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di Mario Lombardo
Le elezioni parlamentari anticipate di domenica scorsa in Bulgaria sono state segnate da un livello record di astensionismo in un paese attraversato da un profondissimo sconforto e da un’ostilità diffusa verso l’intera classe dirigente, prodotti da anni di politiche regressive, messe in atto da tutti gli schieramenti succedutisi al governo. Con il conteggio pressoché ultimato delle schede, il maggior numero di consensi è andato al partito di governo di centro-destra Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria (GERB) dell’ex premier Boyko Borisov.
Quest’ultimo si era dimesso a fine febbraio in seguito ad un’ondata di proteste popolari contro il massiccio rincaro dei costi dell’energia elettrica nel paese più povero dell’Unione Europea e, più in generale, contro le durissime misure di austerity messe in atto dietro indicazione degli ambienti finanziari internazionali.
Borisov era stato così rimpiazzato da un esecutivo di transizione, guidato dall’ex membro di GERB diventato “indipendente”, Marin Raykov, ugualmente incapace di rispondere alle richieste dei bulgari che hanno continuato a manifestare nelle principali città del paese.
L’umiliazione patita da Borisov - ex guardia del corpo del dittatore Todor Zhivkov prima del crollo dell’Unione Sovietica - sembrava dover mettere addirittura fine alla sua carriera politica, ma il risultato del voto dell’altro giorno ha decretato il suo ritorno sulla scena a Sofia, anche se non necessariamente alla guida del prossimo governo.
Quella di GERB, infatti, è stata una prestazione tutt’altro che entusiasmante. Innanzitutto, il 30,7% dei voti raccolti dal partito di Borisov segna una perdita di ben 9 punti percentuali rispetto alle elezioni del 2009 che lo portarono al potere. L’astensionismo ha poi sfiorato addirittura il 50%, determinando per GERB una perdita nel numero dei voti complessivi ancora più significativa.
Il partito di governo, infine, potrà contare soltanto su una maggioranza relativa all’Assemblea Nazionale, con prospettive di formare un esecutivo, per quanto si è potuto vedere nelle prime ore dopo il voto, ben poco incoraggianti. Nonostante il relativo successo, GERB rimane infatti estremamente impopolare nel paese, tanto che le formazioni minori in grado domenica di superare la soglia di sbarramento del 4% hanno già escluso l’ipotesi di entrare in una coalizione di governo con il principale partito conservatore bulgaro.
Come ha affermato un analista locale un un’intervista pubblicata lunedì dalla Associated Press, “per la prima volta in 23 anni si è assistito al secondo successo consecutivo del partito al potere, ma stranamente si è formato attorno ad esso una sorta di cordone sanitario”, così che, malgrado la vittoria, GERB “non sarà nella posizione di modellare il futuro del paese”.A conferma di ciò, non appena sono stati diffusi i primi risultati del voto, una consistente folla di manifestanti si è riversata per le strade di Sofia per protestare contro un futuro governo guidato da GERB. I manifestanti hanno gridato più volte la parola “Mafia” all’indirizzo dei politici prima di dover fronteggiare le cariche delle forze dell’ordine.
Se i vertici di GERB non riusciranno a formare un governo di coalizione o di minoranza, il presidente bulgaro Rosen Plevneliev - anch’egli di GERB - assegnerà probabilmente un incarico esplorativo al leader del secondo partito per numero di voti, quello Socialista (BSP). Quest’ultimo ha ottenuto il 27% dei suffragi e il suo numero uno, Sergei Stanishev, ha già rilasciato dichiarazioni di apertura verso tutti partiti, ad esclusione di GERB, disponibili ad entrare in un suo futuro gabinetto.
Secondo i dati della Commissione Elettorale Centrale, gli altri partiti che si sono assicurati una rappresentanza in Parlamento sono soltanto il Movimento per i Diritti e le Libertà (DPS), che rappresenta la minoranza turca (10,7%), e il partito ultra-nazionalista ATAKA (7,4%), entrambi in flessione rispetto all’appuntamento elettorale di quattro anni fa.
Le parole di Stanishev rivelano come il Partito Socialista sia dunque pronto a trasformarsi nuovamente nello strumento della classe dirigente bulgara dopo una campagna elettorale all’insegna delle critiche al governo uscente per l’eccessivo rigore che ha depresso e impoverito il paese. Le élite economiche del paese dell’Europa Orientale e Bruxelles, con ogni probabilità, sembrano infatti preferire un governo socialista, perché considerato maggiormente in grado di tenere a freno il malcontento e le tensioni sociali esplose nei mesi scorsi rispetto a Borisov e il suo partito, anche grazie alla stretta collaborazione con le associazioni sindacali.
Il risultato elettorale del BSP, peraltro, dimostra un sostanziale discredito anche dei post-comunisti tra la popolazione. Anche se i socialisti hanno fatto segnare quasi dieci punti percentuali in più del 2009, i sondaggi del marzo scorso dopo le dimissioni di Borisov indicavano un sostanziale vantaggio e la possibilità di formare una comoda maggioranza di governo.
Il rapido declino con l’approssimarsi del voto, assieme alla riabilitazione di Borisov, ha perciò mostrato quale sia il livello di gradimento di un partito, come quello Socialista, protagonista negli ultimi due decenni di esperienze di governo caratterizzate dalle stesse politiche di rigore e di liberalizzazione dell’economia che hanno prodotto l’attuale situazione di crisi in Bulgaria.Le misure di austerity introdotte anche in questo paese, oltre a scatenare massicce proteste e ad aver causato la morte di almeno sette persone che negli ultimi mesi si sono date fuoco, hanno fatto in modo che a tutt’oggi quasi la metà della popolazione sia costretta a vivere al di sotto della soglia di povertà o sia sul punto di scivolarvi, mentre per i cittadini più anziani la quota sale addirittura al di sopra del 60%.
Il panorama politico bulgaro, inoltre, è stato caratterizzato in questi anni da una serie di scandali e accuse di corruzione soprattutto nei confronti del partito di governo, così che le numerose segnalazioni di brogli elettorali nella giornata di domenica sono apparse ben poco sorprendenti. Secondo i media locali, ad esempio, 17 persone sarebbero state arrestate dopo aver cercato di comprare il voto degli elettori per i partiti di cui erano al servizio.
L’episodio più grave, anche se messo in dubbio da alcuni giornali, è stato però quello del ritrovamento di ben 350 mila schede illegali in una fabbrica tipografica appartenente ad un consigliere comunale del partito GERB e pronte ad essere distribuite in svariati seggi elettorali. La notizia, su cui sta indagando la magistratura bulgara, è stata apertamente utilizzata dal leader socialista Stanishev per accusare il rivale Borisov di voler manipolare l’esito del voto, mentre l’ex primo ministro ha fermamente respinto ogni responsabilità.
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di Michele Paris
In un clima di violenza diffusa e con un dispiegamento di forze di sicurezza senza precedenti, nelle elezioni di sabato gli elettori pakistani hanno offerto una terza occasione di formare il governo del paese all’ex premier conservatore Nawaz Sharif. Il suo partito - Lega Musulmana del Pakistan-N (PML-N) - dovrebbe infatti conquistare circa 130 dei 268 seggi disponibili all’Assemblea Nazionale, staccando nettamente le altre due principali formazioni, il partito Tehreek-e-Insaf (PTI) dell’ex stella del cricket, Imran Khan, e il Partito Popolare Pakistano (PPP) attualmente al potere.
Al contrario di quanto avevano indicato gli sparuti sondaggi della vigilia, Nawaz e il suo partito hanno ottenuto una vittoria con un margine di vantaggio consistente, soprattutto grazie al dominio fatto registrare nella roccaforte del Punjab, frustrando le ambizioni del PTI di giocare almeno il ruolo di ago della bilancia nel dopo-elezioni.
Malgrado le minacce e le intimidazioni dei Talebani pakistani, l’affluenza è stata molto più alta rispetto al 44% del precedente appuntamento elettorale del 2008. Secondo un portavoce della Commissione Elettorale citato dalla BBC, tra il 60% e l’80% dei votanti si sarebbe recato alle urne nella giornata di sabato.
Anche le ultime ore prima dell’apertura dei seggi erano state segnate da violenze, con 11 morti e 40 feriti in un’esplosione nella megalopoli di Karachi contro una sede del Partito Nazionale Awami (ANP), formazione di ispirazione secolare facente parte della coalizione di governo uscente teoricamente di centro-sinistra. Altri attacchi terroristici sono stati poi registrati nella provincia sud-occidentale del Belucistan e nella città di Peshawar, non lontano dal confine con l’Afghanistan.
Numerose sono state anche le segnalazioni di brogli, soprattutto a Karachi, dove i risultati in decine di seggi sono stati invalidati.
Un delegato del PTI ha rivelato al quotidiano pakistano Express Tribune che le violazioni e gli abusi comunicati alla Commissione Elettorale sono stati più di 800. Anche per questo motivo, il dato definitivo del voto sarà annunciato solo tra alcuni giorni.
Relativamente deludente è stata poi la prestazione del PTI di Imran Khan, il quale secondo i media avrebbe dovuto beneficiare in termini elettorali della grave caduta da una piattaforma provvisoria, patita martedì scorso nel corso di un comizio a Lahore. Dopo una campagna elettorale basata sulla lotta alla corruzione e sulla necessità di cambiamento, trovando un qualche seguito tra i giovani e la borghesia urbana, il suo partito si è aggiudicato una trentina di seggi.
Il PTI, il cui leader ha escluso l’ingresso in una coalizione di governo con il PML-N, dovrebbe però conquistare il controllo della delicata provincia Khyber Pakhtunkhwa, situata al confine nord-occidentale con l’Afghanistan e teatro delle operazioni “anti-terrorismo” degli Stati Uniti, oggetto delle accese critiche dello stesso Imran prima del voto.
Sconfitto pesantemente come previsto è stato il PPP del presidente Asif Ali Zardari, il cui numero di seggi secondo le proiezioni dovrebbe essere di poco superiore ai 30, circa il doppio di quelli attribuiti al principale alleato di governo, il Movimento Muttahida Qaumi (MQM). Oltre al profondo malcontento provocato dai cinque anni di governo, segnati da politiche che hanno impoverito la gran parte della popolazione pakistana e dalla stretta collaborazione con Washington, il PPP e gli altri partiti secolari sono stati anche penalizzati dagli attacchi contro i loro candidati condotti dai Talebani, responsabili inoltre giovedì scorso del rapimento di uno dei figli dell’ex primo ministro, Yousaf Raza Gilani, anch’egli candidato all’Assemblea Nazionale.
A testimoniare il declino del PPP è stata la pesante sconfitta patita addirittura dal primo ministro uscente, Raja Pervaiz Ashraf, incapace di mantenere il suo seggio in Parlamento nel distretto di Rawalpindi.
Nawaz Sharif, da parte sua, è considerato non sufficientemente duro con l’integralismo islamista che opera nel paese, tanto che viene guardato ufficialmente con qualche sospetto dagli Stati Uniti e dall’Occidente. I suoi tentativi di ridurre l’influenza dei militari, tradizionale bastione dell’alleanza del Pakistan con gli USA, portarono inoltre alla sua umiliante deposizione nel 1999 - seguita dall’arresto e dall’esilio in Arabia Saudita - in seguito ad un colpo di stato che installò al potere il generale Musharraf, successivamente allineatosi alle richieste americane dopo l’invasione dell’Afghanistan nell’autunno del 2001.
Come ha evidenziato un’analisi del Washington Post di qualche giorno fa, Nawaz si sarebbe però ora trasformato in uno “statista maturo”, pronto a guidare il Pakistan in un momento in cui “la complicata alleanza con gli Stati Uniti appare sempre più vitale per combattere l’estremismo islamista e per portare a termine la guerra in Afghanistan”.In altre parole, nonostante la retorica anti-americana utilizzata in campagna elettorale, Nawaz Sharif sarà pronto ad un accomodamento con il principale alleato di Islamabad, assicurando inoltre, vista la sua tradizionale predisposizione per politiche “business-friendly”, la prossima implementazione di misure economiche impopolari, come previsto dall’accordo in fase di definizione con il Fondo Monetario Internazionale per l’erogazione di un prestito di emergenza da 5 miliardi di dollari al Pakistan.
Il successo di sabato, tuttavia, non dovrebbe consentire al PML-N di Nawaz di contare su una maggioranza assoluta nell’Assemblea Nazionale, costringendolo a cercare alleati per formare il suo terzo governo del Pakistan, dopo quelli presieduti tra il 1990 e il 1993 e tra il 1997 e l’ottobre del 1999.
Anche se la stampa internazionale ha elogiato il Pakistan per il primo trasferimento di poteri della propria storia portato a termine in maniera pacifica e secondo le regole democratiche, il paese centro-asiatico continua a versare in una situazione di grave crisi economica e sociale, nonché a trovarsi perennemente sull’orlo della guerra civile e attraversato da violenze settarie.
Tornando al governo in Pakistan, dunque, Nawaz Sharif dovrà fare i conti con problematiche gigantesche, difficilmente risolvibili con un’agenda che prevede liberalizzazioni e deregulation in ambito economico, percorrendo inoltre un sentiero molto stretto tra le tensioni sociali crescenti, le pressioni americane e la volontà delle potenti Forze Armate di non perdere il ruolo di primo piano giocato durante tutta la travagliata storia di questo paese.
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di Michele Paris
Questa settimana, gli Stati Uniti hanno per la prima volta accusato in maniera esplicita la Cina di avere sistematicamente violato le reti informatiche del governo e delle maggiori corporation americane. L’innalzamento dei toni dello scontro con Pechino da parte di Washington appare del tutto ingiustificato, visti i precedenti degli stessi USA in questo ambito, ed aggiunge un altro tassello alla strategia portata avanti dall’amministrazione Obama per giustificare politiche militariste nell’ambito della “svolta” asiatica volta a contenere l’espansionismo cinese e, sul fronte domestico, misure che assegnano poteri sempre più ampi al governo federale.
L’accusa indirizzata sia al governo di Pechino che alle forze armate cinesi è contenuta nell’annuale rapporto del Pentagono sullo stato delle forze armate della seconda potenza economica del pianeta. Lo studio del Dipartimento della Difesa, il quale ha a disposizione ogni anno un budget quasi superiore a quello stanziato complessivamente per le spese militari dai governi di tutto il resto del mondo, attribuisce in sostanza alla Cina il comportamento tenuto in questi anni dagli stessi Stati Uniti sullo scacchiere internazionale.
Pechino, cioè, rappresenterebbe una minaccia alla stabilità del pianeta, in particolare alla sicurezza delle comunicazioni informatiche globali. Il governo americano, infatti, sarebbe continuamente “bersaglio di cyber-attacchi, alcuni dei quali sono riconducibili direttamente al governo e ai militari cinesi”. Secondo il Pentagono, queste operazioni di pirateria informatica, approvate o ordinate dai vertici dello stato, hanno lo scopo di “ricavare un quadro completo delle reti difensive americane, ma anche di quelle logistiche” e di valutare le “capacità militari così da sfruttare le relative informazioni nel corso di un’eventuale crisi”.
Per quanto riguarda invece lo spionaggio informatico, l’obiettivo di Pechino sarebbe quello di ottenere informazioni sulla tecnologia sviluppata in America per favorire la modernizzazione dell’industria e delle forze armate cinesi.
L’aperta accusa rivolta alla Cina rappresenta un salto qualitativo della retorica di Washington nell’ambito della guerra informatica. In precedenza, queste accuse erano state rivolte esclusivamente da enti privati o singole personalità pubbliche, come fece il New York Times nel mese di febbraio, quando pubblicò il risultato di un’analisi della compagnia di sicurezza informatica Mandiant, la quale accusava senza prove effettive un’unità segreta dell’Esercito del Popolo cinese di avere condotto una serie di cyber-attacchi ai danni di aziende, media e uffici governativi statunitensi.Prevedibilmente, la notizia del rapporto del Dipartimento della Difesa USA ha provocato le immediate e dure reazioni di Pechino, affidate soprattutto ad alcuni editoriali pubblicati sui più importanti organi di stampa del regime. Il Quotidiano del Popolo mercoledì ha così respinto al mittente le accuse, definendo gli Stati Uniti “il vero impero degli hacker”, poiché responsabile di spionaggio informatico su vasta scala non solo ai danni della Cina ma anche “dei suoi stessi alleati”.
Secondo il giornale cinese, gli americani negli ultimi anni avrebbero inoltre intensificato i cyber-attacchi, utilizzandoli come strumento per rovesciare regimi sgraditi, potendo contare su “un cyber-esercito di oltre 50 mila persone e più di 2 mila cyber-armi” a disposizione.
Gli Stati Uniti, poi, sarebbero l’unico paese che si oppone alla creazione di un sistema di regolamentazione informatico globale, sottoposto alle Nazioni Unite nel 2011 da Russia e Cina. Infine, entro il 2014 la spesa complessiva del governo americano per la sicurezza informatica dovrebbe sfiorare la cifra record di 18 miliardi di dollari.
Lo stesso ministero degli Esteri di Pechino ha a sua volta rilasciato una dichiarazione ufficiale tramite una portavoce, la quale ha affermato che il rapporto del Pentagono include “commenti irresponsabili sul normale e legittimo sviluppo del sistema difensivo cinese, ingigantendo la presunta minaccia militare da esso rappresentata”. Per quanto riguarda le accuse di violazioni informatiche, invece, il ministero degli Esteri le ha definite “critiche senza fondamento”, nonché “propaganda che minaccia gli sforzi bilaterali di cooperazione e dialogo”.
Effettivamente, sono state numerose le analisi indipendenti in questi anni ad avere indicato la Cina come una vittima degli attacchi informatici, la maggior parte dei quali provenienti precisamente dagli Stati Uniti, anche se non necessariamente approvati dalle autorità governative. Per quanto riguarda invece le violazioni dei sistemi informatici di grandi compagnie multinazionali, l’evidenza suggerisce che il numero maggiore di attacchi abbiano origine negli USA e in Russia piuttosto che in Cina.
Come ha sostenuto il fondatore del Partito Pirata svedese, Rick Falkvinge, in un articolo pubblicato mercoledì dal sito web del network Russia Today, la strategia aggressiva degli Stati Uniti anche in ambito informatico è intimamente legata alla necessità di Washington di mantenere un’assoluta superiorità militare per continuare a promuovere gli interessi della propria classe dirigente nel mondo.Per questa ragione, ha aggiunto il politico e imprenditore svedese, “è assolutamente vitale per gli USA che siano loro - e solo loro - a poter intercettare le comunicazioni del resto del mondo e a violare gli altri sistemi informatici, così da mantenere una superiorità militare che a sua volta serve ad assicurare un dominio globale e… una sorta di Pax Americana”. Se un altro paese dovesse sviluppare le stesse capacità di intercettare le comunicazioni o violare le reti informatiche, conclude Falkvinge, ciò diventerebbe una seria minaccia alla dominazione americana del pianeta.
Collegato alla conservazione della supremazia militare degli Stati Uniti e dei suoi più stretti alleati è infatti uno dei pochi attacchi informatici la cui responsabilità è attribuibile con certezza ad un governo, vale a dire la creazione del virus Stuxnet. Quest’ultimo malware - il quale rientra in un progetto più ampio di guerra informatica approvato dall’amministrazione Obama e denominato “Olympic Games” - ha causato nel 2010 la distruzione di numerose centrifughe iraniane presso la struttura di Natanz dedicata all’arricchimento dell’uranio ed è il risultato di un’operazione clandestina e illegale condotta dagli USA e da Israele.
La crescente importanza degli strumenti legati alla guerra informatica per l’imperialismo americano è testimoniata infine dall’incorporazione di essi nel quadro della “guerra al terrore” e dell’apparato pseudo-legale costruito per combatterla. Come ha rivelato un articolo del New York Times dello scorso febbraio, un parere legale segreto commissionato dall’amministrazione Obama avrebbe infatti già decretato l’assegnazione al presidente di “ampi poteri per lanciare un cyber-attacco preventivo nel caso in cui gli Stati Uniti dovessero rilevare prove dell’esistenza di un’imminente aggressione informatica proveniente dall’estero”.
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di Michele Paris
A pochi giorni da un delicatissimo voto per il rinnovo del Parlamento, il Pakistan continua a vivere le ultime battute di campagna elettorale in un clima di violenza diffusa e di crisi interna crescente. Alle bombe dei Talebani e dei gruppi integralisti attivi al confine con l’Afghanistan si è da qualche settimana aggiunta la vicenda dell’ex dittatore Pervez Musharraf, la cui detenzione dopo il ritorno in patria rischia di alimentare le tensioni nel paese e lo scontro tra la società civile da un lato e i potenti vertici militari dall’altro.
In poco più di un mese, il bilancio degli attentati condotti contro candidati nelle elezioni di sabato prossimo ha superato le 100 vittime, con un ulteriore aggravarsi della violenza negli ultimi giorni. Ad essere presi di mira sono prevalentemente i tre partiti di ispirazione secolare che formano la coalizione di governo uscente - il Partito Nazionale Awami (ANP), il Movimento Muttahida Qahumi (MQM) e il Partito Popolare Pakistano (PPP) del presidente Asif Ali Zardari - anche se recentemente le bombe hanno iniziato a colpire candidati e partiti religiosi.
Comizi elettorali del partito Jamiat Ulema-e-Islam (F) nelle giornate di lunedì e martedì sono stati infatti sconvolti da esplosioni che hanno provocato una trentina di morti tra i sostenitori accorsi per ascoltare gli interventi dei loro candidati.
Quasi sempre, gli attentati sono stati rivendicati dai Talebani pakistani (Tehrik-e-Taliban Pakistan, TTP), i quali intendono colpire soprattutto i partiti di governo, accusati di avere fornito il loro appoggio alla campagna militare degli Stati Uniti in Afghanistan e nelle aree tribali nord-occidentali del Pakistan. Anche le più recenti operazioni contro il partito fondamentalista Jamiat Ulema-e-Islam (F), tuttavia, sono state rivendicate dagli stessi Talebani, poiché il suo leader, Fazal-ur-Rehman, e alcuni candidati si sarebbero “venduti” all’imperialismo americano.
In gran parte risparmiati sono stati invece finora i due partiti conservatori favoriti, la Lega Musulmana del Pakistan-N (PML-N) dell’ex premier Nawaz Sharif e il Movimento Pakistano per la Giustizia (Pakistan Tehreek-e-Insaf, PTI) dell’ex stella del cricket Imran Khan, protagonista martedì di una grave caduta durante un comizio a Lahore in seguito alla quale ha riportato una serie di fratture. Sfruttando l’ostilità diffusa nel paese per i metodi della “guerra al terrore” americana, queste due formazioni politiche, almeno esteriormente, hanno tenuto posizioni critiche nei confronti sia degli Stati Uniti che delle campagne militari promosse dal governo per combattere i gruppi integralisti, chiedendo allo stesso tempo un qualche dialogo con questi ultimi.
Proprio Nawaz Sharif viene indicato come il più probabile prossimo primo ministro pakistano dopo avere già occupato questa carica in due occasioni, tra il 1990 e il 1993 e tra il 1997 e l’ottobre del 1999, quando venne deposto dal colpo di stato militare che portò al potere il generale Musharraf.Secondo un sondaggio condotto nel mese di marzo e pubblicato solo mercoledì dal quotidiano pakistano Dawn, su scala nazionale il partito di Nawaz (PML-N) sarebbe accreditato di quasi il 26% dei consensi, contro il 25% per il PTI di Imran Khan. Più staccato appare il PPP al potere, con meno del 18% delle preferenze a fronte di oltre il 30% fatto registrare nelle elezioni del 2008.
In particolare, nella provincia più popolosa del Pakistan - il Punjab - dove vengono assegnati più della metà dei seggi dell’Assemblea Nazionale, il PPP potrebbe fermarsi, secondo lo stesso sondaggio, al 14%, mentre il PML-N avrebbe un vantaggio di oltre 8 punti percentuali sul PTI. Per la maggior parte degli analisti, i risultati del voto di sabato non dovrebbero decretare un chiaro vincitore, rendendo perciò necessaria la formazione di un altro governo di coalizione.
Il più che probabile tracollo del PPP del presidente Zardari indica un diffuso malcontento tra la popolazione per le politiche messe in atto in questi cinque anni, sia sul fronte economico che della sicurezza interna. Per cominciare, nonostante le critiche espresse a livello ufficiale nei confronti della guerra condotta con i droni dagli Stati Uniti nelle regioni al confine con l’Afghanistan e che ha causato centinaia di vittime civili, il governo di Islamabad ha in realtà assecondato dietro le quinte la campagna di Washington, da cui dipende finanziariamente.
In ambito economico, inoltre, il governo non ha fatto nulla per rimediare all’estrema polarizzazione sociale del paese, nonché alla disperata povertà di ampi strati della popolazione, all’iniqua distribuzione delle terre o ai privilegi di un’élite economica e politica che, in larghissima parte, non è nemmeno tenuta a sborsare una sola rupia in tasse. Un’ondata di violenze settarie incontrastate, infine, attraversa da tempo il Pakistan causando centinaia di morti, soprattutto tra la minoranza di fede sciita.
Al di là dell’esito del voto, il percorso che seguirà il prossimo governo sembra comunque essere già segnato dalle trattative in corso con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) per l’erogazione di un prestito di emergenza a Islamabad.
Più volte rimandato dal precedente esecutivo per il timore che le impopolari condizioni richieste in cambio potessero fare esplodere una crisi sociale già ben oltre i livelli di guardia, l’accordo con l’FMI sembra avere fatto un decisivo passo avanti un paio di settimane fa, quando il capo del governo di transizione Mir Hazar Khan Khoso - nominato a fine marzo in seguito alle dimissioni del premier del PPP Raja Pervaiz Ashraf - ha annunciato il raggiungimento di un’intesa preliminare per un pacchetto da 5 miliardi di dollari.
In base a ciò, il prossimo governo sarà chiamato, tra l’altro, a “ristrutturare” (svendere) le principali aziende pubbliche, a ridurre i sussidi garantiti alle classi più disagiate per l’energia elettrica e ad adottare svariate altre misure di austerity che peggioreranno notevolmente le condizioni di vita già disperate di decine di milioni di persone.Su questa situazione già esplosiva alla vigilia del voto si è innestato anche l’arresto di Pervez Musharraf dopo il ritorno in Pakistan dall’esilio volontario durato quattro anni. Intenzionato a partecipare alle elezioni, l’ex dittatore sostenuto dagli Stati Uniti ha assistito dapprima all’annullamento della sua candidatura ed è finito poi agli arresti domiciliari in seguito alla formulazione di numerose accuse nei suoi confronti, tra cui il coinvolgimento nell’assassinio del dicembre 2007 dell’ex premier Benazir Bhutto e di un leader separatista del Belucistan nel 2006, la rimozione arbitraria del presidente della Corte Suprema, Iftikhar Muhammad Choudry, e molteplici violazioni della Costituzione pakistana.
Sia pure fortemente osteggiato dalla maggior parte della popolazione e da quasi tutto lo spettro politico pakistano, Musharraf indubbiamente gode tuttora di più di una simpatia all’interno delle forze armate, seriamente preoccupate per una possibile loro emarginazione ad opera del potere politico e giudiziario dopo avere esercitato per decenni una profonda influenza sul governo centrale.
I risultati delle tensioni prodotte dalla vicenda del generale Musharraf nelle ultime settimane e, più in generale, dalla crisi in cui versa il paese, sono apparse in tutta la loro evidenza lo scorso venerdì, quando il capo dell’agenzia federale investigativa pakistana, Chaudhry Zulfiqar Ali, è stato assassinato mentre si stava recando in auto al suo ufficio di Islamabad.
Ali era a capo di una serie di indagini di alto profilo, come l’omicidio di Benazir Bhutto in cui è coinvolto Musharraf, ma anche l’attentato del novembre 2008 a Mumbai, in India, per il quale sono accusati alcuni membri del gruppo integralista Lashkar-e-Taiba, notoriamente legato alla potente agenzia domestica di intelligence ISI (Inter-Services Intelligence).Nonostante l’accesa competizione tra i diversi partiti in corsa per le elezioni dell’11 maggio e la loro condanna del tentativo di ritorno sulle scene di Musharraf, in ogni caso, praticamente tutti i protagonisti del panorama politico pakistano sono complici o sostengono in varia misura la partnership strategica con gli Stati Uniti.
Proprio la campagna “anti-terrorismo” lanciata da Washington più di un decennio fa con la collaborazione dell’allora dittatore ha contribuito in maniera determinante a far scivolare il Pakistan sull’orlo della guerra civile ed essa rientra nel quadro della strategia dell’imperialismo a stelle e strisce di utilizzare questo paese come uno degli strumenti per la promozione dei propri interessi in Asia centrale, anche attraverso il sostegno alle dittature militari succedutesi in sei decenni a Islamabad.
Con la lunga ombra del Fondo Monetario e un governo americano intenzionato a rafforzare i legami con la classe dirigente locale in vista del relativo disimpegno militare dall’Afghanistan a partire dal 2014, indifferentemente da chi uscirà vincitore dalle urne, il Pakistan che si appresta al voto, perciò, dovrà assistere con ogni probabilità ad un ulteriore deterioramento della situazione interna anche nel prossimo futuro.
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di Michele Paris
I bombardamenti non provocati condotti venerdì e domenica scorsa in territorio siriano dall’aviazione israeliana sono stati immediatamente utilizzati dal fronte occidentale e mediorientale impegnato nella rimozione del regime di Bashar al-Assad per manipolare la realtà della crisi in atto e spianare la strada ad un intervento diretto che minaccia di infiammare l’intera regione.
In particolare, la più recente incursione illegale portata a termine da Israele ha scatenato una serie di speculazioni sull’opportunità e l’efficacia di un’azione aerea da parte degli Stati Uniti. Le discussioni delle ultime settimane circa l’imposizione di una no-fly zone sulla Siria - misura che comporterebbe di fatto una devastante campagna di bombardamenti sul paese mediorientale - erano infatti ruotate attorno alle capacità dei sistemi difensivi di cui dispone il regime di Damasco, in gran parte ritenuti sufficientemente sofisticati da scoraggiare un intervento di questo genere.
La facilità con cui Israele ha colpito nel fine settimana ha invece scatenato i falchi di Washington, i quali hanno subito invitato la Casa Bianca a trarre le dovute conclusioni. I vari interventi di esponenti democratici e repubblicani registrati negli show televisivi americani della domenica hanno perciò confermato come i bombardamenti israeliani siano stati almeno in parte una prova generale di una possibile campagna aerea degli USA e dei loro alleati sulla Siria secondo il modello dell’aggressione del 2011 contro la Libia di Gheddafi.
Parlando al programma “Meet the Press” della NBC, ad esempio, il senatore democratico del Vermont, Patrick Leahy, ha ricordato che il blitz israeliano è stato condotto con velivoli F-16 forniti dagli Stati Uniti, aggiungendo che “i sistemi anti-aerei forniti dalla Russia alla Siria non si sono dimostrati efficaci come si credeva”. Lo stesso presidente della commissione Giustizia del Senato americano ha poi anticipato un probabile prossimo invio di armi da parte del suo governo direttamente all’opposizione anti-Assad.
Su “Fox News on Sunday”, inoltre, il senatore repubblicano John McCain ha affermato che l’attacco di Israele, avvenuto senza entrare nello spazio aereo della Siria, indebolisce la tesi di coloro che ritengono i sistemi difensivi di quest’ultimo paese il principale ostacolo ad una campagna di bombardamenti condotta dall’aviazione USA.L’amministrazione Obama, d’altra parte, sembra avere dato la propria approvazione all’incursione dell’alleato, dal momento che lo stesso presidente, nel corso di una trasferta in Costa Rica, ha ripetuto la tesi di Tel Aviv circa la legittimità da parte dello Stato ebraico di prevenire trasferimenti di armi dalla Siria a Hezbollah, in Libano.
Quest’ultima tesi è quella ufficiale sostenuta, sia pure indirettamente, da Israele per le azioni criminali compiute nei giorni scorsi e conferma come l’intera campagna di destabilizzazione del regime siriano sia diretta allo smantellamento dell’asse della “resistenza” formato, oltre che da Assad, dal principale partito sciita libanese e dall’Iran, così da ridisegnare, in ultima analisi, gli equilibri strategici del Medio Oriente a favore degli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati.
Ciononostante, le pretese delle autorità israeliane di non volere essere coinvolte in un conflitto in Siria appaiono del tutto inverosimili. Innanzitutto, l’attacco di domenica scorsa equivale ad un vero e proprio atto di guerra che ha provocato la morte di centinaia di soldati della Guardia Repubblicana di Assad. Inoltre, per Israele è previsto da tempo un ruolo di primo piano nell’escalation militare in atto contro Damasco, se non altro per aprire un fronte meridionale in cui impegnare le forze del regime in aggiunta alle operazioni dei “ribelli” e ad un eventuale intervento della Turchia lungo il confine nord.
Il senso della dissennata operazione in corso in Siria è stato riassunto lunedì da un comunicato del portavoce del ministero degli Esteri russo, Aleksandr Lukashevich, il quale ha opportunamente richiamato l’attenzione sugli sforzi in atto in Occidente per “preparare l’opinione pubblica internazionale alla possibilità di un intervento militare per risolvere il persistente conflitto in Siria”.
Le ragioni indicate dal fronte internazionale anti-Assad per giustificare un maggiore impegno in Siria risultano infatti del tutto inconsistenti e continuano ad essere promosse soltanto grazie alla propaganda dei media ufficiali.
Per cominciare, la credibilità delle forze “ribelli” sul campo è stata da tempo screditata dalla prevalenza assoluta di formazioni integraliste violente con un’agenda prettamente settaria e tutt’altro che democratica. Questi gruppi jihadisti, responsabili di una lunga serie di operazioni terroristiche in Siria e utilizzati dall’Occidente e dalle monarchie ultra-reazionarie del Golfo Persico come forza d’urto per rovesciare Assad, risultano ancora più impopolari dello stesso regime, anche tra i siriani che condividono la loro fede sunnita.
Infatti, se il regime, come scrivono spesso i media occidentali, fondasse la propria legittimità esclusivamente sui siriani alauiti (sciiti) il conflitto sarebbe quasi certamente finito da tempo, visto che la popolazione della Siria è composta per ben i tre quarti da musulmani sunniti.Inoltre, l’offensiva mediatica basata sull’accusa rivolta ad Assad di avere utilizzato armi chimiche appare sempre più infondata. Anzi, la cosiddetta “linea rossa” stabilita da Obama lo scorso anno per scatenare un intervento diretto degli Stati Uniti pare essere stata oltrepassata proprio dagli stessi “ribelli”, armati e finanziati dall’Occidente.
Ad affermarlo sono stati un paio di giorni fa anche gli investigatori della commissione delle Nazioni Unite sulla violazione dei diritti umani in Siria. In una dichiarazione rilasciata domenica alla TV della Svizzera italiana, l’ex procuratore del Tribunale Penale Internazionale, Carla Del Ponte, ha confermato che, in seguito all’indagine condotta nei paesi confinanti dal gruppo di lavoro di cui fa parte, sono emersi “forti e concreti sospetti, anche se non ancora prove incontrovertibili, sull’uso di gas sarin da parte dell’opposizione e dei ribelli, ma non da parte delle forze governative”.
Come ha evidenziato poi lunedì il blog americano LandDestroyer, la quantità minima di gas sarin che, secondo le accuse di Stati Uniti, Israele, Francia e Gran Bretagna, il regime di Assad avrebbe utilizzato in tre occasioni tra dicembre e marzo avrebbe ben poco senso da un punto di vista tattico o strategico per dare una svolta al conflitto in corso, soprattutto a fronte delle prevedibili reazioni della comunità internazionale.
Consapevoli di questa realtà, gli accusatori di Assad hanno perciò sostenuto che Damasco ha fatto un limitato ricorso ad armi chimiche per testare la reazione della comunità internazionale, anche se, in realtà, appare decisamente più ragionevole che lo scarso quantitativo di gas sarin, come sostiene ora anche l’ONU, sia stato impiegato dai “ribelli” per fornire un casus belli all’Occidente per intervenire militarmente in Siria.
L’innalzamento dei toni da parte dell’Occidente e le iniziative israeliane degli ultimi giorni, in ogni caso, indicano una chiara urgenza di imprimere un’accelerazione alla caduta di Assad, in concomitanza con la sempre più evidente incapacità dei “ribelli” di ottenere risultati determinanti sul campo e di raccogliere un ampio consenso tra la popolazione.Un’evoluzione, quella della crisi in Siria, che rischia di trascinare nel conflitto anche altri paesi mediorientali, a cominciare dal Libano, dove la settimana scorsa il leader di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah, ha affermato che la sua organizzazione farà di tutto per impedire il crollo del regime alauita di Damasco.
Oltre alla situazione sempre più precaria del Libano e, ad esempio, di una Giordania invasa da centinaia di migliaia di profughi siriani, lo stesso Iraq è tornato ad essere sconvolto dalla violenza settaria, alimentata da fazioni integraliste sunnite, legate alle milizie “ribelli” attive in Siria, che si battono contro il governo sciita guidato dal premier Nuri al-Maliki.
Come è accaduto in Libia e con conseguenze ben più gravi, infine, la rimozione di Assad in Siria fa intravedere un futuro nel quale le forze integraliste giocheranno un ruolo di spicco nel paese, generando instabilità nella regione e minacce terroristiche per quegli stessi governi, a cominciare da Israele, che ora le appoggiano più o meno apertamente per il conseguimento dei loro fini immediati.
Una prospettiva inquietante che difficilmente può essere sfuggita alle analisi elaborate a Washington, Londra o Tel Aviv, ma che, senza scrupoli per l’ulteriore devastazione che determinerà, sembra ormai essere stata messa in preventivo per raggiungere l’obiettivo principale e di lungo periodo, vale a dire una riconfigurazione a proprio vantaggio dei rapporti di forza in un’area cruciale del pianeta.