrontare le minacce domestiche che si presenteranno con l’intensificarsi delle tensioni sociali nel paese.
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di Michele Paris
Il Gran Premio di automobilismo in programma domenica prossima nel Bahrain andrà regolarmente in scena per il secondo anno consecutivo nonostante la persistente repressione messa in atto dal regime fin dal febbraio del 2011 contro i manifestanti che chiedono riforme e maggiori diritti democratici. In vista dello svolgimento delle prove e della gara vera e propria, gli attivisti del piccolo paese mediorientale hanno programmato nuove manifestazioni di protesta, già accolte con il consueto pugno di ferro dalle forze di sicurezza, nonché dalla sostanziale indifferenza dei vertici della Formula 1.
Già nei giorni precedenti l’arrivo delle varie scuderie in Bahrain, il regime guidato dal sovrano Hamad bin Isa al-Khalifa aveva adottato misure estreme nei confronti degli oppositori. Come ha raccontato mercoledì al Guardian l’attivista Ala’a Shehabi, sono stati presi provvedimenti per tenere i manifestanti lontani dalla capitale, Manama, mentre è stato imposto il divieto assoluto di organizzare qualsiasi forma di protesta. Di conseguenza, contestazioni e scontri con le forze di polizia sono stati registrati finora in località periferiche, lontano dagli occhi dei giornalisti giunti in Bahrain, così da non mettere troppo in imbarazzo il governo e gli organizzatori del Gran Premio.
A descrivere le attività delle forze del regime nei giorni scorsi è stato il portavoce dell’ONG Bahrain Center for Human Rights, Said Yousif, secondo il quale la nuova ondata di repressione in previsione della gara di automobilismo è iniziata “due settimane fa, in particolare nei villaggi che si trovano nelle vicinanze del circuito. 65 persone sono state arrestate, mentre i leader dell’opposizione, prima di venire rilasciati, hanno subito percosse e torture così da mostrare a tutti i segni” del trattamento a loro riservato.
Inoltre, per disperdere le proteste, la polizia ha fatto ampio uso di gas lacrimogeni, spesso sparati alla testa di alcuni manifestanti, come ha rivelato Human Rights Watch basandosi su testimonianze raccolte nel paese. La stessa organizzazione a difesa dei diritti umani giovedì ha poi emesso un comunicato sul proprio sito web, condannando l’organismo internazionale che governa la Formula 1, poiché “non ha fatto nulla per evitare gli abusi che sono stati commessi e che sono da ricondurre direttamente all’evento” sportivo.
Il disinteresse mostrato dai dirigenti della Formula 1 per la sorte degli attivisti e della maggioranza della popolazione del Bahrain appare tanto più grave alla luce del pesante bilancio degli scontri che erano avvenuti nell’edizione dello scorso anno. In quell’occasione, infatti, la risposta delle forze di sicurezza alle proteste prima della gara causò la morte di un manifestante, ucciso con un arma da fuoco dalla polizia dopo essere stato arrestato e picchiato brutalmente.
Secondo la responsabile per il Medio Oriente di Human Rights Watch, Sarah Leah Whitson, “gli organi della Formula 1 preferiscono nascondere la testa sotto la sabbia e rischiare che la gara venga disputata nonostante la repressione che l’evento stesso ha provocato”.
Le massime autorità dell’automobilismo internazionale, da parte loro, stanno cercando di mantenere un basso profilo in questi giorni e, quando pressati dalla stampa, hanno rilasciato dichiarazioni che celano a malapena il loro esclusivo interesse per le ragioni commerciali legate all’evento.
Il boss della Formula 1, il miliardario ultra-reazionario Bernie Ecclestone, qualche giorno fa aveva ad esempio affermato che in Bahrain non era in corso nessuna dimostrazione contro il regime, nonostante fossero già avvenuti arresti e violenti scontri nel paese.
Successivamente, l’imprenditore britannico - noto per avere definito Adolf Hitler “un uomo capace di ottenere risultati” e per avere spiegato che la democrazia è un sistema che “non è stato in grado di produrre cose positive in molti paesi” - è stato costretto a fare una parziale marcia indietro, sostenendo inoltre di essere disponibile ad incontrare i leader dell’opposizione al regime sunnita stretto alleato degli Stati Uniti e dell’Occidente.Ecclestone ha poi ribadito quali siano le priorità dell’organismo di cui è a capo, aggiungendo che il suo desiderio e quello dei suoi colleghi d’affari è che “non ci siano problemi, che non si vedano persone che discutono o si scontrano per cose che noi non comprendiamo”.
Alla vigilia del Gran Premio del 2012, Ecclestone aveva effettivamente ricevuto a Londra e a Manama rappresentanti delle opposizioni ma dopo i colloqui aveva affermato che “risultava veramente difficile decidere chi avesse ragione e chi torto” tra i manifestanti sottoposti a continue violenze ed abusi da una parte e un regime dittatoriale che garantisce ai vertici dell’automobilismo mondiale guadagni milionari dall’altra.
Le questioni che il quarto uomo più ricco di Gran Bretagna afferma di faticare a comprendere sono in realtà evidenti a tutta la comunità internazionale, visto che le notizie degli assassini, delle torture, degli arresti arbitrari e delle discriminazioni ai danni degli oppositori del regime e della maggioranza sciita della popolazione del Bahrain sono state riportate dai media di tutto il mondo negli ultimi due anni, così come più di un titolo ha ricevuto nel marzo del 2011 l’ingresso nel paese delle forze armate saudite e di altri paesi del Golfo Persico per reprimere nel sangue le proteste di piazza.
A rompere il silenzio sul Bahrain è stato poi in questi giorni anche Jean Todt, presidente della Federazione Internazionale dell’Automobile (FIA) ed ex direttore generale del team Ferrari, il quale in una lettera alle locali ONG ha assurdamente comunicato che “il Gran Premio può avere un effetto positivo e benefico su una situazione nella quale gli scontri, il malessere sociale e le tensioni stanno causando sofferenze”.La pretesa di Todt è semplicemente ridicola, dal momento che questa manifestazione, oltre ad avere determinato un’intensificazione della repressione del regime, finisce per beneficiare esclusivamente una ristretta cerchia di multi-miliardari che incassano somme astronomiche grazie al giro d’affari prodotto dalla gara.
La competizione nel Bahrain, secondo alcune stime, frutterebbe circa 40 milioni di sterline alla Formula 1, mentre l’evento muove complessivamente centinaia di milioni di dollari. Di fronte a queste cifre, è facile comprendere le ragioni per cui la gara è stata reinserita nel calendario della Formula 1 nel 2012 dopo la cancellazione dell’anno precedente.
Lo svolgimento dell’evento sportivo più prestigioso che ospita il Bahrain, infine, non ha contribuito minimamente al miglioramento della situazione nel paese, né a spingere la monarchia assoluta a fare concessioni significative. Come ha evidenziato ancora Human Rights Watch giovedì, infatti, “al contrario dell’impunità garantita alle forze di sicurezza [responsabili materiali della repressione delle proteste], il sistema giudiziario del Bahrain continua a perseguire i manifestanti pacifici”.
Lo scorso 7 gennaio, ad esempio, la Corte di Cassazione ha confermato lunghe condanne detentive per 13 dissidenti – tra cui 7 ergastoli – colpevoli soltanto “di avere esercitato pacificamente il loro diritto di espressione e di assemblea nel corso delle proteste del 2011”.