di Michele Paris

Nella prima mattinata di domenica, il governo israeliano ha violato per la seconda volta in poche ore ogni principio del diritto internazionale, ordinando alla propria aviazione di condurre un bombardamento contro un sito militare di ricerca nei pressi di Damasco. Le incursioni indicano il tentativo da parte di Tel Aviv, con l’avallo di Washington, di provocare una reazione del regime siriano, così da giustificare un intervento militare esterno per rimuovere Assad, parallelamente accusato senza alcuna prova dai governi occidentali e israeliano di avere utilizzato armi chimiche lo scorso mese di marzo.

Il primo attacco aereo di Israele era stato debitamente riportato venerdì da fonti americane, mentre su quello di domenica è stata la stessa stampa siriana a darne notizia. L’agenzia ufficiale SANA ha scritto infatti che nell’area di al-Hameh, alla periferia della capitale, si sono sentite alcune esplosioni che hanno colpito un centro di ricerca scientifico, provocando un numero imprecisato di vittime. Alcuni “attivisti” dell’opposizione hanno poi affermato che un missile avrebbe colpito due battaglioni della Guardia Repubblicana, di stanza in una località a nord di Damasco.

Nel primo caso, fonti anonime all’interno dell’apparato della sicurezza di Israele avevano sostenuto che il blitz era diretto contro un presunto carico di armi anti-missile conservato all’aeroporto di Damasco e pronto per essere inviato in Libano all’alleato di Assad, la milizia/partito sciita Hezbollah. Secondo i resoconti dei media, l’attacco di venerdì non avrebbe comportato l’ingresso nello spazio aereo siriano da parte degli aerei da guerra israeliani, anche se questi ultimi hanno comunque violato impunemente quello libanese, da dove sarebbero partiti i bombardamenti.

La struttura finita nel mirino dell’operazione israeliana domenica sarebbe invece quella di Jamraya ed era già stata bersaglio dei jet di Tel Aviv lo scorso 30 gennaio, quando un attacco ugualmente non provocato e fuori da ogni regola del diritto internazionale era stato anche in quell’occasione giustificato con la necessità di impedire il trasferimento di armi letali a Hezbollah.

In un’intervista esclusiva alla CNN, sempre nella giornata di domenica il vice-ministro degli Esteri siriano ha definito l’attacco israeliano come una “dichiarazione di guerra”, annunciando non specificate ritorsioni contro Tel Aviv. Le provocazioni illegali di Israele contro la Siria hanno fatto segnare un sensibile aumento nelle ultime settimane in concomitanza con una serie di rovesci patiti sul campo dai ribelli anti-Assad, tra i quali prevalgono in larga misura formazioni jihadiste come il sanguinario Fronte al-Nusra.

L’irrazionalità della strategia del governo Netanyahu risulta evidente dalle considerazioni che si possono leggere quotidianamente sui media occidentali, dove, ad esempio, le consuete fonti anonime da Tel Aviv avvertono del rischio sempre più alto in Siria che i gruppi integralisti che combattono il regime possano impossessarsi delle armi che fanno parte dell’arsenale siriano per utilizzarle contro lo stato ebraico.

Queste preoccupazioni, ampiamente indicate dalla stampa come uno dei motivi che legittimerebbero un intervento armato esterno in Siria, si scontra con la realtà di un’opposizione islamista e settaria di fatto finanziata e armata proprio dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Europa e in Medio Oriente. Media e governi occidentali e filo-occidentali, quindi, operano ormai senza alcuno scrupolo per la logica e l’analisi degli eventi sul campo. Questo atteggiamento appare chiaro anche in relazione alla campagna orchestrata attorno al presunto uso di armi chimiche da parte delle forze del regime di Assad.

Le accuse sollevate da Francia, Gran Bretagna, Israele e Stati Uniti per un attacco avvenuto nel mese di marzo nei pressi di Aleppo vengono infatti presentate come prove irrefutabili delle responsabilità di Damasco, nonostante non sia stata presentata alcuna evidenza concreta circa l’accaduto e, per stessa ammissione dell’opposizione, l’area colpita fosse sotto il controllo delle forze del regime.

Lo stesso presidente Obama qualche giorno fa nell’annunciare una possibile escalation militare contro la Siria, responsabile di avere oltrepassato la cosiddetta “linea rossa” fissata dalla Casa Bianca la scorsa estate, ha ribadito poi, come se fosse un dettaglio trascurabile, che gli Stati Uniti devono ancora appurare quale delle due parti in conflitto abbia utilizzato armi chimiche.

Che anche queste accuse facciano parte di una strategia ormai quasi disperata di dare la spallata finale al regime filo-iraniano di Assad è stato suggerito un paio di giorni fa da un ex membro dell’amministrazione Bush jr. In un’intervista alla rete televisiva Current TV - fondata dall’ex vice-presidente USA Al Gore e ora di proprietà di Al-Jazeera - il colonnello in pensione Lawrence Wilkerson, capo di gabinetto del Segretario di Stato Colin Powell tra il 2002 e il 2005, ha affermato che i responsabili dell’impiego di armi chimiche “potrebbero essere i ribelli oppure Israele”. Quest’ultima ipotesi appare del tutto credibile, secondo Wilkerson, poiché a suo dire “il regime di Tel Aviv risulta essere geo-politicamente inetto”.

Per Wilkerson, cioè, quella dello scorso marzo potrebbe essere stata a tutti gli effetti una cosiddetta operazione “false flag”, condotta da Israele o dall’opposizione siriana per assegnarne poi la responsabilità al regime di Assad, così da costruire una campagna internazionale per giustificare un’aggressione esterna. Allo stesso scopo, l’offensiva dell’esercito regolare negli ultimi giorni contro postazioni dei ribelli ha scatenato una serie di annunci nei media occidentali di presunti massacri indiscriminati ai danni di civili, senza peraltro alcun riscontro indipendente.

In particolare, le operazioni del regime nel fine settimana si sarebbero concentrate nella località costiera di Baniyas, da dove si sono sprecati i resoconti delle atrocità commesse dalle forze governative, tutte rigorosamente riportate, però, soltanto da fonti vicine all’opposizione anti-Assad.

di Michele Paris

Le elezioni di domenica prossima in Malaysia promettono di essere le più combattute della storia di questo paese a maggioranza musulmana del sud-est asiatico fin da quando ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1957. La storica coalizione di governo Barisan Nasional (Fronte Nazionale, BN), guidata dall’Organizzazione Nazionale dei Malesi Uniti (UMNO) del premier Najib Razak rischia infatti seriamente di perdere per la prima volta il potere a vantaggio del leader dell’opposizione, Anwar Ibrahim, ex vice primo ministro gradito all’Occidente e a capo di un’alleanza multietnica.

Sfruttando il malcontento per la corruzione diffusa nel paese, i metodi autoritari impiegati dal regime e le tradizionali discriminazioni nei confronti delle minoranze indiana e cinese, Anwar sembra essere riuscito a suscitare un qualche entusiasmo tra gli elettori più giovani e quelli che vivono nelle principali aree urbane della Malaysia.

Già nelle elezioni generali del 2008, peraltro, la coalizione di Anwar, Pakatan Rakyat (PR), era riuscita a conquistare 82 dei 222 seggi del Parlamento nazionale, nonché la guida di 5 dei 13 stati che compongono il paese, negando per la prima volta al BN la possibilità di contare su una maggioranza di due terzi, necessaria per modificare a piacimento la costituzione.

Del principale raggruppamento dell’opposizione fanno parte, oltre al partito Keadilan Rakyat di Anwar, il partito su base etnica cinese Azione Democratica (DAP) e quello islamico Parti Islam Se-Malaysia (PAS).

Con le proprie quotazioni in discesa in vista del voto, la coalizione di governo ha così messo in atto una serie di provvedimenti in buona parte propagandistici, sia per dare l’impressione di voler riformare il paese in senso democratico - allentando, ad esempio, il controllo quasi assoluto sui media - sia distribuendo una serie di sussidi eccezionali alle classi più povere e benefit vari ai dipendenti pubblici.

Il controllo della macchina del governo fa temere inoltre a molti tra l’opposizione che le procedure di voto potrebbero essere in qualche modo manipolate a favore del blocco attualmente al potere. Lo stesso Anwar, d’altra parte, ha subito una serie di persecuzioni motivate politicamente da oltre un decennio a questa parte.

Nel 1998, quest’ultimo venne sollevato dal proprio incarico di vice primo ministro dal suo diretto superiore, Mahathir Mohamad, poiché in contrasto con i vertici del partito sulla direzione da dare al paese nel pieno della crisi finanziaria che colpì il continente asiatico. Anwar era cioè in sostanza favorevole all’implementazione in Malaysia delle ricette richieste dal Fondo Monetario Internazionale per aprire l’economia del paese, misure profondamente impopolari e quindi osteggiate da Mahathir.

Dopo l’espulsione dal partito, Anwar venne arrestato e torturato per poi essere sottoposto ad un procedimento penale con l’accusa di sodomia. Anwar venne scagionato una prima volta nel 2004, ma le stesse accuse gli sarebbero state rivolte nuovamente nel 2010 fino al definitivo proscioglimento avvenuto lo scorso anno.

La mancata condanna nel 2012 di Anwar indica chiaramente un certo appoggio per il suo progetto politico ed economico all’interno di alcune sezioni delle élite malesi, insoddisfatte delle parziali “riforme” in senso liberista adottate dal governo di Najib in questi ultimi anni.

Anwar, inoltre, vanta legami con governi e istituzioni occidentali, nonché con gli ambienti finanziari internazionali, come confermano le sue esperienze presso il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’influente università Johns Hopkins negli Stati Uniti, ma anche con associazioni e think tank soprattutto conservatori americani, alcuni dei quali hanno sostenuto e finanziato il movimento popolare per la democrazia in Malaysia “Bersih”, le cui manifestazioni di piazza hanno di fatto favorito l’ascesa politica dell’ex vice premier.

Con i sondaggi che indicano un sostanziale equilibrio tra le due coalizioni, secondo molti osservatori a decidere l’esito del voto potrebbero essere i risultati nei due stati situati nel Borneo: Sarawak e Sabah. Qui, infatti, il consueto predominio del BN potrebbe essere messo in discussione in seguito alla recente esplosione di scandali e alle accuse di corruzione rivolte a importanti funzionari affiliati al partito di governo.

Lo stato di Sabah, poi, un paio di mesi fa è finito nel caos in seguito all’invasione di un esercito improvvisato proveniente dalle Filippine, i cui leader si erano definiti difensori del Sultanato di Sulu, proprietario di questo territorio prima di essere ceduto alla Gran Bretagna e di entrare successivamente a far parte dello stato malese dopo l’indipendenza. Lo sbarco ha causato decine di morti negli scontri con le forze di sicurezza inviate da Kuala Lumpur e, visto anche il totale allineamento del governo filippino agli obiettivi strategici americani in Asia, alcuni hanno sollevato il sospetto di un’operazione ben programmata per destabilizzare il governo della Malaysia in previsione del voto.

Inevitabilmente, la competizione elettorale in Malaysia risente della crescente rivalità tra Cina e Stati Uniti in Asia sud-orientale. Come ha scritto recentemente sulla testata on-line Asia Times l’analista Nile Bowie, “dopo la crisi globale del 2008 il premier Najib ha guardato sempre più verso Pechino per rianimare l’economia malese basata sull’export, puntando su una crescita degli investimenti cinesi a beneficio dell’industria locale”. Non solo, Najib ha anche promosso scambi con la Cina in ambito “finanziario, dello sviluppo delle infrastrutture, della scienza, della tecnologia e dell’educazione”. Tutto ciò ha fatto in modo che la Cina diventasse il principale partner commerciale della Malaysia, con gli scambi bilaterali che hanno raggiunto un valore di 90 miliardi di dollari nel 2011.

Pechino, dunque, favorisce chiaramente la conservazione del potere da parte del BN, dal momento che un’affermazione di Anwar potrebbe “minacciare gli investimenti e le politiche legate alla sicurezza sviluppate negli ultimi cinque anni sotto la guida di Najib”, prospettando per la Malaysia una svolta strategica simile a quella che ha caratterizzato le vicine Filippine con la conquista della presidenza nel 2010 del filo-americano Benigno Aquino dopo i due mandati di Gloria Macapagal-Arroyo segnati dal riavvicinamento di Jakarta alla Cina.

Molti dubbi, in ogni caso, sono stati sollevati circa la tenuta di un eventuale prossimo governo guidato da Anwar, la cui coalizione mette assieme un partito secolare cinese (DAP) con uno islamico con tendenze fondamentaliste (PAS). Queste differenze sono state infatti ampiamente utilizzate in campagna elettorale dall’alleanza di governo, la cui tattica potrebbe avere contribuito ad allontanare dall’opposizione una parte dei malesi che in larga misura pratica un islamismo moderato.

Il premier Najib, inoltre, ha più volte messo in guardia gli elettori da una scelta elettorale che, favorendo l’opposizione, potrebbe rappresentare un salto nel vuoto dopo quasi sei decenni di dominio incontrastato della sua formazione politica. Oltre al controllo sui principali media, poi, il Barisan Nasional potrà contare anche su una legge elettorale creata a proprio vantaggio, come dimostrano i risultati del 2008, quando la coalizione ottenne il 63% dei seggi in parlamento a fronte di appena il 51% del voto popolare.

Najib, infine, metterà in gioco tutto il suo futuro politico in questa tornata elettorale. Un’eventuale clamorosa sconfitta del BN domenica prossima lo costringerebbe infatti con ogni probabilità a lasciare la leadership del partito, come accadde nel 2009 al suo predecessore, Abdullah Badawi, messo da parte dopo il deludente risultato nel voto dell’anno precedente.

Ad indicare la sorte di Najib in mancanza di un chiaro successo è stato lo stesso Mahathir, potente premier malese per 22 anni e ritiratosi nel 2003, il quale in una recente intervista ha avvertito il primo ministro in carica di una probabile rivolta all’interno del partito anche solo nel caso non dovesse arrivare una prestazione migliore di quella fatta registrare nel 2008.

di Mario Lombardo

Un articolo pubblicato questa settimana dal New York Times ha descritto nel dettaglio di come la principale agenzia di intelligence americana da più di un decennio stia trasferendo clandestinamente ingenti somme di denaro contante nelle casse del governo afgano del presidente Hamid Karzai. Secondo quanto rivelato dalle autorità di Kabul, le decine di milioni di dollari così versati servirebbero a coprire una serie di voci di spesa del governo, mentre in realtà finiscono per consolidare il potere della famiglia Karzai ed alimentare la corruzione ampiamente diffusa ad ogni livello del fragile stato centro-asiatico.

Il cosiddetto “denaro fantasma” - secondo la definizione dell’ex vice capo di gabinetto del presidente, Khalil Roman - viene consegnato in maniera segreta da funzionari della CIA direttamente negli uffici di Karzai in “valige, zaini e, occasionalmente, in buste di plastica con cadenza mensile”.

Il reporter Matthew Rosenberg del New York Times sostiene che con questi pagamenti la CIA intende mantenere la propria influenza sul regime di Kabul, acquistando di fatto libero accesso ai vertici del governo, anche se negli ultimi tempi Karzai sembra però tenere un atteggiamento di sfida nei confronti dei propri padroni di Washington.

Candidamente, l’articolo del giornale americano ammette che i soldi della CIA vengono in parte destinati al pagamento di politici e leader locali spesso coinvolti nel fiorente traffico di droga che prospera in Afghanistan o, addirittura, legati ai Talebani che gli USA dovrebbero combattere strenuamente. I finanziamenti della CIA, perciò, sostengono “reti clientelari che la diplomazia americana… cerca senza successo di smantellare, lasciando fondamentalmente il governo nelle mani di organizzazioni criminali”.

In definitiva, lo scenario così delineato sembra suggerire una certa schizofrenia della politica degli Stati Uniti in Afghanistan, con l’agenzia di Langley che agisce al di fuori di ogni supervisione e, apparentemente, in aperto contrasto con gli obiettivi del proprio governo. Le elargizioni di denaro per assicurarsi i favori di gruppi armati o fazioni all’interno di governi stranieri non sono d’altra parte una novità per la CIA che, sempre in Afghanistan, ha per così dire investito svariati milioni di dollari già durante l’invasione del 2001 per ottenere l’appoggio necessario nel paese per rovesciare il regime dei Talebani.

Il sistema dei pagamenti, inoltre, sembra essere stato manipolato dallo stesso Karzai, il quale a partire dalla fine del 2002 richiese espressamente alla CIA di ricevere presso i suoi uffici di Kabul tutto il denaro stanziato, così da centralizzarne la distribuzione ai vari “signori della guerra” sparsi nel paese e garantirsi la loro fedeltà.

Poi, prosegue il racconto del New York Times, nel dicembre 2002 gli iraniani si sono “presentati al palazzo presidenziale a bordo di un S.U.V. carico di denaro contante”. Per ammissione dello stesso Karzai, infatti, anche il governo di Teheran per anni ha finanziato Kabul per cercare di estendere la propria influenza in Afghanistan e sganciare quest’ultimo paese dalla dipendenza da Washington. La rivelazione dei pagamenti iraniani al governo afgano scatenò qualche anno fa una campagna piuttosto aggressiva da parte degli USA nei confronti della Repubblica Islamica, proprio mentre la CIA stava facendo la stessa cosa ma su scala ben superiore.

Al contrario degli Stati Uniti, comunque, l’Iran ha interrotto il flusso di denaro verso Kabul almeno a partire dallo scorso anno, quando Karzai ha siglato un accordo di partnership strategica con l’amministrazione Obama.

Se l’ammontare degli importi elargiti dalla CIA non è del tutto chiaro, alcun testimonianze indicano singoli trasferimenti che vanno da qualche centinaia di migliaia di dollari ad alcuni milioni. Tra gli uomini a libro paga della CIA vi sono ovviamente figure tutt’altro che irreprensibili, come il leader della minoranza uzbeka in Afghanistan, Abdul Rashid Dostum, al quale sarebbero stati pagati tra gli 80 mila e i 100 mila dollari al mese.

Un altro personaggio discutibile che si è arricchito enormemente grazie alla gestione diretta del denaro della CIA è Mohammed Zia Salehi, responsabile amministrativo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, l’organo di governo attraverso il quale passano i pagamenti. Salehi, ricorda il New York Times, venne arrestato nel 2010 perché al centro di un’indagine americana su un traffico di droga e denaro sporco nella quale erano coinvolti anche i Talebani.

La sua detenzione non durò però a lungo, dal momento che il presidente Karzai intervenne in prima persona per ordinarne la liberazione mentre, successivamente, i vertici della CIA si sarebbero adoperati con l’amministrazione Obama affinché l’intera indagine venisse abbandonata.

Le rivelazioni della testata newyorchese sono state confermate nella giornata di lunedì dallo stesso Hamid Karzai, il quale nel corso di una visita in Finlandia ha ribadito che il denaro della CIA è stato utilizzato a “svariati fini” ed ha espresso gratitudine agli Stati Uniti per il supporto finanziario. Da Kabul, inoltre, una dichiarazione ufficiale emessa dal palazzo presidenziale ha elencato alcune voci di spesa che i fondi americani avrebbero coperto, tra cui l’assistenza ai soldati afgani feriti e i sussidi al pagamento degli affitti.

La notizia o, meglio, la conferma ufficiale dei continui pagamenti da parte della CIA al governo fantoccio dell’Afghanistan in questi anni contribuisce dunque a smascherare qualsiasi residua pretesa da parte statunitense di operare in questo paese per la promozione dei principi democratici o di una qualche efficienza nella gestione dell’apparato dello stato.

Installato dagli americani alla guida del paese all’indomani dell’invasione seguita ai fatti dell’11 settembre, Hamid Karzai, oltre ad avere garantito l’arricchimento dei propri familiari e della sua cerchia di potere, presiede infatti ad un regime autoritario e violento, nonché, grazie anche ai fiumi di denaro garantiti dalla CIA, costantemente agli ultimi posti dell’indice mondiale relativo ai livelli di corruzione.

di Mario Lombardo

A giudicare dai commenti entusiastici apparsi occasionalmente negli ultimi quattro anni sui media di mezzo mondo, la maggioranza di centro-sinistra al governo in Islanda avrebbe dovuto incassare una chiara approvazione dagli elettori per l’eccezionale equità con cui avrebbe gestito le conseguenze della rovinosa crisi finanziaria che nel 2008 mise in ginocchio il piccolo paese dell’Europa settentrionale. I risultati del voto di sabato scorso, al contrario, hanno inflitto una severissima lezione alla coalizione formata dall’Alleanza Socialdemocratica e dalla Sinistra-Movimento Verde, riportando al potere i due partiti di centro-destra che avevano presieduto al tracollo del sistema economico e finanziario islandese.

La premier socialdemocratica Jóhanna Sigurðardóttir aveva assunto la guida del paese dopo il trionfo elettorale del 2009 sull’onda del diffuso malcontento nei confronti di un governo che aveva messo in atto spregiudicate e rovinose politiche di deregulation dell’industria finanziaria. In un clima simile, le tre principali banche islandesi - Glittnir, Kaupthing e Landsbanki - nel 2008 erano finite per crollare sotto il peso di un debito enorme, costringendo il nuovo gabinetto ad intervenire con la ricapitalizzazione degli istituti in crisi.

Il significato del rovescio patito alle urne dal governo Sigurðardóttir è stato riassunto da un’analisi pubblicata lunedì da Bloomberg News, secondo la quale, nonostante “gli elogi del Fondo Monetario Internazionale per le politiche di gestione della crisi messe in atto dal governo, incluse misure sul controllo dei capitali e l’accollamento di una parte delle perdite ai creditori, gli elettori si sono mostrati più ricettivi verso le promesse dell’opposizione di migliorare le loro condizioni di vita”.

In altre parole, a fronte della linea dura tenuta nei confronti dei creditori stranieri che cercavano il rimborso delle perdite subite con il crollo delle banche islandesi e di iniziative in buona parte di facciata, come la riscrittura della Costituzione o il processo tenuto lo scorso anno ai danni dell’ex premier, Geir Haarde, per le sue responsabilità nel crollo finanziario, anche il governo “progressista” islandese ha in definitiva operato per il salvataggio del sistema economico domestico facendone pagare il prezzo alla maggioranza della popolazione.

Inoltre, se il livello di disoccupazione è attualmente sceso attorno al 5% rispetto al 7,3% del 2009 e a quasi l’8% del 2010, esso rimane nettamente superiore a quello del 2007 e, in ogni caso, la discesa è dovuta in buona parte alla massiccia emigrazione che ha segnato l’Islanda in questi ultimi anni.

Come altrove in Europa, anche il governo di Reykjavik ha poi messo in atto pesanti tagli allo stato sociale, in particolare nei settori della sanità, dell’educazione e dei servizi sociali in genere. Soprattutto, il valore della corona è crollato e buona parte degli islandesi che aveva ottenuto prestiti legati a valute straniere si è ritrovata con un livello spropositato di indebitamento. Parallelamente, l’inflazione ha fatto segnare una sensibile impennata, determinando un aumento vertiginoso del costo dei beni di prima necessità e dei livelli di povertà nel paese.

In questo scenario, i due partiti che hanno formato la coalizione di governo fin dal 2009 (Alleanza Socialdemocratica e Sinistra-Movimento Verde) hanno perso in questa tornata elettorale rispettivamente il 17% e l’11% dei consensi, assicurandosi appena 16 seggi (9 e 7) sui 63 totali dell’Althing (Parlamento) islandese. Pur senza suscitare particolare entusiasmo, saranno così i due partiti di centro-destra usciti vincitori dal voto di sabato ad avere i numeri per mettere assieme una coalizione di governo in maniera agevole.

Il Partito dell’Indipendenza ha superato di solo 3 punti percentuali la propria peggiore prestazione di sempre fatta segnare nel 2009, assestandosi al 26,7%, mentre il Partito Progressista ha ottenuto il 24,4% dei voti e un +10% rispetto a quattro anni fa. Le due formazioni politiche si sono aggiudicate 19 seggi ciascuna e il leader del Partito dell’Indipendenza, Bjarni Benediktsson, dovrebbe ora essere incaricato dal presidente islandese di formare il nuovo esecutivo.

L’elevato astensionismo e lo spostamento complessivo del voto indicano comunque una diffusa sfiducia nei confronti del tradizionale establishment politico del paese. I quattro principali partiti, infatti, nel 2009 avevano ottenuto quasi il 90% dei voti espressi, mentre in questa occasione si sono fermati appena al di sotto del 75%.

Il voto di protesta è andato a due nuovi partiti che non rappresentano alcuna reale alternativa ma che sono stati in grado di superare la soglia di sbarramento del 5%, necessaria per conquistare seggi: il partito Futuro Luminoso (8,2%, 6 seggi) e il Partito Pirata dell’ex portavoce di WikiLeaks, Birgitta Jönsdóttir (5,1%, 3 seggi). Quasi il 12% dei consensi espressi, infine, è andato a formazioni minori che, singolarmente, si sono fermate al di sotto del 5%.

A pesare sull’esito del voto sono state le promesse elettorali dei due partiti che hanno ottenuto i maggiori consensi. Il Partito dell’Indipendenza e quello Progressista si sono impegnati ad abbassare la pressione fiscale, ad intraprendere misure per alleviare il peso degli onerosi mutui contratti da molti islandesi e a rallentare il processo di adesione all’Unione Europea avviato dal governo uscente.

Alla luce della profonda crisi che continua ad attraversare i paesi dell’eurozona, la maggior parte della popolazione vede correttamente un eventuale ingresso del proprio paese nella moneta unica come un’ulteriore seria minaccia alle proprie condizioni di vita. Forti resistenze all’integrazione europea sono manifestate anche dalla potente industria ittica islandese che rappresenta il 10% dell’economia del paese e il 25% dell’export complessivo.

Le ambiziose promesse elettorali, in ogni caso, difficilmente potranno essere mantenute dal governo entrante. Ad esempio, l’eliminazione delle misure di controllo dei capitali per stimolare gli investimenti esteri e la crescita economica rischia di provocare piuttosto una fuga dei capitali stessi, mentre una parziale cancellazione dei debiti detenuti dai sottoscrittori di mutui potrebbe ugualmente avere conseguenze indesiderate, dal momento che, come ha ricordato un economista di Danske Bank in un’intervista a Bloomberg News, “se i loro ‘asset’ venissero intaccati, gli investitori internazionali non lo dimenticherebbero tanto facilmente”.

Lo stesso primo ministro in pectore Benediktsson, subito dopo la chiusura delle urne, ha fatto così intravedere una più che probabile marcia indietro dalle promesse fatte in campagna elettorale, affermando che il suo partito “non avanzerà proposte che non potranno essere attuate”.

Ciò che si prospetta per l’Islanda nel prossimo futuro, in definitiva, sono perciò le stesse politiche anti-sociali perseguite finora, così che gli elettori, dopo avere assegnato la maggioranza in parlamento a due partiti che “hanno promesso la luna”, come ha sostenuto domenica il commentatore locale Egill Helgason in un’intervista al Wall Street Journal, scopriranno ben presto che ben poco potrà essere in realtà mantenuto.

di Michele Paris

In concomitanza con una serie di rovesci militari patiti recentemente dall’opposizione islamista nel conflitto con il regime siriano di Bashar al-Assad, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e in Medio Oriente negli ultimi giorni hanno rinvigorito la campagna mediatica per denunciare un più che improbabile utilizzo di armi chimiche da parte di Damasco. Ad avviare la più recente offensiva erano stati la settimana scorsa i governi di Francia e Gran Bretagna, seguiti poi dai vertici militari israeliani, i quali avevano annunciato il rinvenimento di prove dell’utilizzo di ordigni chimici da parte delle forze armate del governo siriano. Le presunte “prove” presentate da Tel Aviv consisterebbero nell’analisi di immagini fotografiche e non meglio definiti “rilevamenti diretti”.

Secondo l’interpretazione del governo israeliano, il presidente Assad avrebbe fatto un limitato uso di queste armi per testare la reazione americana, dopo che Obama la scorsa estate aveva affermato che ciò avrebbe rappresentato il superamento di una “linea rossa”, portando ad un possibile intervento militare diretto in Siria.

In realtà, l’uscita degli israeliani è apparsa piuttosto come un tentativo di forzare la mano all’amministrazione Obama a Washington, da dove inizialmente le reazioni alle dichiarazioni dell’alleato erano state molto tiepide per poi cambiare registro nei giorni successivi.

Giovedì, infatti, la Casa Bianca ha inviato una lettera al Congresso nella quale sostiene che l’intelligence USA ha valutato “con un certo grado di certezza” che il regime siriano ha fatto un uso limitato di armi chimiche. Sulla stessa linea è apparso anche il Segretario alla Difesa, Chuck Hagel, il quale, nel corso di una trasferta in Medio Oriente per promuovere accordi di vendita di armi per decine di miliardi di dollari a Israele e alle monarchie assolute del Golfo, pur concedendo che Washington “non può confermare l’origine delle armi chimiche, molto probabilmente” esse sono state impiegate dal regime.

Anche il premier britannico, David Cameron, ha citato infine le “prove limitate” dell’uso di armi chimiche, “probabilmente” da parte di Assad.

Oltre a non avere presentato alcuna prova concreta sull’utilizzo di armi chimiche in riferimento ad un episodio avvenuto lo scorso mese di marzo in una località nei pressi di Aleppo, gli Stati Uniti e i governi alleati anche nelle loro dichiarazioni ufficiali mostrano di non avere nessuna certezza sull’accaduto.

Ciononostante, a dieci anni dall’invasione illegale dell’Iraq basata su false accuse al regime di Saddam Hussein di possedere armi di distruzione di massa, l’amministrazione Obama appare sul punto di scatenare una nuova rovinosa guerra in Medio Oriente utilizzando le stesse motivazioni.

Il governo di Assad, da parte sua, continua a sostenere che un attacco con una testata chimica è stato condotto dalle forze ribelli contro un check-point dell’esercito regolare nel quale sarebbero stati uccisi alcuni militari. Per fare chiarezza su questi fatti, Assad chiede da tempo un’ispezione dell’ONU, così come desidererebbero Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Questi ultimi governi, però, continuano a bloccare un accordo al Palazzo di Vetro perché intendono garantire al team da inviare in Siria il libero accesso a qualsiasi area e struttura del paese.

La risposta del governo siriano alle accuse è stata prevedibilmente molto dura, con il ministro dell’Informazione, Omran al-Zoubi, che in un’intervista pubblicata sabato dal network Russia Today ha bollato come “menzogne” le insinuazioni di USA e Israele.

Il governo di Mosca, a sua volta, aveva già in precedenza sottolineato l’utilizzo strumentale dell’accusa diretta verso Damasco di avere utilizzato armi chimiche da parte degli Stati Uniti, colpevoli inoltre di voler politicizzare la possibile indagine delle Nazioni Unite. Washington, Londra e Parigi, infatti, hanno tutta l’intenzione di sfruttare un’eventuale team dell’ONU in Siria per aumentare le pressioni su Damasco, istituendo un regime di ispezioni simile a quello che spianò la strada all’invasione dell’Iraq nel 2003.

Le accuse rivolte dagli Stati Uniti alla Siria di avere fatto ricorso ad armi chimiche appaiono in ogni caso perfettamente in linea con il cinismo che contraddistingue la politica estera di Washington, dal momento che, limitandosi agli eventi dell’ultimo decennio, sono state le forze armate di questo paese ad essersi rese responsabili dell’utilizzo di ordigni letali in Medio Oriente, causando morte e distruzione. Emblematiche dei crimini commessi dall’imperialismo statunitense a fronte delle motivazioni “umanitarie” sono ad esempio le operazioni militari condotte dagli americani durante l’assedio di Fallujah, in Iraq, dove è stato ampiamente documentato l’uso di napalm e fosforo bianco.

Nonostante la campagna orchestrata per raccogliere il consenso della comunità internazionale attorno ad un intervento esterno in Siria, gli Stati Uniti sono ben consapevoli dei rischi che comporterebbe una decisione prematura. Qualche giorno fa, infatti, il presidente Obama ha annunciato per ora una risposta “prudente” alle “prove” dell’uso di armi chimiche.

Queste parole sono state pronunciate nel corso di una dichiarazione rilasciata poco prima di un vertice a Washington con il sovrano di Giordania, Abdullah II, il cui regime è in prima linea - assieme a Turchia, Arabia Saudita e Qatar - nel sostenere l’opposizione armata al governo di Damasco. Le parole di Obama sono state poi seguite dagli inviti alla prudenza del portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, il quale ha apertamente ricordato la lezione dell’Iraq. Simili avvertimenti servono in realtà soltanto a disorientare l’opinione pubblica, dal momento che la strategia messa in atto dalla Casa Bianca sembra ricalcare in buona parte quella dell’amministrazione Bush.

Prima di procedere con iniziative concrete per dare la spallata finale al regime di Assad, tuttavia, gli Stati Uniti, i governi occidentali e quelli mediorientali devono sciogliere soprattutto il dilemma rappresentato dalla continua espansione dell’influenza jihadista tra l’opposizione armata che essi finanziano e armano in Siria, nonché le rivalità tra gli sponsor di quest’ultima.

Per cercare di trovare una politica unitaria e di dirimere una situazione estremamente delicata che fa intravedere un possibile regime nel post-Assad dominato da forze integraliste anti-occidentali e anti-israeliane, il presidente Obama, prima del vertice con Abdullah di Giordania, aveva già incontrato i leader di Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, mentre ai primi di maggio è in programma un incontro con il premier turco, Recep Tayyip Erdogan.

Dietro alle dichiarazioni di facciata e ai finti scrupoli per la sorte della popolazione siriana, gli Stati Uniti stanno dunque guidando i preparativi per un nuovo intervento armato in Medio Oriente, così da rimuovere il regime di Damasco e isolare ulteriormente l’alleato di Assad – l’Iran – ultimo vero ostacolo al controllo americano delle risorse energetiche della regione.


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