di Michele Paris

Con un verdetto unanime, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha confermato la legittimità della sezione più controversa e anti-democratica della durissima legge sull’immigrazione approvata nel 2010 dallo stato dell’Arizona. Il più alto tribunale americano ha invece bloccato, perché incostituzionali, altre tre parti dello stesso provvedimento, contribuendo ad alimentare nel paese un dibattito sull’immigrazione che potrebbe avere importanti ripercussioni sulla campagna elettorale in corso per la Casa Bianca.

Il punto più problematico della cosiddetta legge SB (“Senate Bill”) 1070 era la disposizione secondo la quale gli agenti di polizia dell’Arizona sono tenuti a verificare la regolarità dei documenti in possesso di chiunque venga fermato o arrestato e che sia sospettato di essere un immigrato irregolare.

Su questo aspetto della legge, i tre giudici teoricamente assestati su posizioni progressiste (Stephen Breyer, Ruth Bader Ginsburg e Sonia Sotomayor) si sono uniti alla maggioranza dei cinque conservatori (Samuel Alito, Anthony Kennedy, Antonin Scalia, Clarence Thomas e il presidente della corte, John Roberts) stabilendone la costituzionalità. Il nono giudice, Elena Kagan, ha invece ricusato se stessa escludendosi dalla votazione, poiché prima di essere nominata alla Corte Suprema da Obama aveva collaborato alla presentazione del caso (“Arizona contro Stati Uniti”) in qualità di rappresentante del governo (“solicitor general”).

Le tre sezioni cassate dalla corte hanno invece raccolto maggioranze ristrette e i giudici si sono schierati secondo le consolidate linee ideologiche che caratterizzano il supremo tribunale. In un verdetto di 75 pagine, firmato dal giudice centrista Anthony Kennedy, la Corte Suprema ha bocciato le sezioni della legge che avrebbero criminalizzato la mancata registrazione degli immigrati presso le autorità e la semplice ricerca di un posto di lavoro, così come avrebbe facilitato l’arresto per violazioni della legge sull’immigrazione.

La decisione di annullare queste ultime disposizioni è stata presa unicamente sulla base del principio di supremazia che attribuisce priorità alla legge federale rispetto a quella dei singoli stati quando emergono conflitti tra di esse. Negli USA, infatti, il potere di legiferare sulle questioni legate all’immigrazione è attribuita al governo federale. Secondo le parole del giudice Kennedy, perciò, “l’Arizona può nutrire comprensibili frustrazioni circa i problemi causati dall’immigrazione illegale, ma gli stati non possono adottare politiche in conflitto con la legge federale”.

Durante il caso e nel contenuto della sentenza, la Corte Suprema non ha sollevato alcuna questione legata alla ben più grave violazione, ad esempio, del Quarto Emendamento, il quale proibisce perquisizioni e arresti senza un ragionevole motivo, o del Quattordicesimo Emendamento, che garantisce uguale protezione davanti alla legge. Ciò è dovuto al fatto che il caso, promosso dall’amministrazione Obama, si basava appunto sulla questione del conflitto di competenze tra il governo federale e le autorità statali.

Il via libera alla cosiddetta sezione “mostrami i documenti” permetterà così alle forze di polizia dell’Arizona di prendere di mira senza impedimenti singoli individui sulla sola base del loro aspetto fisico, portando con ogni probabilità a procedimenti discriminatori contro appartenenti a minoranze etniche, a cominciare dagli ispanici.

Nel confermare la costituzionalità di questa parte della legge, il giudice Kennedy ha assurdamente affermato che essa contiene garanzie contro possibili discriminazioni razziali, in quanto richiede alla polizia di non considerare l’appartenenza etnica o il paese di origine dei sospettati fermati per verificare la regolarità del loro status di immigrati.

Su questo aspetto, tuttavia, la Corte Suprema ha lasciato aperta la possibilità di futuri procedimenti legali. Lo stesso Kennedy ha scritto che la sentenza di lunedì non preclude future verifiche di costituzionalità dopo che la legge sarà entrata in vigore, cosa che le organizzazioni a difesa dei diritti civili hanno già promesso di fare.

La sentenza era attesa non solo dalle autorità dell’Arizona, ma anche dai due candidati alla presidenza e da numerosi altri stati, in particolare Alabama, Georgia, Indiana, Carolina del Sud e Utah, che hanno da poco approvato leggi simili sull’immigrazione, alcune delle quali congelate da tribunali federali in attesa del pronunciamento della Corte Suprema.

Il presidente Obama, da parte sua, ha salutato con sostanziale soddisfazione la sentenza, anche se ha espresso preoccupazione per le discriminazioni razziali che la sezione della legge confermata potrebbe comportare. Il repubblicano Mitt Romney, impegnato in campagna elettorale proprio in Arizona, si è invece limitato a ribadire che gli stati hanno il diritto e il dovere di rendere più sicuri i propri confini, lasciando intendere il suo appoggio integrale alla legge esaminata dalla corte. Significativa è stata poi la reazione della governatrice dell’Arizona, la repubblicana Jan Brewer, la quale ha definito un successo il verdetto di lunedì dopo due anni di battaglie legali.

Che l’amministrazione Obama, in ogni caso, non abbia particolarmente a cuore i diritti degli immigrati lo ha confermato lo stesso giudice Kennedy, il quale nel parere di maggioranza ha ricordato come “centinaia di migliaia di immigrati vengono deportati ogni anno dal governo federale”. Infatti, negli ultimi tre anni l’attuale amministrazione democratica ha rispedito nei propri paesi di origine un numero record di immigrati, cioè oltre un milione dall’inizio del 2009.

La sentenza sulla legge dell’Arizona ha visto poi una plateale quanto insolita esposizione di dissenso da parte di uno dei giudici più conservatori della Corte Suprema, Antonin Scalia. In quello che gli studiosi del tribunale americano hanno definito come un intervento senza precedenti, Scalia ha criticato non solo la maggioranza che ha bocciato le già ricordate sezioni della legge, ma è anche entrato nel merito di una questione politica al di fuori del caso in discussione.

Il giudice nominato dal presidente Reagan nel 1986 ha fatto riferimento, per condannarla, alla recente decisione annunciata da Obama di consentire un percorso, peraltro complicato, verso la cittadinanza americana per alcuni immigrati irregolari e che dovrebbe in teoria sanare la posizione di meno di un milione di persone.

Dando voce al pensiero di buona parte della classe dirigente conservatrice d’oltreoceano, nel suo discorso Scalia ha espresso posizioni al limite del razzismo, dipingendo lo stato dell’Arizona come irrimediabilmente in balia dei presunti effetti distruttivi dell’immigrazione clandestina.

La sentenza di lunedì rappresenta una sorta di anticipazione di quella che dovrebbe giungere giovedì sulla sorte della riforma sanitaria di Obama nell’ultima seduta della Corte Suprema per l’anno giudiziario in corso. Nel frattempo, oltre alla decisione sulla legge anti-immigrazione dell’Arizona, il supremo tribunale USA ha emesso questa settimana altri verdetti importanti, come quello che ha bollato come incostituzionale il carcere a vita per i detenuti condannati per crimini commessi quando erano minorenni.

Questa legge, per cinque dei nove giudici della corte, viola l’Ottavo Emendamento della Costituzione che proibisce “punizioni crudeli e inusuali” ed è ancora presente nel sistema giudiziario americano perché gli Stati Uniti non hanno mai ratificato la convenzione ONU sui diritti dei minori.

La Corte Suprema, infine, si è rifiutata di tornare sulla decisione presa nel 2010 attorno al caso “Citizens United contro Commissione Elettorale Federale”, in seguito alla quale corporation e individui hanno facoltà di spendere illimitatamente durante le campagne elettorali. La nuova causa era seguita ad una decisione della Corte Suprema del Montana che aveva fissato un tetto alle spese destinate a candidati a cariche elettive nello stato.

Per i nove giudici di Washington, tuttavia, quest’ultima sentenza deve essere annullata, poiché contrasta con quanto stabilito nel procedimento del 2010, con il quale il Primo Emendamento della Costituzione è stato in definitiva distorto fino a far rientrare nella definizione di “libertà di parola” la possibilità garantita alle corporation di spendere senza limiti a favore del candidato preferito.

di Fabrizio Casari

Si chiamano USAID, NED, IRI e con tanti altri nomi, non è la fantasia che manca. Sono gli enti nordamericani che erogano fondi destinati alla destabilizzazione interna di paesi  che non dipendono dagli USA. Vengono venduti alle opinioni pubbliche come enti umanitari, ma sono una delle armi preferite dagli Usa nelle ingerenze interne ai paesi terzi. Travestiti da aiuti allo sviluppo, mascherati da sostegno alle ONG, tramite questi enti milioni e milioni di dollari provenienti dalle casse delle istituzioni statunitensi vengono destinati alle opposizioni nei paesi i cui governi risultano ostili a Washington.

Che poi ostili lo siano effetivamente (vedi Paraguay) è sempre dato da relativizzare, giacché per gli Usa il concetto di ostilità risulta decisamente esteso, abbracciando tutto ciò che non è la cieca obbedienza ai voleri della Casa Bianca. Non c’entra niente la democrazia, anzi: i migliori amici di Washington in tutto il pianeta, sono i governi autoritari e privi di legittimazione democratica. E non c’entrano niente nemmeno i diritti umani, dal momento che chi più li viola appare decisamente schierato tra  quei stessi regimi, fidi sostenitori del Washington consensus.

A ridurre il peso specifico sullo scacchiere internazionali dei cosiddetti paesi ostili vengono destinate risorse d’ogni tipo: dalle guerre ai blocchi economici, dal terrorismo alla fornitura di armi agli oppositori, dall’isolamento diplomatico alla negazione dei prestiti internazionali.

Ma dove per qualsivoglia ragione questi elementi non risultassero applicabili o, comunque, non sufficienti a determinare il risultato sperato, da diversi anni il governo degli Stati Uniti ha scoperto l’utilità e la percorribilità della sovversione interna ai paesi ostili tramite azioni di diversa natura e utilizzando strumenti, tecniche e risorse destinate alla bisogna. Il cyberspazio e i programmi cosiddetti di “aiuto” sono due elementi decisivi di queste strategie.

E se per quanto riguarda l’utilizzo della Rete le attività sono principalmente svolte dall’interno del territorio statunitense, per quanto attiene al sostegno delle opposizioni interne gli strumenti utilizzati sono ormai di consuetudine l’invio di denaro e di funzionari travestiti da ONG con lo scopo di alzare il livello della conflittualità interna ai paesi che si vogliono attaccare.

Dall’Europa dell’Est all’America latina, dai paesi del Maghreb all’Asia, la destabilizzazione socio-politica dei regimi ostili vede il dispiegarsi di miriadi di fondazioni, Ong, associazioni tutte formalmente all’opera per allargare la democrazia, ma tutte sostanzialmente fondate, finanziate e dirette da Washington.

Le ambasciate statunitensi sono infatti il collante operativo e la copertura diplomatica per la maggior parte di queste organizzazioni é il mantello che le copre. Le loro attività - sulle quali amano romanzare gli adepti nelle redazioni dei giornali amici - sono spacciate in chiave umanitaria dalla potenza di fuoco mediatica statunitense, che si adopera per venderle come indipendenti, disinteressate e al servizio delle istanze democratiche.

Nessuna di queste, ovviamente, opera in forma visibile nei paesi amici di Washington; sono tutte allocate nei cosiddetti paesi ostili, dal momento che la scacchiera sulla quale gli Usa muovono le pedine è comunque, sempre, quella avversaria.

Nei bilanci pubblici di molte delle istituzioni pubbliche e delle associazioni private statunitensi impegnate nella sovversione interna ai paesi ostili emergono con chiarezza cifre e flussi di investimenti che dagli Stati Uniti vengono destinati allo scopo e leggendo con attenzione tra i bilanci si possono trovare le tracce della diplomazia parallela della Casa Bianca.

In una intervista al New York Times nel 1991, Allen Weinstein, uno dei fondatori della NED, disse che “quello che fa la NED oggi è quello che un tempo veniva fatto in maniera clandestina da venticinque anni dalla CIA”. E Marc Plattner, un vice-presidente della NED, spiegò a sua volta così il ruolo dell’organizzazione: “Le democrazie liberali favoriscono chiaramente gli accordi economici che fomentano la globalizzazione e l’ordine internazionale che sostiene la globalizzazione si basa nel predominio militare americano”.

Ogni bel gioco, però, dura poco e i primi segnali dell’inversione di tendenza arrivano proprio dall’America Latina, dove i Ministri degli Esteri dei paesi dell’ALBA (Bolivia, Venezuela, Ecuador, Repubblica Dominicana, Nicaragua, Cuba), riuniti in Brasile, hanno proposto ai rispettivi governi l’espulsione dai loro paesi del personale in forza all’Usaid.

Nel comunicato diramato al termine del vertice, i capi della diplomazia del blocco democratico latinoamericano propongono il provvedimento di espulsione: “In ragione dei progetti che destabilizzano i governi, esercitando una indebita interferenza nelle questioni politiche interne” i paesi dell’ALBA “considerano che la loro presenza costituisce un elemento di perturbazione che attenta contro la stabilità e la sovranità dei paesi”.

L’USAID è accusata di finanziare giornali, ONG, partiti e organizzazioni sindacali - spesso inesistenti negli stessi paesi - in una chiara e sfacciata intromissione negli affari interni, con il proposito di cospirare ed elevare il conflitto politico interno. Nessuna opera caritatevole, nessun aiuto disinteressato, nessun beneficiario e men che mai anonimo: denaro copiosamente inviato a organismi anti-governativi che proprio in ragione del dichiararsi tali percepiscono quote significative. E il business gira: tanto più elevata sarà la capacità di questi di dimostrarsi attivi, tanto più alto, percentualmente, saranno le somme che arriveranno dall'USAID.

Quanto alla storiella degli aiuti disinteressati dell’USAID, i ministri degli Esteri latinoamericani affermano  di non avere “nessuna necessità di organizzazioni tutelate da potenze straniere che, in pratica, usurpano e debilitano la presenza degli organi dello Stato impedendogli di sviluppare il ruolo che gli corrisponde nello sviluppo economico e sociale delle nostre popolazioni”, conclude il documento.

Nelle stesse ore nei quali il documento veniva diramato, il governo di Washington negava il via libera ai crediti internazionali per il Nicaragua, a dimostrazione di come gli aiuti siano solo la faccia pubblica di politiche cospirative. I prossimi giorni diranno come si evolverà la questione, ma per quanti sforzi di maquillage la Casa Bianca metterà in campo, i suoi funzionari, anche se travestiti da volontari, dovranno fare le valigie.

di Mariavittoria Orsolato

E' finita nel peggiore dei modi l'avventura politica di Fernando Armindo Lugo Mendez, l'ex vescovo e teologo della liberazione che il 20 aprile 2008 venne eletto alla presidenza del Paraguay, imponendo una svolta a sinistra dopo 35 anni di feroce dittatura e dopo 17 di quella che i paraguayani definirono “democradura”, ovvero la lunga transizione ultra-conservatrice che seguì la fine di Alfredo Stroessner. Lo scorso venerdì il Senato di Asuncion ha ratificato l'impeachment del presidente, destituendolo dalla carica in quanto “responsabile politico” della morte di 17 persone.

Con 39 voti di condanna, appena 4 di assoluzione e due astenuti, il giudizio dei senatori ha seguito a tempo di record quello della Camera, estromettendo coattamente Lugo dalla presidenza e ponendo alla guida del Paese il vicepresidente in carica Federico Franco, esponente del Partido Liberal Radical Autentico, il più a destra tra i partiti dell'Alianza Patriotica para el Cambio.

Un politico che già agli albori dell’alleanza con Lugo, nel 2008, aveva destato sospetti sulla bontà e sull'onesta del suo impegno con l'ex monsignore e che in questi 4 anni di governo ha fomentato ben 22 tentativi di impeachment, riuscendoci solo al 23esimo. Ma andiamo per ordine.

Venerdì 15 giugno un gruppo di poliziotti che stava eseguendo un ordine di sgombero nella zona di Canindeyú alla frontiera con il Brasile, viene attaccato da tiratori scelti dell’esercito mimetizzati fra i campesinos che reclamavano terre per sopravvivere. L’ordine di procedere arriva direttamente da un giudice e da un pubblico ministero per proteggere un latifondista. Risultato: sul suolo di Curuguaty, la frazione interessata dal blitz, rimangono 17 morti, di cui 6 poliziotti e 11 contadini, e decine di feriti gravi.

Il “fattacio” viene immediatamente strumentalizzato dalla destra dell'oligarchia e dei latifondisti - in Paraguay, è bene ricordarlo, l'89% dei terreni è nelle mani del 2% della popolazione - che vede in esso un'irripetibile occasione per sferrare un duro colpo alla sinistra corporativa, di cui Lugo si fece a suo tempo alfiere, accusandola di fomentare l'odio sociale tra i campesinos e di minare così la sicurezza interna.

L'obiettivo, come scrive il giornalista paraguayo Idilio Méndez Grimaldi, è semplice: “avanzamento del commercio agricolo estrattivista per mano di multinazionali come la Monsanto mediante la persecuzione dei contadini e alla confisca delle loro terre e, infine, l’installazione di una platea conveniente all’oligarchia e ai partiti di destra per il loro ritorno trionfale al potere esecutivo nelle elezioni del 2013”.

Una chiara strategia di delegittimazione da parte di forti poteri esogeni - leggi: grandi multinazionali dell'agricoltura e i governi primomondisti che le assecondano - per riguadagnare il terreno perduto nell'onda socialista che ha travolto il Sudamerica durante gli anni zero e che ha riposizionato le priorità produttive e sociali dei maggiori esportatori di materi prime.

Il modus operandi con cui queste entità internazionali agiscono sul continente latinoamericano sono ben note (golpe e imposizioni di governi fantoccio ma assolutamente autoritari, accondiscendenti con le elites e sanguinari con il popolo) e il sospetto che il piano Condor non sia ancora stato archiviato non può avere in questo caso una matrice complottista.

Dati questi elementi, la manovra del parlamento paraguayano non può essere quindi vista altrimenti se non nei termini di un golpe. E poco importa che quest'ultimo sia stato portato avanti seguendo, a livello procedurale, tutti i crismi dell'iter costituzionale. Lo stesso Lugo nella sua prima apparizione pubblica dopo il voto del Senato, ha definito la sua estromissione un “golpe parlamentare”.

L'ex vescovo ha spiegato a una folla di circa 500 suoi sostenitori, radunati ad Asuncion e pronti a protestare, di aver accettato la sua estromissione pur ritenendola ingiusta per non creare problemi di sicurezza. Ha quindi invitato tutti a manifestare in maniera decisa ma pacifica, in modo da evitare nuovi scontri sanguinosi con la polizia.

Nella serata di venerdì le proteste di piazza sono infatti montate velocemente e ma sono state represse con l'usuale violenza nel giro di poche ore. Mentre da Argentina, Brasile, Venezuela, Uruguay, Bolivia ed Ecuador arriva immediata la condanna a quello che le rispettive voci presidenziali definiscono senza timore un colpo di stato. I primi quattro paesi ritirano i propri ambasciatori dal territorio paraguayano “finché non si ristabilisca la democrazia nel paese”, e lo stesso Venezuela di Hugo Chavez ha ordinato il blocco dei rifornimenti di petrolio al paese.

A venire messa in discussione è anche la stessa partecipazione del Paraguay alle comunità di Unasur e Mercosur; il provvedimento dell’espulsione da questi organismi è stato proposto dai paesi membri, in quanto sarebbero venuti a mancare i “principi che caratterizzano una democrazia”. La vigilanza da parte delle democrazie latinoamericane é quindi comprensibilmente alta. Lo spettro di una nuovo periodo di instabilità è infatti nuovamente calato sul Paraguay e il timore che i fatti di Curuguaty siano solo la miccia della polveriera che potrebbe spazzar via gli importanti traguardi raggiunti dalle democrazie sudamericane è tutt'altro che infondato.

 

di Carlo Musilli

L'Egitto ha un nuovo Presidente, ma il suo percorso verso la democrazia rimane un'incognita. L'ostacolo maggiore lungo la strada è il ruolo giocato dai militari, che con una serie di colpi di mano hanno svuotato di ogni legalità le ultime elezioni presidenziali, gettando un'ombra autoritaria sugli sviluppi politici dei prossimi mesi. Domenica è salito al potere il primo civile nell'intera storia della Repubblica. A quasi un anno e mezzo dalla caduta del "faraone" Hosni Mubarak, il nuovo leader ha finalmente un nome: Mohammed Morsi, membro dei Fratelli Musulmani, organizzazione islamica internazionale che in Egitto ha una ramificazione politica nel Partito Libertà e Giustizia. Morsi ha battuto alle urne Ahmed Shafik, uomo del passato regime, con il 51,73% dei voti contro il 48,27%. Uno scarto che vale quasi novecentomila schede.

"Sarò il presidente di tutti gli egiziani", ha promesso il neo-eletto dopo una settimana d'incertezza estenuante, in cui sia lui sia il suo avversario si erano a turno autoproclamati vincitori. Morsi è stato più volte schernito come "ruota di scorta", perché la sua candidatura è arrivata solo dopo l'esclusione di Khairat el Shater, il prediletto dell'organizzazione. Eppure, appena ottenuta l'investitura, il Presidente ha subito lanciato segnali d'indipendenza e buona volontà: come prima cosa si è dimesso dalle cariche nella Fratellanza, abbandonando anche la leadership del partito.

A quel punto sono arrivati gli annunci più importanti: Morsi ha garantito che rispetterà i trattati internazionali, compreso l'accordo di pace con Israele (firmato nel 1978 a Camp David da Sadat e Begin), e soprattutto ha promesso che "la rivoluzione continuerà". I Fratelli Musulmani hanno fatto sapere di non voler sgombrare Piazza Tahrir, simbolo della protesta scoppiata nell'inverno 2011 contro Mubarak. Anzi, Mohamed el Beltagui, uno dei massimi esponenti della Fratellanza, ha assicurato che il sit in proseguirà finché non saranno ritirate le modifiche alla Costituzione che attribuiscono enormi poteri ai militari. Un altro membro dell'organizzazione ha detto che il nuovo leader giurerà davanti al Parlamento appena sciolto. C'è però il forte timore che questo atteggiamento si riveli una posa opportunistica più che una vera contrapposizione.

Negli ultimi giorni sono circolate voci secondo cui l'annuncio della vittoria di Morsi sarebbe arrivato dopo una lunga trattativa proprio con i militari, che avevano sempre appoggiato esplicitamente il suo avversario. Il via libera al candidato musulmano sarebbe quindi frutto di un accordo in base al quale il Presidente non cercherà di porre rimedio alle ultime prove di forza che hanno sconvolto l'assetto istituzionale dell'Egitto.

In primo luogo la sentenza con cui la Corte costituzionale ha sciolto il Parlamento, giudicando non valida l'elezione di un terzo dei suoi componenti. La decisione ha reso vane le prime consultazioni democratiche nel Paese dopo le dimissioni di Mubarak, che avevano visto trionfare i partiti islamici, in particolare i Fratelli Musulmani. Risultato: il Consiglio superiore delle forze armate (Scaf) è tornato nuovamente padrone assoluto e ha formato un comitato per scrivere la nuova Costituzione.

Qui inizia il secondo tempo del colpo di Stato. Quando ormai avevano intuito che i musulmani avrebbero vinto anche le presidenziali, i militari hanno modificato la Carta in modo da accentrare nelle proprie mani il potere esecutivo e legislativo fino all'elezione del nuovo Parlamento, che comunque non potrà più metter bocca sulla Costituzione, perché nel frattempo la nuova Assemblea Costituente sarà nominata proprio dallo Scaf. Neanche a dirlo, è stata cancellata ogni forma di controllo delle istituzioni civili sull'operato dell'esercito.

A questo punto rimane da capire se e in che modo Morsi intenda opporsi a tutto questo. Anche volendo, i margini di manovra sono minimi: la sua presidenza è considerata "transitoria" proprio perché manca un Parlamento e un testo costituzionale definitivo. D'altra parte, ancora non è dato sapere quando saranno le prossime elezioni legislative, dal momento che la loro convocazione è subordinata proprio all'adozione della nuova Carta. Per il momento l'Egitto rimane in stallo. La "rivoluzione dell'11 febbraio" sembra già un ricordo lontano.

di Michele Paris

Dopo l’abbattimento di un aereo da guerra turco al largo della costa siriana venerdì scorso, la tensione tra Damasco e Ankara continua a rimanere oltre i livelli di guardia. Inizialmente, la reazione del governo di Erdogan era stata in realtà contenuta ma i toni si sono fatti più accesi a partire dalla giornata di domenica, con ogni probabilità in seguito a consultazioni con gli Stati Uniti, tanto che la Turchia ha chiesto per oggi la convocazione d’urgenza di un meeting tra i membri della NATO a Bruxelles per decidere la risposta da adottare nei confronti della Siria.

Secondo la ricostruzione delle autorità di Damasco, l’aereo turco, un jet F-4 Phantom, aveva violato lo spazio aereo siriano volando a bassa quota a pochi chilometri dalla città costiera di Latakia, non lontano dalla località di Tartus che ospita l’unica base navale russa nel Mediterraneo. Per gettare acqua sul fuoco, la Siria aveva subito dichiarato che l’incidente non rappresenta un attacco contro la Turchia, bensì “un atto in difesa della nostra sovranità”.

Da Ankara, subito dopo l’abbattimento, era giunta l’ammissione di un possibile sorvolo “accidentale” dello spazio aereo siriano durante una ricognizione di routine, mentre i due paesi si erano subito impegnati congiuntamente con squadre di soccorso alla ricerca dei resti del velivolo e dei membri dell’equipaggio.

Domenica, invece, Ankara ha optato per una linea più dura nei confronti di Damasco, sostenendo che l’aereo da guerra è stato abbattuto mentre sorvolava acque internazionali a 21 chilometri dalla costa siriana. Il Phantom dell’aeronautica turca era entrato brevemente nello spazio aereo siriano ma è stato preso di mira e neutralizzato svariati minuti dopo esserne uscito. Per Ankara, inoltre, le autorità siriane sapevano che l’aereo era turco e non avrebbero fatto nulla per mettersi in contatto con l’equipaggio.

Il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, ha così fatto sapere di aver chiesto una riunione di urgenza della NATO secondo il dettato dell’Articolo 4 del Trattato, che prevede consultazioni tra i 28 paesi membri quando uno di questi ultimi ritiene che sia minacciata la sua integrità territoriale, la sua indipendenza politica o la sua sicurezza. Com’è evidente, nessuna di queste minacce incombe sulla Turchia dopo i fatti di venerdì. Davutoglu, peraltro, ha evitato alcun riferimento diretto all’Articolo 5, secondo il quale è previsto un intervento armato dell’Alleanza quando viene attaccato un paese membro.

Come hanno dimostrato numerosi resoconti giornalistici in questi mesi, a ben vedere, l’ospitalità fornita dalla Turchia ai gruppi “ribelli” anti-Assad e il traffico di armi verso il confine meridionale grazie al finanziamento di Arabia Saudita e Qatar con la supervisione americana, appare se mai Ankara a rappresentare una chiara minaccia alla sicurezza e all’integrità territoriale siriana.

C’è da chiedersi, inoltre, quali sarebbero state le reazioni dell’Occidente e dello stesso governo Erdogan a parti invertite, cioè se un aereo da guerra siriano avesse invaso lo spazio aereo turco o di un altro paese della regione alleato degli Stati Uniti. In ogni caso, non è emersa finora alcuna evidenza del fatto che i turchi abbiano informato i siriani, come sarebbe stato opportuno, nel caso quella in corso venerdì sulle acque del mediterraneo sia stata effettivamente un’esercitazione, come sostiene Ankara. Una mancanza grave e foriera di conseguenze alla luce della profonda crisi che caratterizza i rapporti tra i due paesi vicini fin dall’esplosione del conflitto in Siria.

Ciononostante, dopo l’incontro di domenica con Davutoglu, il segretario di Stato USA, Hillary Clinton, ha emesso un comunicato ufficiale con il quale Washington ha condannato fermamente quello che è stato definito un “atto inaccettabile”. Sulla stessa linea d’onda è apparso anche il ministro degli Esteri britannico, William Hague, per il quale l’abbattimento del velivolo turco è stato un gesto “oltraggioso”. L’Unione Europea, a sua volta, ha condannato l’episodio e, nella giornata di lunedì, ha approvato una serie di nuove sanzioni contro Damasco nel corso di un vertice in Lussemburgo.

Anche se l’occasione è stata immediatamente sfruttata da alcuni governi per una nuova escalation dei toni contro il regime di Assad, la risposta di molti paesi è stata relativamente contenuta e si è risolta finora in un appello ad Ankara per mantenere la calma. Il meeting NATO di oggi contribuirà comunque a fare maggiore chiarezza su come i paesi membri intenderanno sfruttare l’incidente di venerdì per aumentare le pressioni su Damasco.

L’episodio del Phantom turco, secondo alcuni, potrebbe segnare una tappa importante nella crisi siriana e costituirebbe anche un messaggio esplicito lanciato alla Turchia, il cui governo islamista moderato è passato da poco più di un anno da una stretta partnership con Damasco - nell’ottica della cosiddetta politica di “zero problemi con i paesi vicini”, elaborata dallo stesso Davutoglu - alla dura condanna del regime di Assad.

Come ha scritto, ad esempio, la testata on-line Asia Times lunedì, l’abbattimento dell’aereo al largo di Latakia può mandare svariati segnali da Damasco verso la Turchia e i suoi alleati occidentali, tra cui quello che il sistema di difesa anti-aereo siriano è efficiente e letale, nel caso fosse nelle previsioni un’azione militare simile a quella riservata alla Libia lo scorso anno, e che Ankara sarà chiamata a pagare un prezzo se intende continuare a interferire negli affari della Siria.

A questo proposito, piuttosto esplicito è stato sabato il portavoce del ministero degli Esteri siriano, Jihad Makdissi, il quale, dopo aver smentito che il suo paese intende cercare un’escalation con il vicino settentrionale, ha affermato chiaramente che Damasco “vorrebbe che la Turchia cambiasse la propria posizione riguardo la Siria”.

Infine, l’azione della contraerea siriana di venerdì potrebbe essere stata sia una sommessa prova di forza da parte del regime di Assad, così da evidenziare i limiti della superiorità militare di Ankara, sia la dimostrazione di come la crisi in corso da oltre un anno in Siria potrebbe facilmente innescare un rovinoso conflitto regionale, con conseguenze pesanti per tutti i paesi vicini, a cominciare proprio dalla stabilità della Turchia.


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