di Michele Paris

Mettendo fine a mesi di indugi e trattative internazionali, nel fine settimana appena trascorso il presidente francese, François Hollande, ha deciso di aprire un nuovo fronte di guerra in Africa occidentale, inviando centinaia di soldati e avviando una campagna di bombardamenti aerei in Mali, ufficialmente per contenere l’avanzata sempre più minacciosa dei ribelli islamisti nel nord del paese.

Ad innescare l’offensiva della Francia sarebbe stato l’ingresso il 10 gennaio scorso nella città di Konna, a oltre 600 km a nord-est della capitale del Mali, Bamako, delle forze ribelli, le quali hanno costretto l’esercito regolare alla fuga, minacciando di prendere possesso delle località cruciali di Mopti e Sevaré, dove sorge una base aerea di fondamentale importanza strategica. Con il resto del paese africano a rischio di cadere nelle mani dei ribelli, il giorno successivo Parigi ha perciò ordinato l’impiego delle proprie forze aeree, grazie alle quali Konna è tornata subito nelle mani del governo centrale.

Le bombe francesi avrebbero causato un centinaio di morti a Konna, dei quali, secondo quanto riferito ad Al Jazeera da un portavoce del gruppo integralista Ansar Dine, solo 5 guerriglieri e il resto civili. Inoltre, un pilota di un elicottero francese e una decina di soldati maliani sarebbero rimasti uccisi durante le operazioni. Nonostante la cacciata dei ribelli da Konna, come ha affermato il ministro della Difesa transalpino, Jean-Yves Le Drian, l’area attorno alla città rimane teatro di “intensi scontri”.

I bombardamenti sono continuati anche nei giorni successivi. Domenica, gli aerei francesi hanno preso di mira località più a nord, come Gao e Kidal, dove i ribelli avevano stabilito le proprie basi nei mesi scorsi. Pubblicamente, i principali alleati della Francia hanno espresso il proprio sostegno all’operazione. Gli Stati Uniti hanno offerto supporto logistico e di intelligence ma nessun soldato, mentre la Gran Bretagna soltanto velivoli per facilitare il trasporto delle truppe.

La lenta preparazione delle forze di terra africane per contrastare i ribelli islamici nel nord del Mali, seguita alla recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e inizialmente prevista per il prossimo settembre, sembra avere subito un’accelerazione con l’iniziativa presa da Parigi. I governi che fanno parte della Comunità Economica dei Paesi dell’Africa Occidentale (ECOWAS) stanno infatti organizzando vari contingenti da inviare in Mali a sostegno dello sforzo francese.

Il Senegal e la Nigeria, ad esempio, avrebbero già inviato delle truppe, mentre 500 soldati dal Burkina Faso dovrebbero giungere nei prossimi giorni. Alla guida provvisoria dell’ECOWAS, va ricordato, c’è in questo momento il presidente della Costa d’Avorio, l’ex funzionario del Fondo Monetario Internazionale Alassane Ouattara, installato al potere proprio grazie all’intervento armato nella ex colonia dell’esercito francese nell’aprile del 2011 dopo le discusse elezioni del novembre precedente.

Il governo di Parigi ha in ogni caso tenuto a precisare non solo che i raid dei giorni scorsi hanno già fermato l’avanzata dei “terroristi” ma, come ha affermato domenica il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, che l’intervento francese in Mali sarà solo “questione di settimane” e servirà ad aprire la strada alla forza multinazionale organizzata dai paesi vicini. Nonostante la massiccia campagna aerea, però, i ribelli hanno fatto segnare progressi nella giornata di lunedì, strappando all’esercito regolare la località di Diabaly, nel Mali centrale e a soli 400 km dalla capitale.

Il Mali, colonia francese fino al 1960, era precipitato nel caos lo scorso marzo, quando un colpo di stato guidato da un capitano dell’esercito addestrato negli Stati Uniti, Amadou Sanogo, aveva deposto il presidente uscente Amadou Toumani Touré. Pochi giorni più tardi, un’alleanza di ribelli Tuareg e integralisti islamici aveva facilmente cacciato le forze di un esercito regolare allo sbando dalle postazioni nel nord del paese. In seguito, i gruppi jihadisti avevano proceduto ad emarginare i Tuareg, imponendo le norme della legge islamica (Sharia) nelle aree da loro controllate ed attirando guerriglieri islamisti da svariati paesi africani, asiatici ed europei.

L’intervento delle forze armate francesi in Mali viene in questi giorni descritto da quasi tutti i media occidentali come una decisione necessaria, inquadrata nella consueta retorica di una “guerra al terrore” che ha fatto ora irruzione nel continente africano. Tuttavia, simili pretese risultano a dir poco assurde.

Innanzitutto, la crisi esplosa lo scorso anno in Mali è la diretta conseguenza del conflitto imperialista orchestrato in Libia per rimuovere il regime di Gheddafi. L’intervento della NATO nel paese nord-africano ha, da un lato, causato il rimpatrio forzato di guerriglieri Tuareg ben armati che avevano combattuto a fianco di Gheddafi e, dall’altro, consentito il flusso di armi fornite ai ribelli libici dall’Occidente e dalle monarchie del Golfo Persico a favore di Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), la principale formazione estremista impegnata in Mali assieme ad Ansar Dine.

La doppiezza di Parigi, così come di Washington o di Londra, appare in tutta la sua evidenza proprio alla luce della vicenda libica e della risposta data più in generale ai fatti della Primavera Araba. In Libia, infatti, la Francia e i suoi alleati hanno collaborato in maniera molto stretta con il cosiddetto Gruppo dei Combattenti Islamici Libici (LIFG) per abbattere il regime di Gheddafi, fornendo ai suoi affiliati armi, denaro e addestramento.

Questa formazione integralista è da anni alleata precisamente con Al-Qaeda nel Maghreb Islamico, contro cui le forze francesi stanno combattendo in questi giorni in Mali, ed è attiva da tempo con propri uomini nella guerra civile in Siria in collaborazione con gruppi jihadisti come il Fronte al-Nusra, questa volta nuovamente per servire gli interessi dell’imperialismo occidentale, battendosi contro il regime di Bashar al-Assad.

La vicenda del Mali dimostra dunque ancora una volta come la cosiddetta “guerra al terrore” non sia altro che un comodo pretesto per promuovere gli interessi dell’Occidente nelle aree strategicamente più importanti del pianeta, dal momento che i vari gruppi estremisti riconducibili ad Al-Qaeda vengono di volta in volta utilizzati, a seconda delle necessità e con una schizofrenia solo apparente, come giustificazione per attaccare o invadere un determinato paese (Afghanistan, Mali) oppure come partner affidabili per portare a termine i propri obiettivi (Libia, Siria), salvo poi cercare di prenderne le distanze una volta raggiunti.

In Mali e in Africa occidentale, una regione con ingenti risorse naturali anche se tra le più povere del pianeta, sono piuttosto in gioco enormi interessi per la Francia, garantiti dalla continua interferenza di Parigi nei paesi facenti parte del suo ex impero coloniale.

Nel vicino Niger, ad esempio, la multinazionale transalpina Areva opera da decenni estraendo uranio con ben pochi benefici per la popolazione locale. Lo stesso Mali possiede giacimenti di uranio in gran parte ancora da sfruttare e su cui le grandi compagnie estrattive internazionali hanno già messo gli occhi, tra cui ovviamente quelle francesi, soprattutto alla luce dei problemi incontrati recentemente da Areva in Niger.

Da questa regione la Francia ottiene circa un terzo dell’uranio di cui ha bisogno per alimentare le centrali nucleari domestiche, così che la stabilità nelle ex colonie dell’Africa occidentale risulta un requisito imprescindibile per mantenere la propria indipendenza energetica.

La rapida decisione di dispiegare truppe francesi in Mali da parte di un politico notoriamente tutt’altro che risoluto come Hollande testimonia dunque dell’importanza della posta in gioco in questo paese e dei timori diffusi tra la classe dirigente d’oltralpe per una situazione che rischiava di sfuggire di mano al debole governo di Bamako.

Tra i governi occidentali rimangono però profonde divisioni interne, con molte voci che più o meno apertamente mettono in guardia dalle possibili conseguenze di un intervento diretto e che evocano uno scenario simile a quello afgano. Alcuni commentatori in questi giorni prevedono che gli estremisti islamici attivi in Mali, anche se evacuati definitivamente da città come Gao o Timbuktu, continueranno ad operare con tattiche di guerriglia e, al limite, con attentati terroristici in Africa settentrionale se non addirittura in Europa, come hanno minacciato di fare lunedì.

Per cominciare, queste formazioni jihadiste potrebbero trovare riparo nella vicina Algeria, il cui governo si era a lungo opposto ad un intervento esterno in Mali per le prevedibili conseguenze interne. Il presidente algerino, Abdelaziz Bouteflika, anche in seguito alle recenti visite di Hillary Clinton e dello stesso Hollande, ha però alla fine deciso di fornire il proprio sostegno all’Occidente, consentendo in questi giorni ai velivoli francesi di sorvolare lo spazio aereo del proprio paese.

Un’operazione che rischia di infiammare l’intera regione del Sahel ha infine trovato il sostegno praticamente di tutta la classe politica transalpina, dall’UMP ai neo-fascisti del Fronte Nazionale, ed ha confermato la natura del Partito Socialista, attraverso il presidente Hollande e il suo governo teoricamente di sinistra, di esecutore delle politiche neo-coloniali francesi come lo era stato Nicolas Sarkozy durante gli anni trascorsi all’Eliseo.

L’apertura di un nuovo fronte di guerra in Mali serve inoltre a sviare l’attenzione dalle politiche anti-sociali messe in atto dal governo socialista sul fronte interno. In particolare, l’intervento in Africa è giunto, probabilmente non a caso, in concomitanza con l’annuncio dell’accordo trovato nel fine settimana tra gli industriali e i principali sindacati sulla “riforma” del mercato del lavoro, con misure estremamente impopolari che prospettano lo smantellamento dei diritti dei lavoratori per favorire la competitività delle aziende francesi.

di Michele Paris

Per sostituire il Segretario al Tesoro uscente, Tim Geithner, Barack Obama ha scelto ufficialmente qualche giorno fa il suo attuale capo di gabinetto, il veterano dei tagli al bilancio ed ex speculatore di Wall Street, Jacob “Jack” Lew. Da tre decenni implicato nelle politiche legate alla riduzione della spesa sociale e della deregulation dell’industria finanziaria, Lew rappresenta la scelta ideale per il presidente in vista delle imminenti trattative tra la Casa Bianca e i repubblicani al Congresso sulla questione del debito americano.

A conferma del ruolo ricoperto da Jack Lew, e di quello che sarà chiamato a svolgere, il presidente democratico giovedì scorso dalla Casa Bianca ha affermato che “per tutte le chiacchiere attorno alla riduzione del deficit, per fare in modo che i nostri conti siano in ordine, questo è l’uomo che se ne è occupato in prima persona”.

Lew andrà a rimpiazzare un Tim Geithner i cui quattro anni a fianco di Obama sono stati caratterizzati da uno sforzo continuo per salvaguardare i colossi della finanza americana dalle conseguenze della crisi che essi stessi hanno provocato. Di fronte al vasto risentimento popolare nei confronti di Wall Street, Geithner ha fatto in modo, tra l’altro, che nessun dirigente di alto livello delle banche implicate nel crollo dell’economia venisse incriminato, che i loro bonus milionari continuassero ad essere garantiti senza limiti e che gli aiuti alle vittime delle frodi immobiliari rimanessero sostanzialmente ininfluenti.

Dal Dipartimento del Tesoro, in ogni caso, Jack Lew avrà ora l’incarico di guidare l’assalto a programmi pubblici come Social Security, Medicare e Medicaid, già ampiamente annunciato dalla stessa Casa Bianca dopo il recente accordo che ha evitato temporaneamente il cosiddetto “fiscal cliff”.

L’esperienza di Lew negli affari relativi al bilancio federale, d’altra parte, risale addirittura ai tempi dell’amministrazione Reagan. Come consigliere dell’ex speaker democratico della Camera dei Rappresentanti, Tip O’Neill, nel 1983 contribuì infatti al raggiungimento di un accordo bipartisan con il presidente repubblicano per “salvare” Social Security, attraverso un innalzamento dei contributi dei lavoratori dipendenti e dell’età necessaria per ottenerne i benefici.

Successivamente, tra il 1995 e il 1998, fu il vice direttore dell’Ufficio per la Gestione e il Bilancio della Casa Bianca (OMB), partecipando tra l’altro alle trattative che portarono all’approvazione del Balanced Budget Act del 1997, un pacchetto di misure per giungere al pareggio di bilancio cinque anni più tardi. In esso erano inclusi tagli per 112 miliardi di dollari a Medicare e riduzioni per 44 miliardi ai rimborsi destinati a medici e ospedali.

Il suo zelo venne premiato da Bill Clinton nel 1998, quando fu nominato alla direzione dell’OMB, dove rimase fino al gennaio del 2001. In questo incarico partecipò attivamente alla formulazione di due leggi - Financial Services Modernization Act del 1999 e Commodity Futures Modernization Act del 2000 - che spianarono la strada alla deregolamentazione del settore bancario negli Stati Uniti.

Con l’ingresso di George W. Bush alla Casa Bianca, Jack Lew mise a frutto gli anni trascorsi a Washington per arricchirsi nel settore privato. Dopo avere preso iniziative anti-sindacali in un ruolo dirigenziale alla New York University, nel 2006 Lew ottenne un impiego decisamente più redditizio a Wall Street, per il colosso Citigroup.

Come direttore operativo della cosiddetta sezione “Global Wealth Management” e successivamente degli “Alternative Investments”, il prossimo Segretario al Tesoro gestì i servizi finanziari dedicati ad una ristretta cerchia di multi-miliardari e le operazioni legate ai derivati, raccogliendo enormi profitti grazie al crollo del mercato immobiliare.

Singolarmente, mentre Tim Geithner, dapprima come presidente della sezione di New York della Federal Reserve e poi come Segretario al Tesoro di Obama, si occupava del salvataggio delle banche di Wall Street, elargendo anche 45 miliardi di dollari di denaro pubblico a Citigroup, il suo successore incassava compensi milionari per avere contribuito al tracollo dell’economia.

Come ha messo in luce un’indagine del Senato americano, l’unità diretta da Jack Lew a Citigroup era inoltre coinvolta in un investimento gestito dal proprietario di uno dei principali “hedge fund” di Wall Street, John Paulson. Quest’ultimo aveva collaborato con molte banche di investimenti nell’emissione di titoli tossici legati al settore dei mutui subprime all’insaputa dei propri clienti, un’attività criminale che portò ad un’inchiesta ufficiale e, ad esempio, ad una sanzione di oltre 500 milioni di dollari a carico di Goldman Sachs, uno dei partner d’affari di Paulson.

Per i suoi servizi a Citigroup, lo stipendio di Jack Lew ammontava a 1,1 milioni di dollari, mentre ricevette anche 900 mila dollari di bonus poco dopo l’intervento del Tesoro per salvare la banca di Wall Street per cui lavorava.

Lew tornò poi ad ottenere un incarico governativo con l’arrivo di Obama alla Casa Bianca. Inizialmente scelto da Hillary Clinton come vice Segretario di Stato per la Gestione e le Risorse, nel novembre 2010 passò alla direzione dell’Ufficio per la Gestione e il Bilancio, una posizione che aveva ricoperto durante la presidenza Clinton. Nel gennaio dello scorso anno divenne infine capo di gabinetto di Obama, succedendo ad altri due ex top manager milionari di Wall Street, Rahm Emanuel e William Daley.

Il trasferimento di Lew al Dipartimento del Tesoro costringerà così il presidente democratico a scegliere il quinto capo di gabinetto della sua amministrazione. La scelta per l’assegnazione di questo incarico, definito da molti commentatori il più importante tra quelli non sottoposti a voto popolare negli Stati Uniti, secondo i media d’oltreoceano sarebbe ristretta a due candidati, l’attuale vice-consigliere per la sicurezza nazionale, Denis McDonough, e il capo di gabinetto del vice-presidente Biden, nonché in precedenza di Al Gore, Ron Klain.

di Michele Paris

Le udienze preliminari del processo militare che vede coinvolto Bradley Manning, il giovane militare accusato di essere la fonte dei documenti riservati del governo americano pubblicati da WikiLeaks, sta entrando in questi giorni nelle fasi finali prima dell’inizio del vero e proprio procedimento a suo carico di fronte ad una corte marziale. Le decisioni prese finora dal giudice militare che presiede il processo e l’atteggiamento dell’accusa, cioè del governo degli Stati Uniti, hanno confermato ancora una volta l’intenzione da parte dell’amministrazione Obama di infliggere una punizione esemplare all’imputato, così da lanciare un chiaro ammonimento a chiunque intenderà provare a rivelare in futuro i crimini dell’imperialismo americano.

Da qualche mese è dunque in corso presso la base militare di Fort Meade, in Maryland, una sorta di processo introduttivo nel quale sono state sollevate alcune questioni relative al caso di Bradley Manning, a cominciare dalla legittimità della sua lunga detenzione in condizioni estremamente dure dopo l’arresto avvenuto nel maggio del 2010 in Iraq, dove era impiegato come analista dell’intelligence.

Secondo il giudice dell’esercito, colonnello Denise Lind, le condizioni di detenzione di Manning nella base dei Marines di Quantico, in Virginia, tra il luglio del 2010 e l’aprile del 2011, sono state palesemente illegali. Il giudice, però, ha stabilito soltanto che la pena detentiva eventualmente disposta al termine del processo dovrà essere decurtata di appena 112 giorni.

Il riconoscimento dell’illegalità delle condizioni di prigionia da parte del tribunale militare suona perciò come una beffa per Manning, il cui avvocato difensore, David Coombs, aveva chiesto che le accuse nei confronti del suo assistito venissero lasciate interamente cadere o, in alternativa, che fosse riconosciuta una riduzione sulla pena da emettere in rapporto di dieci giorni per ognuno trascorso in detenzione preventiva.

Il giudice Lind, come previsto, ha invece respinto entrambe le richieste. D’altra parte, il trattamento di Manning e il processo in corso fanno parte della strategia deliberata del governo americano per colpire il più duramente possibile qualsiasi fuga di documenti riservati.

Nonostante gli esigui resoconti giornalistici relativi al caso Manning, le sedute preliminari del tribunale militare nei mesi scorsi hanno offerto la possibilità di rendere pubbliche le modalità di detenzione riservate dall’apparato militare statunitense al giovane ex analista.

Per circa otto mesi, Manning è stato infatti rinchiuso in una minuscola cella senza finestre per 23 ore al giorno, nonché privato di effetti personali basilari come occhiali, lenzuola, coperte e carta igienica. In seguito ad una sua battuta ironica, nella quale accennava alla possibilità di suicidarsi in carcere, Manning è stato successivamente posto sotto uno speciale regime volto ad evitare gesti di autolesionismo, malgrado ripetuti pareri contrari di psichiatri dell’esercito.

In questo modo, Manning è stato a lungo sottoposto ad una sorveglianza continua, svegliato ripetutamente durante la notte e in varie occasioni costretto a stare sull’attenti completamente nudo di fronte ai controlli delle guardie. Per il giudice Lind, in ogni caso, questi ed altri trattamenti, denunciati anche dalle associazioni a difesa dei diritti civili e dall’inviato speciale dell’ONU per i diritti umani, sarebbero stati impiegati solo per salvaguardare l’integrità fisica dell’imputato e non per piegarne la resistenza.

Una volta garantita la continuazione del processo, il governo americano, rappresentato in aula dal capitan Joe Morrow, ha proceduto con due mosse estremamente rivelatrici. Il procuratore militare ha in primo luogo chiesto di escludere dal dibattimento qualsiasi discussione sia sulle motivazioni del presunto crimine di cui è accusato Manning sia sul possibile eccesso di segretezza dei documenti che sarebbero stati forniti a WikiLeaks.

In questo modo, il governo intende evitare che nel corso del processo il comportamento di Bradley Manning possa assumere i contorni di un atto coraggioso, quale di fatto è stato, volto a smascherare i crimini e la doppiezza del governo degli Stati Uniti nella conduzione dei propri affari su scala planetaria. Inoltre, l’eventuale riconoscimento di un eccesso di segretezza attribuito ai documenti sottratti al governo potrebbe attenuare la gravità delle azioni dell’imputato.

In secondo luogo, nella giornata di mercoledì il procuratore Morrow ha annunciato di volere presentare nuove prove che dimostrerebbero come Osama bin Laden e Al-Qaeda abbiano beneficiato della circolazione su internet dei documenti classificati pubblicati da WikiLeaks. Le presunte prove consisterebbero in una comunicazione del fondatore di Al-Qaeda ad un membro della sua organizzazione terroristica nella quale chiedeva di raccogliere informazioni sui cablo del Dipartimento di Stato e sugli altri documenti relativi ai crimini americani in Iraq e Afghanistan. La corrispondenza in questione sarebbe stata ritrovata nell’abitazione di bin Laden in Pakistan dopo il raid del 2 maggio 2011 delle forze speciali statunitensi che ha portato al suo assassinio.

Un’altra prova sarebbe poi la citazione dei documenti riservati pubblicati da WikiLeaks in un numero del 2010 della rivista on-line in lingua inglese di Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), Inspire, il cui fondatore, il pakistano di passaporto americano Samir Khan, è stato assassinato nel settembre del 2011 in Yemen da un drone della CIA.

Al fine di consentire la discussione e la decisione su queste mozioni, il giudice dell’esercito ha deciso di spostare l’avvio della corte marziale dal 6 marzo al 3 giugno, così che Manning all’inizio del processo vero e proprio avrà trascorso circa 1.100 giorni in carcere senza alcuna condanna emessa nei suoi confronti.

Le nuove prove a carico dell’imputato, annunciate nei giorni scorsi dal procuratore militare, se ammesse al dibattimento renderebbero più agevole la formulazione dell’accusa, ai danni di Manning ma anche dello staff di WikiLeaks, di avere fornito sostegno ad una organizzazione terroristica, ovvero al nemico degli Stati Uniti. Un’accusa, questa, che fisserebbe un esempio inquietante e che potrebbe giustificare per Julian Assange la detenzione indefinita in una struttura come Guantánamo o, addirittura, l’aggiunta del suo nome alla lista dei facilitatori del terrorismo da eliminare con omicidi mirati.

La presa di mira di un’organizzazione come WikiLeaks appare particolarmente sconcertante, dal momento che i precedenti legali indicano come le accuse per avere aiutato il nemico siano sempre state sollevate contro le persone che sono entrate in possesso di materiale o informazioni riservate e che le hanno poi consegnante alla stampa.

Per quanto riguarda la situazione di Manning, l’unico precedente a cui i legali del governo hanno fatto riferimento a questo proposito risale al periodo della Guerra Civile. Nel 1863, infatti, un soldato dell’Unione venne condannato per avere passato informazioni riservate ad un giornale della Virginia. Il soldato in questione, tuttavia, venne punito soltanto con tre mesi di lavori forzati e con l’espulsione con disonore dall’esercito, mentre Bradley Manning, sul quale pendono 22 capi d’accusa, rischia di trascorrere il resto della propria vita in un carcere militare.

L’intera vicenda Manning fa parte della strategia perseguita dall’amministrazione Obama per punire con procedimenti legali chiunque all’interno del governo intenda portare alla luce pratiche abusive o illegali, informandone più che legittimamente i media e la popolazione.

Non a caso, il primo mandato del presidente democratico ha fatto registrare un numero record di processi avviati nei confronti dei cosiddetti “whistleblower”. Tra i casi più discussi e senza precedenti va ricordato almeno quello dell’ex agente della CIA, John Kiriakou, il quale il prossimo 25 gennaio verrà con ogni probabilità condannato a 30 mesi di carcere per avere fornito ad un giornalista il nome di un collega sotto copertura.

Mentre i crimini del governo di Washington continuano dunque impunemente con il procedere della guerra al terrore in ogni angolo del pianeta, a finire sotto accusa negli Stati Uniti di Obama sono invece coloro che mostrano di avere anche solo un barlume di coscienza, cercando di denunciare pubblicamente quegli stessi crimini atroci di cui sono stati testimoni.

di Michele Paris

Con le elezioni anticipate per il rinnovo della Knesset (Parlamento) a meno di due settimane di distanza, il panorama politico di Israele appare sempre più segnato dallo spostamento a destra dei propri protagonisti a fronte di crescenti tensioni sociali interne e crisi regionali pronte ad esplodere. Superfavorito per la vittoria nel voto del 22 gennaio è ovviamente il primo ministro, Benyamin Netanyahu, con la sua coalizione di estrema destra. In grave difficoltà continuano invece ad essere i principali partiti moderati e di centro-sinistra, mentre un risultato inaspettato potrebbe metterlo a segno l’astro nascente della destra israeliana, il 40enne Naftali Bennett, con il suo partito “Focolare Ebraico”.

Il voto anticipato in Israele era stato di fatto deciso dallo stesso Netanyahu lo scorso ottobre in seguito al disaccordo con alcuni piccoli partiti ultra-religiosi che sostenevano il suo gabinetto in merito all’approvazione del nuovo bilancio dello stato all’insegna dell’austerity. In precedenza, alla luce delle inquietudini già emerse all’interno della propria coalizione, il premier aveva cercato di allargare la maggioranza parlamentare imbarcando il partito con il maggior numero di deputati in Parlamento, Kadima.

Lo scorso maggio, infatti, a poco meno di due mesi dalla sconfitta dell’ex ministro degli Esteri, Tzipi Livni, nella competizione per la guida del partito di centro, il nuovo leader, Shaul Mofaz, aveva siglato a sorpresa un accordo per la formazione di un governo di unità nazionale con Netanyahu. L’esperimento, tuttavia, sarebbe fallito solo poche settimane più tardi.

La sconfitta nella corsa alla leadership di Kadima aveva in ogni caso convinto la Livni a uscire dal partito per formarne uno nuovo - Hatnuah (“Il Movimento”) - annunciato infine il 27 novembre scorso e fondato assieme a sette altri colleghi parlamentari.

Le divisioni e gli stenti dell’opposizione hanno così convinto Netanyahu a indire nuove elezioni, con la certezza di riuscire a conquistare senza troppe difficoltà un nuovo mandato, questa volta senza la necessità di contare sui partiti ultra-religiosi e formando invece un blocco elettorale con il partito di estrema destra di Avigdor Lieberman (Yisrael Beiteinu), ministro degli Esteri e vice-premier fino allo scorso dicembre quando ha rassegnato le dimissioni dopo l’apertura di un procedimento legale nei suoi confronti per frode.

Forse anche in seguito allo scandalo in cui è coinvolto Lieberman, il cui secolarismo è visto inoltre con sospetto da molti elettori conservatori, la galassia della destra israeliana ha registrato così l’ascesa nei sondaggi di un’altra formazione, quella di ispirazione nazionalista e religiosa (ma non fondamentalista) del partito Habayit Hayehudi dell’imprenditore di origine americana ed ex capo di gabinetto di Netanyahu, Naftali Bennett.

Secondo i sondaggi più recenti, quest’ultimo partito, che si oppone apertamente ad uno stato palestinese e propone l’annessione del 60% della Cisgiordania, potrebbe conquistare tra i 10 e i 15 seggi sui 120 totali in palio, piazzandosi subito dietro il Likud e il Partito Laburista.

Proprio i laburisti, a loro volta, si presentano al voto senza suscitare particolari entusiasmi e segnati dalla defezione di uno dei leader storici. Il ministro della Difesa, Ehud Barak, aveva infatti rotto con il Partito Laburista già nel gennaio di due anni fa per entrare nel governo Netanyahu. Barak aveva perciò creato il Partito dell’Indipendenza, assicurando all’esecutivo di destra il supporto di cinque parlamentari. Ampiamente screditato, Barak ha però alla fine annunciato il ritiro dalla politica dopo le elezioni, a cui il suo nuovo partito non prenderà nemmeno parte.

Ciò che resta dei laburisti sarà guidato nel voto del 22 gennaio dalla 52enne ex giornalista Shelley Yachimovich, la quale ha cercato di capitalizzare il malcontento diffuso nel paese verso le politiche del governo, così come le manifestazioni di protesta andate in scena in varie città israeliane nei mesi scorsi. Le intenzioni di voto pubblicate dai giornali israeliani in questi giorni assegnano al Partito Laburista una ventina di seggi contro i 13 su cui può contare attualmente alla Knesset.

Nonostante la vittoria di Netanyahu sia data per scontata da tutti i commentatori, l’apatia tra gli elettori appare palpabile. L’affluenza, già scesa sotto il 65% nel 2009, potrebbe addirittura avvicinarsi in questa occasione al 50%, mentre un recente sondaggio del quotidiano The Times of Israel ha messo in luce come oltre la metà di quanti si recheranno alle urne abbia una visione pessimistica per il futuro del paese.

D’altra parte, oltre alla prospettiva di ulteriori guerre, i provvedimenti in materia di economia che il nuovo esecutivo adotterà una volta insediato includono un drastico aumento delle tasse e delle tariffe pubbliche, nonché tagli alla spesa dello stato per far fronte ad un deficit di bilancio in netta crescita anche a causa della continua impennata delle spese militari.

Il prossimo gabinetto guidato da Netanyahu sarà caratterizzato poi da posizioni ancora più rigide in relazione agli eventi del Medio Oriente. In particolare, all’orizzonte si intravede un possibile intervento in Siria e la continua oppressione del popolo palestinese, come conferma il via libera dato recentemente a nuovi insediamenti illegali nei territori occupati.

Per quanto riguarda la questione iraniana, se essa è rimasta finora in larga misura fuori dalla campagna elettorale in Israele, il voto stesso del prossimo 22 gennaio secondo alcuni è stata una manovra proprio per preparare il terreno ad un’aggressione militare per colpire il programma nucleare di Teheran, grazie al rafforzamento della posizione di Netanyahu che dovrebbe produrre la consultazione popolare.

La rielezione di Obama alla Casa Bianca, le critiche espresse alla linea dura di Netanyahu da molti esponenti dell’apparato della sicurezza israeliana e la sostanziale impopolarità di un attacco unilaterale contro l’Iran devono avere però convinto i vertici della coalizione di destra a procedere cautamente in vista del voto.

Ciononostante, l’Iran è emerso in un discorso pubblico tenuto da Netanyahu lunedì durante una visita all’insediamento ebraico di Ariel, in Cisgiordania. Il premier ha affermato che “il pericolo per il pianeta non è l’università di Ariel o gli insediamenti israeliani nei quartieri di Gerusalemme, bensì un Iran che sta costruendo armi nucleari”.

Il capo del governo di un paese che possiede l’unico arsenale nucleare della regione senza mai averlo dichiarato e senza avere sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione, già lo scorso settembre all’ONU aveva avvertito la comunità internazionale e, in particolare, gli Stati Uniti che l’attesa per fermare con la forza la presunta corsa al nucleare della Repubblica Islamica avrebbe potuto durare solo fino all’estate del 2013.

La questione iraniana e le tendenze guerrafondaie di Netanyahu si intrecceranno inevitabilmente, nel prossimo futuro, con i rapporti che si annunciano relativamente complicati con l’alleato americano.

Oltre alla risaputa freddezza tra il presidente Obama e il premier israeliano, secondo la maggior parte degli osservatori le relazioni tra Tel Aviv e Washington potrebbero diventare ancora più problematiche in seguito alla nomina di John Kerry al Dipartimento di Stato e dell’ex senatore repubblicano Chuck Hagel al Pentagono. Soprattutto quest’ultimo, infatti, pur non avendo ovviamente mai messo in dubbio la partnership privilegiata tra i due paesi, ha talvolta assunto in passato posizioni moderatamente critiche nei confronti di Israele.

Le reazioni allarmate per l’approdo di Hagel al Dipartimento della Difesa sono state però per il momento espresse soltanto da commentatori e media israeliani, soprattutto conservatori, o tutt’al più da esponenti di secondo piano del governo e del partito di Netanyahu.

L’atteggiamento del primo ministro e dei sui più stretti collaboratori appare invece improntato al silenzio, in attesa probabilmente di valutare sia la linea che seguiranno gli Stati Uniti riguardo alle questioni mediorientali una volta insediati Hagel e Kerry, sia le dimensioni della vittoria elettorale che, salvo clamorose sorprese, attende tra meno di due settimane Benyamin Netanyahu e Avigdor Lieberman.

di Michele Paris

Con un annuncio ufficiale dalla Casa Bianca, il presidente Obama ha finalmente annunciato i propri candidati a ricoprire gli incarichi di Segretario alla Difesa e di direttore della CIA nel suo secondo mandato alla guida del paese. A sostituire rispettivamente Leon Panetta e l’ex generale David Petraeus, dimessosi da tempo in seguito ad uno scandalo sessuale, saranno l’ex senatore repubblicano del Nebraska, Charles “Chuck” Hagel, e il capo dei consiglieri della Casa Bianca per l’antiterrorismo, John Brennan.

La nomina più controversa secondo i parametri della politica di Washington sembra essere di gran lunga quella di Hagel, veterano pluridecorato della guerra in Vietnam che si è conquistato la fama di “congressman” indipendente nei dodici anni trascorsi al Senato, durante i quali si è frequentemente distinto per avere assunto posizioni contrasti con quelle dei suoi colleghi repubblicani.

Proprio questa sua caratteristica aveva scatenato nelle scorse settimane una campagna di discredito nei suoi confronti, orchestrata a suon di dollari da lobby e gruppi di interesse che esprimono il punto di vista dei falchi repubblicani “neo-con”, ma anche del governo di Israele e di quanti spingono per una linea sempre più dura nei rapporti con l’Iran.

Le macchie sul curriculum di Hagel, secondo il punto di vista di questi ultimi, sarebbero svariate, a cominciare da prese di posizione relativamente critiche nei confronti di Israele, ma anche la contrarietà all’opzione militare e alla continua imposizione di sanzioni contro Teheran, l’appoggio ad una qualche forma di dialogo con organizzazioni come Hamas o Hezbollah e le critiche indirizzate all’amministrazione Bush per la gestione della guerra in Iraq.

Se la scelta di Hagel non deve avere trovato il favore degli ambienti filo-israeliani di Washington, tra cui figurano anche numerosi membri democratici del Congresso, è comunque improbabile che gli ex colleghi del Segretario alla Difesa in pectore e l’ala destra del Partito Repubblicano, nonché i vari gruppi che ruotano attorno ad essa, continueranno a battersi strenuamente per far naufragare la sua nomina ora che è divenuta ufficiale.

Sul fronte progressista, qualche riserva nei confronti di Hagel è stata invece espressa esclusivamente in relazione ad una vicenda secondaria risalente ad oltre un decennio fa. Nel 1998, Hagel criticò infatti il candidato prescelto dal presidente Clinton per diventare l’ambasciatore USA in Lussemburgo perché “apertamente e aggressivamente gay”. Hagel, noto conservatore sui temi sociali, si è tardivamente scusato per il commento quanto meno inopportuno, lasciando però ancora più di uno strascico polemico.

Visto il drammatico spostamento a destra del baricentro politico americano di questi ultimi anni, la presunta indipendenza di giudizio di Hagel sulle questioni internazionali non deve essere comunque sopravvalutata.

Oltre al fatto che membri dell’amministrazione Obama sono da tempo impegnati a tranquillizzare gli ambienti più retrogradi e reazionari di Washington sul fatto che non ci saranno svolte significative nella gestione degli affari esteri degli Stati Uniti - sui quali peraltro il Pentagono ha ben poca voce in capitolo - lo stesso Hagel in una recente intervista rilasciata ad un giornale del Nebraska, il Lincoln Journal Star, ha definito “sconcertanti” le manipolazioni del suo passato politico, dal momento che “non esiste uno straccio di prova” delle sue posizioni anti-israeliane, né “un solo voto di una qualche importanza che abbia danneggiato Israele”.

Da Tel Aviv, inoltre, se pure il quotidiano conservatore Yedioth Ahronoth ha delineato un possibile scenario “da incubo” per il premier Netanyahu con Hagel al Pentagono, numerose voci all’interno dello stesso governo di destra hanno manifestato opinioni favorevoli per il candidato di Obama. L’influente vice-ministro degli Esteri, Danny Ayalon, ha ad esempio affermato martedì di avere “incontrato Hagel molte volte”, così da poterlo definire senza dubbio “un vero e naturale alleato di Israele”.

Comunque, è probabile che i dubbi espressi da varie parti nelle ultime settimane riguardo Chuck Hagel emergeranno nel corso delle imminenti audizioni al Senato che porteranno al voto per la sua conferma alla guida della macchina da guerra americana, anche se appare estremamente probabile un esito finale positivo per la Casa Bianca.

Decisamente meno problematica appare al contrario la nomina di John Brennan alla direzione della principale agenzia di intelligence a stelle e strisce, nonostante essa sia portatrice di conseguenze potenzialmente più nefaste.

Il 57enne consigliere di Obama sui temi della sicurezza nazionale ha trascorso un quarto di secolo all’interno della CIA, per la quale ha anche diretto la “stazione” in Arabia Saudita negli anni Novanta, prima di ricoprire l’incarico di capo di gabinetto del direttore, George Tenet, tra il 1999 e il 2001 ed altri ruoli dirigenziali nel pieno della formulazione delle pratiche pseudo-legali utilizzate nell’ambito della cosiddetta “guerra al terrore”.

Proprio il suo coinvolgimento negli interrogatori con metodi di tortura, nelle renditions, negli assassini extra-giudiziari di sospettati di terrorismo e nelle detenzioni nel lager di Guantanamo aveva fatto fallire prematuramente la sua candidatura alla guida della CIA nel 2009. Appena assunta la presidenza grazie alla promessa di rompere con gli eccessi del suo predecessore, Obama ritenne infatti troppo presto optare per la scelta di una personalità così compromessa con gli aspetti più rivoltanti dell’amministrazione Bush, finendo perciò per offrirgli un incarico alla Casa Bianca per il quale non è previsto il voto di conferma da parte del Senato.

Il fatto che il presidente americano possa scegliere ora senza troppe difficoltà o reazioni negative un personaggio simile alla direzione della CIA è dunque un’ulteriore testimonianza del deterioramento dell’ambiente democratico negli Stati Uniti, a cui peraltro ha contribuito proprio lo stesso John Brennan nello svolgimento delle funzioni assegnategli da Obama in questi quattro anni.

In collaborazione con il presidente e la sua più ristretta cerchia di consiglieri, Brennan ha infatti dato un apporto decisivo all’espansione del programma di assassini mirati in ogni angolo del pianeta come strumento principale della lotta al terrorismo internazionale. Soprattutto, il suo instancabile lavoro ha portato alla pressoché compiuta istituzionalizzazione degli omicidi deliberati decisi dal vertice del potere esecutivo senza la presentazione di prove di colpevolezza e senza passare attraverso un qualche legittimo procedimento legale.

La nomina di Brennan indica quindi inequivocabilmente il sempre maggiore ricorso che l’amministrazione Obama farà nel secondo mandato ai metodi palesemente illegali già ampliati in questi anni, a cominciare dalle incursioni con i droni in paesi come Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia che hanno causato migliaia di vittime civili e terrorizzato popolazioni inermi.

Lo stesso presidente Obama, nel presentare il prossimo capo della CIA, ha sottolineato l’inquietante funzione di Brennan, elogiandolo lunedì per il suo lavoro volto ad “inserire i nostri sforzi in un quadro dalle salde fondamenta legali”. Un’affermazione che, nel consueto linguaggio orwelliano del governo americano, significa che Brennan e il suo staff hanno cercato in tutti i modi di fornire basi pseudo-legali a quelle che a tutti gli effetti risultano essere operazioni criminali.

In questo senso, Brennan ha difeso pubblicamente il programma di assassini extra-giudiziari dell’amministrazione Obama in un famigerato intervento dell’aprile scorso presso un think tank di Washington, giustificandone la legalità con l’aderenza al dettato dei provvedimenti draconiani adottati dal Congresso subito dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 che hanno ampliato enormemente i poteri dell’esecutivo.

Inoltre, Brennan definì in quella stessa occasione come “etico” l’impiego dei velivoli senza pilota per la loro capacità di limitare al minimo i danni collaterali, senza tenere conto delle innumerevoli morti di civili innocenti documentate da numerosi studi e ricerche indipendenti.

Più in generale, anche leggendo attraverso i giudizi prevalenti sui media americani circa le due nomine di Obama, giustificate dalla necessità di modificare i ruoli tradizionali attribuiti al Pentagono e alla CIA negli anni a venire, la scelta di Hagel e Brennan sembra rispondere alla volontà delle élite d’oltreoceano di trasformare l’apparato militare e dell’intelligence in strumenti più efficaci e meno onerosi per la difesa degli interessi degli Stati Uniti nel mondo.

In altre parole, l’insostenibilità nel lungo periodo di conflitti come quelli combattuti in Afghanistan e in Iraq di fronte ad un indebitamente interno che ha raggiunto livelli allarmanti, assieme all’emergere di una potenza globale come la Cina da contrastare con ogni mezzo, comporta da un lato il ridimensionamento di una gigantesca macchina bellica che assorbe oltre 600 miliardi di dollari di denaro pubblico ogni anno e dall’altro il conseguente ricorso sempre più massiccio a operazioni limitate ma ugualmente distruttive come quelle garantite dai droni o dai reparti speciali.

Il primo di questi due obiettivi, nel giudizio di Obama, appare perciò raggiungibile con la nomina a Segretario alla Difesa di Chuck Hagel, apertamente favorevole ad un taglio delle spese militari e alla riduzione del contingente americano in Afghanistan in tempi brevi senza compromettere gli obiettivi strategici del proprio paese, e il secondo con John Brennan a Langley, dove quest’ultimo avrà mano libera per assegnare alla CIA un ruolo sempre più incisivo e svincolato da restrizioni legali nell’infinita guerra al terrore.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy