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di Michele Paris
Il primo discorso pubblico in quasi sei mesi tenuto da Bashar al-Assad domenica scorsa a Damasco è stato immediatamente sfruttato dai media e dai governi occidentali per sottolineare l’impossibilità dell’uscita dalla crisi in Siria a quasi due anni dall’inizio delle ostilità senza un passo indietro del presidente. Apparso di fronte ad una folla di sostenitori, riuniti presso il teatro dell’opera della capitale siriana, Assad ha avanzato un suo piano di riconciliazione, basato però su proposte che erano già cadute nel vuoto o erano state respinte dai suoi interlocutori interni ed esterni parecchi mesi fa, come la creazione di un nuovo governo e di una nuova costituzione, nonché l’apertura di un qualche dialogo con l’opposizione tollerata dal regime.
Nella sua analisi della situazione interna al paese, invece, Assad ha ampiamente colto nel segno, pur senza riconoscere la legittimità del malcontento diffuso in Siria nei confronti di un regime che ha ereditato dal padre, Hafez, più di un decennio fa. Assad ha infatti ribadito come l’opposizione armata sia sostenuta dalle potenze occidentali e dalle monarchie assolute del Golfo e sia largamente dominata da forze integraliste islamiche legate al terrorismo internazionale.
Alla luce di questo scenario, ha affermato il presidente siriano, l’unica strada verso una soluzione politica rimane la fine del sostegno economico e militare a questi stessi gruppi fondamentalisti da parte delle potenze regionali e degli Stati Uniti. Una soluzione che rimane poco più di un miraggio, visto che questi ultimi hanno fin dall’inizio puntato deliberatamente su queste forze per rovesciare il regime di Damasco.
Il rifiuto di Assad a dimettersi e di negoziare con le opposizioni armate è stato così definito dai giornali di mezzo mondo come un continuo ostacolo ad una soluzione pacifica della crisi. In realtà, è la stessa opposizione ad avere più volte respinto nei mesi precedenti non solo qualsiasi apertura di Assad, ma anche i piani partoriti dalla diplomazia internazionale e puntualmente falliti, a cominciare da quelli degli inviati speciali dell’ONU e della Lega Araba per la Siria, Kofi Annan e il suo successore, l’ex ministro degli Esteri algerino Lakhdar Brahimi.
Lo stallo della situazione nel paese mediorientale suggerisce d’altra parte una vasta avversione popolare per i metodi utilizzati nel conflitto dalle forze di opposizione. Il sostegno a queste ultime garantito dagli Stati Uniti, dai governi europei e dai loro alleati nel mondo arabo rappresenta inoltre uno dei motivi principali per cui il regime di Assad conserva tuttora un certo consenso interno, soprattutto tra le minoranze alauite (sciite), cristiane e druse, comprensibilmente terrorizzate per un possibile futuro monopolizzato da forze islamiste sunnite.
In ogni caso, i commenti al discorso di Assad apparsi sui media occidentali hanno cercato di attribuire alla linea dura confermata domenica dal presidente la totale responsabilità del deterioramento della situazione in Siria, prospettando perciò come pressoché inevitabile nel prossimo futuro un intervento militare esterno per evitare che il conflitto si prolunghi indefinitamente.L’apoteosi dell’ipocrisia nelle reazioni all’apparizione pubblica di Assad è stata raggiunta come al solito dagli Stati Uniti. La portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, in una dichiarazione alla stampa ha infatti affermato che, mentre Assad “parla di dialogo, il regime alimenta deliberatamente le tensioni settarie e continua ad uccidere i propri cittadini”, di fatto ribaltando la realtà sul campo, nella quale è precisamente Washington a favorire e sfruttare da tempo le divisioni settarie in un paese guidato per decenni da un regime secolare, così da destabilizzarlo e operare un cambio al vertice che risponda ai propri interessi strategici nella regione.
Con l’inizio del nuovo anno, intanto, i preparativi per una nuova guerra in Medio Oriente hanno fatto registrare significativi passi avanti. Nei giorni scorsi, ad esempio, i primi missili Patriot richiesti qualche settimana fa alla NATO dal governo di Ankara hanno cominciato a giungere in territorio turco al confine con la Siria.
Le batterie di missili servono ufficialmente per difendere la Turchia da un’ipotetica quanto improbabile aggressione siriana, mentre in realtà sono la prima fase di un intervento diretto per istituire una “no-fly zone” oltre il confine meridionale e colpire le postazioni dell’esercito di Damasco. A fornire i Patriot alla Turchia sono gli Stati Uniti, la Germania e l’Olanda, i cui governi invieranno un totale di oltre mille soldati con l’incarico ufficiale di operare le batterie che stanno per essere installate.
Per preparare un’opinione pubblica internazionale che in larga parte si oppone ad una nuova guerra imperialista, gli Stati Uniti e la NATO continuano poi a diffondere la propria propaganda, tra l’altro accusando Damasco di avere utilizzato missili Scud contro i ribelli e di progettare un possibile ricorso al proprio arsenale di armi chimiche.
Parallelamente, al confine meridionale della Siria, Israele ha annunciato la costruzione di una barriera protettiva per difendere le Alture del Golan, un territorio occupato nel 1967 e successivamente annesso in maniera illegale. L’iniziativa, presentata durante una riunione di governo da un Netanyahu in piena campagna elettorale, si accompagnerà ad un rafforzamento della presenza militare israeliana in una zona di confine rimasta peraltro in gran parte pacifica negli ultimi quattro decenni.La giustificazione per la realizzazione della barriera, secondo il premier israeliano, sarebbe l’arretramento delle forze di sicurezza siriane dalle aree oltreconfine e la conseguente infiltrazione di gruppi jihadisti. Una dinamica, quest’ultima, provocata dal sostegno agli integralisti islamici offerta dagli Stati Uniti e dai loro alleati nella lotta contro il regime di Assad e che commentatori e analisti occidentali o israeliani si guardano però bene dal rilevare.
Secondo resoconti apparsi nei giorni scorsi sulla stampa araba, inoltre, il governo di Israele sarebbe entrato in contatto anche con le autorità giordane e con esponenti dell’opposizione siriana per valutare possibili operazioni militari nel paese, ufficialmente per “difendere” le Alture del Golan. Dopo le esitazioni iniziali, dovute ai timori per l’instaurazione di un regime post-Assad dominato da forze islamiste, il governo di Tel Aviv si è schierato in maniera decisa con l’opposizione, anche se l’impopolarità di Israele nel mondo arabo suggerisce il mantenimento di una posizione defilata nelle vicende interne della Siria.
La massiccia presenza di integralisti islamici tra le fila dell’opposizione sostenuta dall’Occidente, infine, continua ad essere dimostrata da svariati reportage giornalistici. Tra di essi, spiccano le dichiarazioni raccolte recentemente da un’inviata della televisione pubblica canadese (CBC) con i vertici di alcuni gruppi ribelli, come il comandante della milizia Kata ib-Essalam, attiva nella città di Aleppo.
Secondo quest’ultimo, “il Libero Esercito della Siria e la Coalizione [Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione] sono solo inchiostro su carta”, vale a dire il risultato di un’operazione di pura “immagine creata per presentare un fronte unito ai governi stranieri”. Per il comandante, autodefinitosi “islamista sunnita” come i membri della sua brigata, ciò per cui l’opposizione siriana si batte è unicamente l’instaurazione di uno stato islamico fondato sulla Sharia.
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di Michele Paris
Un articolo pubblicato dal Washington Post ha ricordato qualche giorno fa come l’amministrazione Obama stia continuando a fare affidamento sulle cosiddette “extraordinary renditions” nella guerra al terrore, nonostante le ripetute assicurazioni pubbliche da parte della Casa Bianca di avere ristabilito la legalità dopo gli eccessi che avevano caratterizzato i due mandati di George W. Bush.
Il quotidiano della capitale americana ha fatto riferimento alla vicenda di tre cittadini europei di origine somala (due svedesi e uno britannico) apparsi il 21 dicembre scorso in un’aula di tribunale di Brooklyn dopo essere rimasti segretamente sotto custodia delle autorità statunitensi per almeno quattro mesi.
Dal momento che i documenti relativi ai tre arrestati rimangono classificati, le circostanze della loro cattura sono tutt’altro che chiare. Tuttavia, come ha scritto il Washington Post, una dichiarazione ufficiale dell’FBI e del procuratore federale del distretto orientale di New York ha fatto sapere che i tre accusati sono stati “fermati in Africa dalle autorità locali mentre si stavano recando in Yemen” ai primi di agosto. I tre sarebbero sostenitori o farebbero parte di Al-Shabab, una milizia integralista islamica che da anni si batte contro il debole governo centrale della Somalia e che si trova sulla lista delle organizzazioni terroristiche degli Stati Uniti.
Secondo i difensori dei tre accusati, i loro clienti sono stati arrestati a Gibuti, il piccolo paese situato nel Corno d’Africa che ospita una importante base militare americana (Camp Lemonnier), da dove vengono gestite operazioni di anti-terrorismo e le incursioni con i droni in paesi come Somalia e Yemen. Dopo l’arresto, gli svedesi Ali Yasin Ahmed (23 anni) e Mohamed Yusuf (29) e il cittadino britannico Mahdi Hashi (23) sono stati interrogati per svariate settimane a Gibuti da agenti della CIA, verosimilmente con metodi di tortura, senza che contro di loro fossero state emesse accuse formali.
Prima di finire a Gibuti, secondo altre ricostruzioni, i tre sarebbero stati fermati e interrogati proprio in Somalia, dove la CIA gestisce una struttura detentiva clandestina presso l’aeroporto di Mogadiscio, come rivelò nell’agosto del 2011 il giornalista investigativo americano Jeremy Scahill sulla rivista The Nation.
Dopo un paio di mesi, in ogni caso, un apposito Grand Jury segreto convocato a New York ha incriminato i tre sospettati, i quali sono stati così posti sotto custodia dell’FBI e trasferiti clandestinamente in territorio americano.Nelle parole dell’avvocato difensore del britannico Hashi, i tre arrestati “stavano soggiornando a Gibuti e, improvvisamente, dopo avere incontrato degli amichevoli agenti dell’FBI e della CIA - i quali non si sono identificati - il mio cliente si è ritrovato senza cittadinanza e in un tribunale degli Stati Uniti”. Mahdi Hashi, infatti, la scorsa estate venne minacciato con la revoca della cittadinanza britannica dalle autorità di Londra a causa delle sue “attività di estremista”. Fin dal 2009, Hashi aveva però subito pressioni da parte dell’MI5, cioè i servizi domestici di intelligence, per diventare un informatore del governo.
I due cittadini svedesi, invece, secondo quanto confermato al Washington Post dal Ministero degli Esteri di Stoccolma, avrebbero ricevuto visite di diplomatici del loro paese e assistenza consolare sia a Gibuti che a New York. Il governo svedese ha comunque chiarito di non avere preso alcuna posizione ufficiale nella vicenda, lasciando di fatto carta bianca alle autorità americane circa la sorte dei suoi due cittadini. I servizi di sicurezza svedesi, d’altra parte, hanno collaborato illegalmente nel recente passato con Washington in svariati casi di “renditions” e il governo di Stoccolma si è più volte dimostrato estremamente docile nei confronti di quello americano, come conferma il caso del fondatore di WikiLeaks, Julian Assange.
Se Al-Shabab, come già ricordato, è considerato fin dal 2008 un gruppo terroristico dal Dipartimento di Stato USA, per stessa ammissione del governo americano le sue attività sono limitate alle vicende della guerra civile in corso in Somalia, mentre non vi sono praticamente prove del coinvolgimento dei suoi membri nelle trame terroristiche internazionali. In maniera ancora più evidente, sostengono i legali della difesa, contro i tre accusati non esiste nemmeno un indizio di una eventuale intenzione di colpire obiettivi o cittadini americani. Sia il governo di Londra che quello di Stoccolma, oltretutto, hanno tenuto sotto controllo per anni i movimenti dei loro tre cittadini verso la Somalia, senza però mai trovare alcuna prova che potesse giustificare l’apertura di un procedimento legale.
A sostegno della tesi che le “renditions” - una pratica messa in atto dal governo americano per rapire una persona e trasferirla in un paese terzo per essere sottoposta ad interrogatori anche con metodi di tortura senza tenere conto dei suoi diritti legali - stanno proseguendo anche sotto la presidenza Obama, il Washington Post ha citato un altro caso, quello del cittadino eritreo Mohamed Ibrahim Ahmed. Quest’ultimo era apparso di fronte ad un tribunale federale di Manhattan nel dicembre 2011 dopo essere stato interrogato da un team di agenti americani in Nigeria senza che gli fossero stati letti i suoi diritti.
I casi descritti dal Washington Post sono con ogni probabilità solo la punta dell’iceberg e risultano noti perché i sospettati di terrorismo coinvolti hanno avuto quanto meno la possibilità di esporre le loro vicende ad un giudice federale. Il continuo ricorso alle “renditions” negli ultimi quattro anni è inoltre la prova di come le promesse fatte da Obama di mettere fine alle pratiche illegali del suo predecessore siano state del tutto disattese.In seguito alle pressioni dei vertici della CIA, d’altra parte, pochi giorni dopo il suo ingresso alla Casa Bianca, il presidente democratico emise un “ordine esecutivo” che lasciò aperta la possibilità di continuare a tenere sotto custodia in prigioni clandestine all’estero i sospettati di terrorismo catturati illegalmente, purché “su base temporanea”.
Inoltre, le persone sottoposte a “renditions” e tornate in libertà per l’inconsistenza delle accuse nei loro confronti si sono viste regolarmente negare la possibilità di denunciare in un tribunale americano il trattamento subito, visto che il governo ha sempre impedito ogni procedimento facendo appello al segreto di stato.
Nonostante il tentativo di occultare la realtà di questi anni da parte della stampa e dei sostenitori liberal di Obama, la continuità degli strumenti pseudo-legali per combattere la fantomatica “guerra al terrore” è stata dunque garantita in pieno dal presidente democratico. A continuare ad essere impiegate e spesso ampliate sono state non soltanto pratiche come le “renditions”, ma anche gli assassini mirati senza giustificazione legale in ogni angolo del pianeta e i processi-farsa di fronte a tribunali militari che calpestano puntualmente i diritti costituzionali garantiti a qualsiasi imputato.
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di Michele Paris
A poche ore di distanza dal voto positivo del Senato, la Camera dei Rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti nella tarda serata del primo giorno del nuovo anno ha dato il via libera definitivo all’accordo bipartisan, negoziato dal repubblicano Mitch McConnell e dal vice presidente Joe Biden, che ha evitato il cosiddetto “precipizio fiscale” (“fiscal cliff”).
Nonostante i tentativi di dipingere la risoluzione temporanea della crisi come una vittoria per il presidente Obama e il mantenimento della sua promessa elettorale di alzare le tasse per i redditi più alti, la legislazione appena approvata risulta estremamente gradita ai repubblicani, i quali, oltretutto, partiranno ora da una posizione di netto vantaggio in vista delle trattative che inizieranno nelle prossime settimane per decidere colossali tagli alla spesa pubblica.
Nelle ultime fasi del 112esimo Congresso americano, dunque, la Camera ha passato in extremis un provvedimento che blocca l’entrata in vigore di riduzioni automatiche di spesa e aumenti generalizzati del carico fiscale per i contribuenti con 257 voti a favore e 167 contrari. Ad evitare il “fiscal cliff” è stato l’apporto decisivo dei deputati democratici, 172 dei quali si sono uniti ad appena 85 facenti parte della maggioranza repubblicana per consentire l’approvazione dell’accordo. Ben 151 repubblicani e 16 democratici si sono invece espressi contro la misura, la quale nelle prime ore dell’anno al Senato aveva raccolto una maggioranza schiacciante (89 a 8).
Come aveva insistentemente chiesto il presidente, i tagli alle tasse implementati durante l’amministrazione Bush sono stati soppressi per gli americani più facoltosi, mentre per il resto della popolazione sono stati resi permanenti. Obama, tuttavia, aveva promesso in campagna elettorale di volere mantenere immutate le aliquote fiscali solo per i redditi inferiori ai 250 mila dollari, mentre l’intesa sulla quale si è espresso positivamente il Congresso ha alzato questa soglia a 400 mila dollari per singoli individui e 450 mila dollari per le famiglie. Per coloro che denunciano redditi superiori a queste somme, e solo per la quota eccedente 400 mila o 450 mila dollari, l’aliquota salirà dal 35% al 39,6%, vale a dire ad un livello ancora nettamente inferiore a quello in vigore, ad esempio, durante la presidenza Reagan.
L’approssimarsi del “precipizio fiscale” ha creato non poca agitazione all’interno dei due schieramenti politici, in particolare tra le fila repubblicane. A testimonianza delle tensioni interne, nessuno dei leader del partito che detiene la maggioranza alla Camera ha espresso in aula il proprio appoggio all’accordo. Il numero due e il numero tre del Partito Repubblicano alla Camera, rispettivamente Eric Cantor (Virginia) e Kevin McCarthy (California), hanno addirittura votato contro il provvedimento. A favore ha votato invece lo speaker, John Boehner.
Per la maggior parte dei media americani, la motivazione ufficiale della freddezza repubblicana sarebbe da ricercare nell’assenza di tagli alla spesa nell’accordo stipulato dal senatore McConnell e da Biden oppure nell’intransigenza assoluta dei membri più conservatori della Camera, contrari anche solo all’aumento poco più che simbolico delle tasse per una ristrettissima minoranza di contribuenti privilegiati.
A ben vedere, tuttavia, la legislazione che ha scongiurato il “fiscal cliff” non deve avere turbato più di tanto i deputati repubblicani, anche se nelle scorse settimane era circolata una versione da loro preferita e che prevedeva l’innalzamento delle tasse solo per i redditi superiori al milione di dollari.
Infatti, la linea dura dei repubblicani alla Camera ha in sostanza spinto ancora una volta i democratici a concedere terreno ai rivali, alzando la soglia del reddito previsto per ottenere il prolungamento indefinito dei tagli alle tasse. Inoltre, l’accordo partorito dal Senato ha offerto alla maggioranza repubblicana alla Camera una via d’uscita dignitosa all’impasse in cui essa stessa si era infilata, presentando la proposta Biden-McConnell come l’unica e ultima possibilità per salvare il paese dalla catastrofe.
Così, con un provvedimento sul quale avrebbero finito inevitabilmente per convergere i democratici, i vertici repubblicani hanno deciso di far votare a favore solo una parte della loro delegazione alla Camera per garantirne il passaggio, consentendo ai membri che rappresentano i distretti più conservatori, e quindi più vulnerabili nelle prossime elezioni in caso di un loro voto per l’aumento delle tasse, di esprimere parere contrario.
Che l’accordo finale sia gradito ai repubblicani è confermato dal fatto che esso rende definitivi i tagli alle tasse di Bush per il 99,3% dei contribuenti americani, compresi quelli con redditi non esattamente da classe media. Sul piano politico, soprattutto, i repubblicani hanno poi ottenuto una misura che risponde in gran parte agli interessi che rappresentano, facendola passare per una vittoria di Obama e dei democratici.
In questo modo, nelle prossime settimane, quando si dovrà decidere sui tagli alla spesa e sull’innalzamento del tetto del debito USA, il presidente e il suo partito si ritroveranno praticamente senza più nessun capitale politico da spendere né possibilità di fare pressioni sui repubblicani con la minaccia dell’aumento automatico delle tasse, così che questi ultimi potranno verosimilmente ottenere in cambio un drastico ridimensionamento dei programmi pubblici. Con il voto di inizio anno, infatti, il “fiscal cliff” è stato soltanto rinviato di due mesi e la nuova scadenza coinciderà appunto con il venir meno delle facoltà del governo federale di auto-finanziarsi con l’attuale livello massimo di indebitamente stabilito per legge.
La posizione repubblicana sarà rafforzata anche dal fatto che l’accordo approvato martedì notte a Washington aggiungerà altri 4 mila miliardi di dollari al deficit federale nel prossimo decennio, alimentando le richieste di quanti chiedono l’implementazione di tagli alla spesa. Ciò è dovuto, oltre ai mancati introiti dovuti alla resa permanente dei tagli alle tasse, a varie altre misure, tra cui l’espansione di rimborsi fiscali per famiglie con figli, le modifiche apportate ad una tassa (“alternative minimum tax”) che avrebbe dovuto aumentare per decine di milioni di contribuenti e il prolungamento di limitati sussidi di disoccupazione in scadenza per oltre due milioni di americani.
In ogni caso, i tagli fiscali confermati dal Congresso saranno virtualmente annullati per i redditi più bassi. Infatti, a partire dal primo gennaio una trattenuta nella busta paga dei lavoratori dipendenti con redditi inferiori ai 110 mila dollari, destinata al finanziamento di Social Security, tornerà al 6,2% dopo essere stata al 4,2% nel corso degli ultimi due anni. Questo aumento non è stato affrontato dall’accordo sul “fiscal cliff” e colpirà più di un terzo dei contribuenti americani.
A beneficio dei redditi più alti, invece, l’accordo prevede che la tassa di successione scatterà solo per beni che valgono almeno 5 milioni di dollari, mentre la Casa Bianca e i democratici intendevano ristabilire la soglia dei 3,5 milioni, anche se l’aliquota salirà dal 35% al 40%. Allo stesso modo, sempre per i redditi superiori ai 450 mila dollari l’anno, la tassazione sui dividendi salirà solo di 5 punti percentuali (dal 15% al 20%), cioè molto meno rispetto al 39,6% previsto se gli Stati Uniti fossero andati incontro al “fiscal cliff”.
In risposta all’accordo di inizio anno, i mercati internazionali hanno come previsto fatto segnare rialzi significativi, sia per l’inclusione di misure come queste ultime sia perché il provvedimento spiana la strada alle imminenti trattative su tagli senza precedenti alla spesa pubblica. Le strategie ricattatorie degli ambienti finanziari rimangono comunque pronte ad essere impiegate nei confronti dei politici di Washington in caso di esitazioni o disaccordo persistente.
Le pressioni su democratici e repubblicani si baseranno sulla tesi che, dal momento che i ricchi sono stati sufficientemente colpiti dall’aumento delle tasse, toccherà ora a classe media, lavoratori e pensionati fare la loro parte con nuovi durissimi sacrifici per aggiustare i conti del paese. Su queste posizioni è d’altra parte già assestato tutto l’establishment politico d’oltreoceano, a cominciare dal presidente Obama, il quale domenica scorsa al programma televisivo della NBC, “Meet the Press”, ha ribadito per l’ennesima volta di essere pronto a discutere della “riforma” di popolari programmi pubblici di assistenza come Medicare e Medicaid, da cui dipendono decine di milioni di americani.
A rendere poi ancora più amara per le classi più disagiate la presunta vittoria dell’inquilino democratico della Casa Bianca sul “fiscal cliff” è infine la sua disponibilità a concordare con i repubblicani una “riforma” complessiva anche del sistema fiscale nel corso del 2013. In essa, come ha chiarito Obama nel recente passato, saranno valutate riduzioni dei livelli di tassazione per i redditi più elevati e per le corporations, così da neutralizzare di fatto gli irrisori aumenti appena decisi in questo inizio di nuovo anno.
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di Michele Paris
Il movimento di protesta in larga parte pacifico Occupy Wall Street negli Stati Uniti è stato seguito fin dalla sua nascita con estrema attenzione dalle autorità di polizia americane. A rivelare gli sforzi per il monitoraggio delle attività del gruppo addirittura da parte di una task force dell’anti-terrorismo dell’FBI è stata una serie di documenti ufficiali recentemente pubblicati in seguito alla richiesta presentata da un’organizzazione a difesa dei diritti civili grazie al Freedom of Information Act.
A partire dalla metà di settembre del 2011, gli attivisti di Occupy Wall Street iniziarono a stabilire dei presidi permanenti a Zuccotti Park, all’estremità meridionale dell’isola di Manhattan, provocando un’ondata di proteste nelle altre principali città americane contro il monopolio incontrollato della finanza sull’economia.
Secondo quanto riportato recentemente dal New York Times, agenti dell’anti-terrorismo di New York si stavano interessando al movimento già in quella data, segnalando ad esempio come “punti di interesse di Occupy Wall Street” due edifici storici della metropoli: il Federal Hall, adiacente alla sede della borsa, e il Museo della Finanza Americana, anch’esso situato a Wall Street.
Da quel momento, gli agenti federali di tutto il paese iniziarono a dedicarsi alle attività delle varie sezioni di Occupy Wall Street, scambiando informazioni su di esse con rappresentanti di aziende private e forze di polizia locale. In particolare, nell’ottobre dello scorso anno un documento dell’ufficio dell’FBI di Jacksonville, in Florida, il cui titolo faceva esplicito riferimento alla gestione del “terrorismo domestico”, riportava resoconti di incontri del gruppo di protesta e indicava la necessità di entrare in contatto con gli attivisti per verificare se fossero presenti “tendenze violente”.
L’FBI della Florida, nella propria analisi del successo di Occupy Wall Street, faceva riferimento in maniera significativa agli elevati livelli di disoccupazione in questo stato e nel resto degli USA, mettendo in guardia dalla possibile presenza di singole persone che “potevano sfruttare il movimento per ragioni associate ad una più generale insofferenza verso il governo”.
Simili preoccupazioni rivelano come il governo americano era ben consapevole delle implicazioni che poteva avere la diffusione di un movimento di protesta autonomo nel paese. L’obiettivo delle manifestazioni di Occupy Wall Street non poteva d’altra parte limitarsi alle pratiche speculative e senza freni dell’industria finanziaria con sede a Manhattan, ma avrebbe bensì finito inevitabilmente per prendere di mira l’intero sistema politico che di quest’ultima rappresenta i pressoché esclusivi interessi.
Il pericolo era perciò quello di vedere esplodere una rivolta dal basso ben più imponente, tanto più che gli anni seguiti allo scoppio della crisi economica hanno fatto registrare un sensibile aggravamento delle tensioni sociali in America, con scioperi e manifestazioni di protesa come non se ne vedevano da almeno tre decenni.
Come fa notare il New York Times, d’altra parte, le tattiche adottate dall’FBI per tenere sotto controllo Occupy Wall Street assomigliano molto a quelle già messe in atto per sorvegliare e raccogliere informazioni su attivisti impegnati in vari ambiti e tutti puntualmente considerati una minaccia per la sicurezza nazionale. A tale scopo, il governo di Washington ha spesso impiegato agenti dell’anti-terrorismo alle dipendenze dell’FBI, utilizzando quegli strumenti pseudo-legali voluti dalla Casa Bianca e approvati dal Congresso per combattere la “guerra al terrore” dopo l’11 settembre 2001.
Lo zelo mostrato dall’FBI nel fronteggiare la presunta minaccia di Occupy Wall Street riflette inoltre la necessità da parte del governo americano di salvaguardare gli interessi delle grandi banche di investimenti, parallelamente a quanto fatto dall’amministrazione Obama e dal Congresso di Washington per evitare che un solo top manager delle compagnie responsabili del tracollo dell’economia pagasse per i crimini commessi.
I documenti ottenuti dall’associazione Partnership for Civil Justice Fund, non a caso, raccontano di summit tra agenti dell’FBI con dirigenti della borsa di New York e rappresentanti delle banche già nell’agosto del 2011 per metterli in guardia da imminenti manifestazioni di protesta nei loro confronti. I toni frequentemente usati dall’FBI nel descrivere i componenti di Occupy Wall Street erano estremamente duri, con definizioni sproporzionate alla natura sostanzialmente pacifica del movimento e alla mancanza di prove relative alla pianificazione di operazioni violente.
Nel commentare la pubblicazione dei documenti, la direttrice di Partnership for Civil Justice Fund, Mara Verheyden-Hilliard, ha accusato l’FBI di avere agito in maniera impropria, raccogliendo informazioni su americani coinvolti in attività perfettamente legali. Secondo la stessa attivista per i diritti civili, inoltre, “informazioni su persone che esercitavano il loro diritto alla libertà di parola sono finite in banche dati non regolamentate, alimentando un vastissimo archivio a cui hanno potuto attingere forze di polizia e, probabilmente, anche enti privati… così che ora le persone coinvolte non sono a conoscenza di quando o in che modo queste stesse informazioni potranno essere utilizzate contro di loro”.
Il coordinamento tra le forze di polizia e i vertici della finanza americana nel limitare le proteste nelle strade di Manhattan e nelle altre città americane è sempre stato molto stretto, fino alla decisione finale di rimuovere con la forza l’accampamento di Zuccotti Park il 15 novembre 2011. Così, nonostante la persistenza di ristretti gruppi di protesta e manifestazioni più numerose in occasione degli anniversari della nascita del movimento, Occupy Wall Street ha alla fine perso piuttosto rapidamente la propria spinta propulsiva.
I motivi di questa involuzione, come dimostrano le carte dell’FBI appena pubblicate, sono da ricercare dunque nella repressione messa in atto repentinamente dalle autorità di polizia americane, ma anche, e probabilmente soprattutto, nell’assenza di una prospettiva realmente alternativa ad un sistema capitalistico attraversato da una crisi strutturale e nel tentativo in buona parte riuscito di canalizzare le proteste verso un esito inoffensivo messo in atto da molti esponenti del Partito Democratico e delle organizzazioni sindacali, quasi da subito schieratisi nominalmente a fianco del movimento Occupy Wall Street.
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di Carlo Musilli
Il super manager infedele, i segreti industriali spifferati ai cinesi, gli accordi sottobanco, i servizi segreti, la sindacalista picchiata da misteriosi sicari. E l'ombra dell'Eliseo che incombe. Non è un intreccio partorito dalla penna di John le Carré, ma lo scandalo con cui i vertici dell'economia francese hanno deciso di chiudere il 2012. Nell'occhio del ciclone c'è Henri Proglio, numero uno di Edf ("Electricité de France"), gigantesca società energetica controllata dallo Stato.
La settimana scorsa il periodico "Le Canard enchaîné" ha accusato il manager di aver rivelato a un gruppo cinese alcune importanti informazioni in materia di tecnologia nucleare. Subito dopo si è scoperto che a carico del buon Proglio sono state aperte addirittura due inchieste: una del ministero delle Finanze, l'altra dei servizi segreti.
La spy story ruota attorno a un misterioso accordo firmato nel novembre 2011 fra Edf e Cgnpc (China Guangdong Nuclear Power Company) per la realizzazione di un reattore nucleare di ultima generazione in Cina. Sembra che pur di chiudere l'intesa Proglio sia andato ben oltre il suo mandato, garantendo ai cinesi "i codici di calcolo francesi riservati e gli strumenti di simulazione", la "documentazione operativa di Edf" e l'accesso alla riservatissima unità di crisi. Non solo: Areva, altro colosso nucleare francese che si occupa della realizzazione materiale delle centrali (mentre Edf le gestisce), viene incredibilmente lasciata fuori dall'accordo.
In aprile la vicenda si complica. Il Comitato strategico di Edf boccia l'intesa che, dopo l'intervento dell'Agenzia delle partecipazioni di Stato, viene definitivamente bloccata dall'allora ministro dell'Economia, François Baroin. Il tutto poco prima delle elezioni. A quel punto le trattative ripartono e stavolta includono anche Areva. Lo scorso 19 ottobre, infine, viene firmato un nuovo accordo a tre per la realizzazione del fantomatico reattore. Intorno al contratto è però buio pesto: nessuno sa ancora con precisione cosa abbia ottenuto Edf dai cinesi, né tantomeno a quale prezzo.
Ed è qui che dallo spionaggio si passa al thriller vero e proprio. Una certa Maureen Kearney, sindacalista di Areva, vuole andare fino in fondo: pur di vederci chiaro minaccia di ricorrere alla carta bollata, telefona a vari politici e mette la pulce nell'orecchio alla stampa. Casualmente (ma solo perché gli avvocati di Areva hanno minacciato querele contro chiunque metta in relazione le due vicende), il 17 dicembre un manipolo di energumeni fa irruzione in casa sua. Dopo averla aggredita, gli uomini le disegnano addosso una "A", poi se ne vanno. Con che lettera comincia "Areva"? Ma no, in fondo le coincidenze esistono (e i depistaggi anche).
Per calmare le acque, il direttore di produzione di Edf, Hervé Machenaud, fa sapere che il primo accordo bilaterale con i cinesi era solo una bozza e che l'intesa finale non prevede alcuna rivelazione dei segreti atomici francesi. "Non firmare questo accordo ci avrebbe fatto correre il rischio di vedere un certo numero di contratti importanti passarci sotto il naso", chiosa Machenaud.
Edf dà lavoro a 156 mila persone e realizza un fatturato annuo superiore ai 65 miliardi di euro. La maggior parte dell'elettricità che gestisce è di origine nucleare e viene prodotta nei suoi 54 impianti. Le dimensioni però non sono tutto. Al momento Edf è in difficoltà: ai minimi storici in Borsa e sotto il peso di un enorme indebitamento, deve fronteggiare il drastico calo della domanda in questi anni di crisi. Ci sono poi gli impianti vecchi da dismettere e quelli nuovi da realizzare (l'inaugurazione del primo, in Normandia, è stata rinviata più volte e i costi sono lievitati ben oltre il previsto).
In Italia Edf è presente da una decina di anni. Dopo aver acquistato da Fiat la maggioranza relativa nel capitale di Edison, la società francese si è recentemente messa in tasca la maggioranza assoluta grazie all'accordo raggiunto con i soci italiani guidati da A2A. Per chiudere l'affare nel nostro Paese la trattativa è stata lunga e travagliata. All'epoca di quei negoziati, tuttavia, Proglio poteva contare sull'appoggio politico del presidente Nicolas Sarkozy, di cui è sempre stato un fervente sostenitore. Ora invece, dopo l'elezione di François Hollande, la musica è cambiata e i rapporti fra il numero uno di Edf e l'Eliseo sono ogni giorno più tesi. Il contratto di Proglio scade nel 2014, ma dopo l'ultima spy story di capodanno c'è già chi scommette sull'addio anticipato.